Addio Litfiba – L’anamnesi della nostalgia

Si dice che dopo i 35 anni le persone smettano di cercare nuova musica e inizino a muoversi all’indietro, rifugiandosi nei gusti e negli amori dell’adolescenza (inquieta), puntando sull’effetto retrò, e all’occorrenza agognando reunion, anche improbabili, di coloro che sono scomparsi dalle scene. Un ricettario che di fatto rende ammalato anche il paziente più sano. Il recente scioglimento dei Litfiba, dopo alcuni anni di agonia sonora, fatta di bassi (molti) e alti (davvero pochi), ne è la testimonianza diretta.

La loro fanbase non ha mai smesso di seguirli, amarli, adorarli, anche nelle notti più nere, quelle dove Gianluigi “Cabo” Cavallo (sette anni e tre dischi) e Filippo Margheri (meteora tra il 2007 e il 2009, apparso su un EP con qualche inedito e vari rifacimenti) hanno popolato più gli incubi che i sogni del pubblico fedele alla band, quello che mai ha rinunciato al sogno di rivedere Pelù insieme a Renzulli.

Oggi, dopo un lungo tour composto da ben 34 date, il 22 Dicembre 2022 al Mediolanum Forum si è svolto l’epilogo con l’ultimo concerto ufficiale dei Litfiba, decretando così lo scioglimento definitivo del gruppo. Non voglio ripercorrere la lunga e travagliata storia, basta scorrere Wikipedia o comprare qualche biografia apposita.

A me interessa fare un’anamnesi più sentimentale e personale dei Litfiba in quanto entità capace di entrare nella mia vita personale. Metto le mani avanti dicendo che il sottoscritto ha conosciuto e incontrato i Litfiba svariate volte, spesso per lavoro (giornalista) che per piacere. Ho conosciuto anche Cabo, e l’impressione che ricordo fu di una persona che doveva fare per forza il copycat di un predecessore ingombrante e insostituibile.

Fu un incontro strano, dentro una cabina simil container di una piscina di paese, dove la band si sarebbe esibita in una torrida estate a bordo vasca, tra villeggianti di paese e adolescenti in fregola. Cabo mi consegnò il press kit della EMI, Ghigo me lo autografò, e procedemmo all’intervista.

Un’atmosfera surreale, mi sembrava di essere dentro un musicarello 2.0, con una trama grottesca e a tratti disperata, almeno nella mia testa. Fu per me imbarazzante, perché leggevo il disagio dei due artisti, l’uno decaduto dagli stadi e dai palazzetti alle piscine di un paesino piemontese, che cercava, a tratti riuscendoci, di mantenere la dignità da rockstar quale era. L’altro, come detto, era costretto a recitare il copione di un personaggio non suo, come la matrioska più piccola che alla fine esce dalla serie delle altre bambole. Quella grande (Pelù) maestosa e colorata, scintillante, e l’ultima, quella microscopica (Cabo), che suscitava tenerezza, quasi come un cucciolo.

Anni prima avevo incontrato i Litfiba di sfuggita, durante il tour di El Diablo, poi ancora durante il tour di Spirito, dove potei intervistarli. Le due situazioni sembravano così assurde che mi sembrava di aver avuto a che fare coi Rolling Stones e poi con i Camaleonti, ma entrambi con le stesse facce e con gli stessi vestiti.

Poi ancora visti e intervistati per il tour di Stato Libero di Litfiba, in una condizione a metà strada tra il palazzetto e la piscina, con Ghigo distrattissimo (non saprei da cosa, visto che in quel backstage di un parco pubblico gironzolavano solo maschi), e Piero totalmente su di giri (bevuto? fumato? Chi si ricorda…), tanto che mi autografò vari album, rifiutandosi però di farlo con la raccolta Viva Litfiba, a suo dire una porcheria immonda e orripilante. Mi strappò la copertina del cd dalle mani e mi disse che me l’avrebbe stracciata. La sua compagna di allora lo fermò. Sarebbe stato un danno minimo, però ci sarei rimasto male.

Calmatosi mi dette una pacca sulla spalla perché, a suo dire, ero uno dei pochi ad avere una copia originale dell’EP Yassassin. Parlammo di Bowie, di new wave, bevemmo una birra e poi alle 3 di notte tornai a casa. Ecco, per me i Litfiba finiscono in quelle ore antelucane, e non il 22 dicembre 2022.

Già il fatto che non potevo godere della presenza di Maroccolo, Aiazzi e De Palma, ma solo di validi e preparati (ma sempre e comunque) session men, mi riportava alle varie definizioni “Of Fire” e “Inc” che nel metal sdoppiano impoverendo le formazioni storiche. La domanda retorica di quella notte fu dentro di me: chi sono davvero i Litfiba? Quelli della Trilogia Del Potere, tra dark e new wave, con Pelù a metà strada tra Stratos e Iggy Pop, quelli rock della Tetralogia Degli Elementi, più commerciali e sguaiati, oppure i nobili decaduti con il blasone d’oro e diamanti dentro le rovine del loro vecchio castello?

Oppure i risorti degli ultimi anni, alfieri della nostalgia e con nuovi album davvero inutili se non insignificanti? Per me sono tutti quanti degni di tale “verità”, perché quando la sorte li gettò nel punto più basso, nonostante tutto perseveravano.

Quando Pelù solista si lanciava nelle braccia della baldracca del mainstrem della cosiddetta “musica leggera”, duellando con Ligabue e Jovanotti, Ghigo non smetteva di scrivere riff, accordi, canzoni, innamorato della musica davvero, perché altrimenti non sarebbe venuto a suonare alle Piscine di Trisobbio il 14 luglio 2000.

Pelù non lo avrebbe mai fatto, lui si. E per me vale molto. I Litfiba hanno rappresentato un’anima mediterranea mista a quella europea, hanno mescolato la musica anglosassone, americana, latina e l’hanno trasformata e lavorata volta per volta in qualcosa di nuovo in grado però di rappresentare l’essenza italiana al 100%. Ci sono riusciti, e ora che non esistono più, non ho alcuna nostalgia. Perché ogni storia che inizia, necessita di finire, prima o poi. Ogni tanto mi capita di sognare che alla piscina c’era Pelù e non Cabo. Mi sveglio tutto sudato e mi giro dall’altra parte

(Marco Grosso)