Mi ha sorpreso una dichiarazione di Michael Wilton dei Queensryche a proposito dell’ondata grunge degli anni 90. Ha detto che la sua band è sopravvissuta semplicemente ignorando quella tendenza e tirando dritto per la propria strada. Ehm… aspetta un momento, Mick. E Hear In The Now Frontier? Ovviamente quel disco non è stato un break totale dal passato, come per esempio l’omonimo del 1994 dei Motley Crue o American Hardcore dei L.A. Guns, tanto per dire un paio di eclatanti (e inutili) voltagabbana stilistici.
Hear In The Now Frontier è, sia chiaro, un altro album d’autore dei Queensryche, realizzato appresso a un disco che, in modo assai discreto aveva dismesso già tutto l’ambaradan metallico e rockettaro (Promised Land) e riuscendo così, sottovoce, a non deludere i vecchi fans e a rinviare di tre anni ancora la resa dei conti, le polemiche e le accuse di tradimento in un tempo, il 1994-1998, davvero ingrato per le band storiche degli anni 80.
A inizio anni 90, però il gruppo aveva un tale credito da parte dell’intera scena, che se avesse realizzato un concept fusion sui Looney Tunes, il pubblico se lo sarebbe pappato senza neanche deglutire. Però già nel ’97, per molti appassionati, il mito di Geoff Tate e la sua band ha iniziato a sbriciolarsi. Non subito, ma dopo diversi ascolti prosciuttati di Hear In The Now Frontier.
Ricordo che quando uscì, le recensioni furono buonissime e le vendite in Italia buone, come sempre. Poi però sopraggiunse la lucidità e nelle pull di fine anno, i vari redattori scrissero, pur con una certa timidezza ma scrissero, che i Ryche, per la prima volta nella loro storia avevano deluso.
Oggi è palese quanto Hear sia stato un inciampo clamoroso. La media compositiva è sorprendentemente bassa. A parte The Voice Inside e spOOl, il resto è una piatta sviolinata grunge, con linee melodiche alla Chris Cornell e una produzione abbastanza innocua.
Parliamo chiaro, i Queensryche nel 97 non dovevano dimostrare niente, avrebbero potuto fare un altro concept iper-prodotto con qualche riffone classico, un po’ di Pink Floyd, una suite virtuosistica e si sarebbero portati a casa la pagnotta, adagiandosi in una routine progressive alla Rush. Purtroppo l’inquietudine che negli anni precedenti aveva spinto Tate/De Garmo verso i picchi di Operation ed Empire, adesso seguitava a spingerli altrove.
Non è che i Ryche si fossero decisi a cambiar genere per sbarcare il lunario, loro “usarono” il grunge perché il solito metal non gli offriva più stimoli e soprattutto erano convinti di avere una tale personalità da poter emergere comunque, in qualsiasi contesto stilistico, in quanto Queensryche, pure se avessero tentato con l’industrial o l’R&B.
Beh, non gli andò bene e ora vi dico il mio perché.
Prendete il binomio Outside 1./Earthling di David Bowie. Non era certo il Duca Bianco classico, ma una versione industriale e alternativa riplasmata dal novello guru di allora, Trent Reznor. Sono due album piaciuti molto alla critica e secondo me bellissimi.
Ma non era il Bowie classico. Solo che al tempo in cui uscirono, io me li ascoltai con grande giubilo e non ci feci caso.
E sapete perché?
Vi rispondo con un’altra domanda: ma voi lo sapete qual sia il Bowie classico? Quello di Heroes/Brian Eno o il rocker delle stelle Ziggy Vattelappesca?
La risposta è; entrambi, perché il vecchio David, riposi in pace, è riuscito a durare tutti quegli anni e realizzare quasi sempre grandi lavori, passando dalla disco alla canzone d’autore, dal rock al metal (Tim Machine) per una sola ragione. Non si è mai legato a nulla per più di un paio d’anni e ha compiuto il suo percorso verso la classicità finché è campato. Non ha detto, ok, adesso basta ripetere per altri vent’anni questo stile e sono a posto. Sapeva cosa avrebbe significato incagliarsi in una routine d’appartenenza a uno stile, a un genere.
E anche all’ultimo, da morto, non ha smesso di sfuggire alla propria ombra canonizzante, con un ultimo album che era Bowie senza essere il solito Bowie, quello classico che… chissà quale sia.
Tate ha sempre guardato ai big del rock e a David Bowie in particolare. Ha invidiato e anelato la sua capacità di sopravvivere ai decenni senza mai snaturarsi e sbugiardarsi, usando ogni genere musicale ma rimanendo sostanzialmente se stesso. Ma non è riuscito a compiere lo stesso miracolo. I Queen sì, gli U2 sì, almeno fino a Discoteque, i Metallica no.
E tornando ai Ryche, dopo dieci anni di metal ad altissimi livelli non puoi sperare di non essere chiamato metallaro.
E di conseguenza, Hear In The Now Frontier era un discreto lavoro, ma non era metal. E non poteva essere l’ennesimo colpaccio di un gruppo che va per la propria strada e non segue le tendenze, anche fosse stato un gran disco, cosa che in ogni caso NON ERA.
Col tempo Tate ha preso le distanze dall’album, ammettendo che c’erano troppe canzoni e probabilmente un sound distante dal cuore del gruppo, ma non è che i dischi successivi abbiano migliorato la situazione. Senza De Garmo, a partire dall’opaco Q2K fino all’ultimo e disdicevole Unknown Frequency, la band è sempre stata divisa tra il frontman, tiranno assoluto, deciso a tenere il gruppo lontano dai lidi heavy verso un rock adulto né carne né pesce, e il resto degli altri membri, che hanno sempre voluto invertire la rotta e tornare ai porti sicuri di The Warning.
Poi sappiamo come sono andate le cose. Un giorno c’è stato il patatrack decisivo. Tate è uscito sputando e denunciando, e il gruppo ha ripreso la strada di casa. Oggi i Queensryche suonano felici una innocua versione dei vecchi tempi, ma senza nemmeno un pizzico del genio e dello spessore che li ha sempre distinti dalla masnada di caproni U.S Power coevi.
A ben guardare è una direzione che forse accidentalmente si accorda con la tendenza del traditional metal.
Quindi, per concludere, caro Wilton, ma che se stamo a raccontà?