Si tratta di una cosa che mi accade di recente. Quando sento che non ho abbastanza tempo per tutte le cose che dovrei fare, invece di affrettarmi rallento. Curioso, e probabilmente qualcuno direbbe sincronico, che abbia ascoltato una conferenza di Marco Guzzi (se non lo conoscete, ve lo raccomando, cercatelo su you tube e sentite cosa ha da dirvi) in cui afferma qualcosa del genere. Lui parla del fatto che oggi viviamo come se non ci fosse abbastanza tempo per fare tutto quello che c’è da fare. Non ciò che vorremmo, badate, ma ciò che dovremmo.
In Italiano non esiste (cit. Igor Sibaldi) un modo per descrivere quando vorremmo fare una cosa e quindi dovremmo farla. Voi dite, “dobbiamo andare a incidere il disco”, ma nessuno vi obbliga, giusto? Non è come dire, dobbiamo andare a lavorare. Eppure dite “dobbiamo”, e intendete che il dovere c’è ma viene da un bisogno interiore, impellente, di creare qualcosa.
Nella vita il dovere e il volere si mescolano in una serie di impegni che cerchiamo di inscatolare in momenti del tempo giornaliero o settimanale, seguendo una scaletta che vi farà correre. Non immaginate la scala a pioli ma quelle tipo Escher, almeno per il genere di routine che io mi costruisco la domenica in agenda, per il resto della settimana.
Chi me lo fa fare?
La famiglia, il lavoro mi impongono di andare in luoghi e fare cose, ma il resto? La cena al ristorante del martedì? Il corso di Kickboxing il mercoledì, il romanzo che scrivo ogni mattina, di nascosto, mentre i miei parenti dormono, dalle cinque alle sei, prima che il caos programmato dilaghi nella mia esistenza…?
Tutto questo è vita? La mia vita?
Guzzi pone il classico paradosso: in un tempo in cui la tecnologia avrebbe dovuto darci tempo per vivere, non abbiamo tempo a sufficienza.
Chiaramente è una trappola. Un’illusione nociva, questa cronica mancanza di tempo. Siete d’accordo?
“Se vi dicessi che avete tutto il tempo che vi serve?”, domanda Guzzi. “Se la sensazione angosciosa dell’assenza di tempo fosse il segnale che invece di sbrigarvi, scapicollarvi, sia arrivato il momento di fermarvi, respirare, mandare al diavolo quel fottuto treno in corsa e guardare le nuvole, le stelle, un quadro che non osservate da anni, sebbene sia appeso in casa vostra da generazioni?
Qui si ferma Guzzi e continuo io.
Cosa fate del vostro tempo?
Non lo so, posso rispondere per me. Io scrivo, leggo, suono, mi alleno, scopo, mangio, amo… Le prime cose che mi vengono in mente.
Nello specifico mi obbligo a scrivere (almeno tre giorni a settimana)
Nello specifico mi obbligo a leggere (porto avanti dai tre ai cinque libri tutti i giorni)
Nello specifico faccio cento flessioni ogni giorno.
Nello specifico dovrei suonare la chitarra almeno 30 minuti al giorno.
Nello specifico, sarei soddisfatto se potessi scopare tre volte alla settimana.
Nello specifico, amo ogni giorno, talvolta in modo quasi metodico, compiendo azioni che testimonino il mio amore per la donna o le bimbe che condividono l’esistenza con me.
Nello specifico mi sto rovinando il meglio della vita, reiterando in modo seriale tutto quello che mi offre piacere, appartenenza, consapevolezza e oblio da me stesso.
Sono almeno vent’anni che amo, scopo, suono, scrivo, leggo, mangio, mi alleno.
E mi sembra spesso di non avere abbastanza tempo per leggere tutto quello che ci sarebbe da leggere, tutto quello che vorrei scrivere e via così.
E questa è una balla.
Lo sapete perché?
Perché non poter leggere tutto ciò che vale qualcosa o scrivere tutto ciò che voglio è ovvio e inevitabile. Ma soprattutto inutile. E nonostante ciò, provo a compiere l’impossibile. E mi ci addanno, mi arrabbio pure se non ci riesco.
Perché affrettarmi a finire di leggere un romanzo per cominciarne un altro e un altro ancora? Il piacere è nella lettura, non nella quantità di libri letti. Potrei anche passare la vita a leggere un solo libro e trarne il medesimo piacere e arricchimento.
Perché rovinarmi la salute a scrivere articoli su articoli, decine di saggi, creare riviste?
Perché mi piace, d’accordo, ma ci sono tante altre cose che potrebbero piacermi. Sto solo reiterando la prima forma di godimento che ho sperimentato, ripetendola all’infinito, fino alla morte.
Sapete una cosa? Sognavo di essere uno scrittore alla Stephen King.
Ecco, prendete King. Se morisse ora lascerebbe centinaia di romanzi. Se fosse morto nel 1978, travolto da un Minivan, avrebbe lasciato comunque Carrie, Le notti di Salem, Una splendida festa di morte e una manciata di racconti. E non sarebbe cambiato nulla.
D’accordo, Dolores Claiborne ha provato che era anche un bravo autore, ma King non è nato per riscrivere il grande romanzo americano. Il suo scopo specifico era travolgere il mercato con un genere che fino a lì sembrava solo capace di offrire pochi spicci ai suoi più geniali autori (Shirley Jackson, Ugo Tarchetti, M.R. James).
Nel 1978 avrebbe potuto smettere e dedicarsi ad altro e invece ha continuato a scrivere best-sellers. Ha serializzato l’esperienza fino a farne un’industria multimilionaria. Ma dopo aver incassato milioni non ha smesso ancora. Ha proseguito, passando per sua stessa ammissione, l’ottanta per cento del suo vissuto chiuso in una stanza a ficcarsi il cuore e la testa sotto una coltre di incubi immaginari, mentre fuori dalla porta suo figlio aveva il broncospasmo e bisogno di medicine e sua moglie forse non lo amava più. Non sazio di un rifugio nella fantasia, per affrontare il mondo ha iniziato a drogarsi come Mick Jagger.
Ma non divaghiamo.
Prendete invece J.D. Salinger. Dopo King il mio sogno era diventare come lui.
Lui ha scritto Il giovane Holden, una raccolta di racconti stupendi e un altro libro che conoscono in pochi (Franny & Zooey). Poi ha smesso e si è ritirato a vita privata come Seneca, ma nel fiore degli anni, non da vecchio inutile alla stregua del filoso latino. Il mondo non ha capito questa mossa di J.D. e l’ha tartassato, perseguitato, provocato e giudicato per non aver seguitato a produrre fonti di piacere e d’emozione in serie, a eternare un’esperienza di scrittura intensa, fruttuosa e compiuta nel giro di alcuni anni di dedizione e annichilimento. Ha smesso ma perché? Poteva seguitare quell’inferno tutta la vita, cazzo.
Lui pare abbia continuato a scrivere in privato, infilando i romanzi in una cassaforte, senza pubblicarli. Alla fine c’è cascato comunque, poverino, ma il gesto rimane valido.
Un altro al posto di Salinger (e ce ne sono centinaia) avrebbe scritto ancora quindici romanzi e tonnellate di racconti. Il pubblico si sarebbe cibato di essi nella speranza di provare lo stesso piacere goduto con Holden e i Nove.
King se vivesse altri 30 anni, e io glielo auguro, realizzerebbe una stima complessiva di altri 50 libri. Il pubblico li acquisterebbe e li divorerebbe. La maggioranza di quel pubblico non leggerebbe altro, è statisticamente provato. Le casse dell’autore di Shining e Cujo continuerebbero ad accumulare milioni di dollari che un domani un cataclisma economico o geo-politico spazzerà via.
La vita di tutto noi è una serializzazione. Viviamo e poi ci addormentiamo in una serie di azioni sempre uguali. Tutto questo ci rassicura e ci ammazza dolcemente.
Mio padre è stato un grandissimo cacciatore e uno straordinario infermiere. Ora che è anziano è un uomo anziano stanco e debole su una poltrona che pensa alla caccia e a fare punture ai culi del mondo. Questo mi spaventa.
Le serie televisive mi spaventano. Su Netflix ce ne sono un numero enorme. Basta un play e vengo risucchiato in centinaia di ore spartite in file da 45 minuti. Contiunua… to be continued.
Quando morirò vorrei che qualcuno scrivesse questo sulla mia lapide. E voi?
Le serie televisive hanno successo solo ora, ma non sono nulla di nuovo. Prima c’erano i romanzi a puntate, le telenovelas e via così.7000 libri di fantascienza in un’intera esistenza (il compianto Giuseppe Lippi) è pur sempre spararsi una serie su mondi e dimensioni altre che vengono sempre dal medesimo posto: la mente nerd dell’uomo.
Quando è morto Lippi, che adoravo e rispettavo profondamente, andai a sbirciare il suo profilo facebook. I post degli ultimi tempi, sempre più rari, erano sempre su un libro di fantascienza che aveva in casa o che non leggeva da tempo e che avrebbe “dovuto” rivisitare.
Vogliamo fare sempre le stesse cose. Se in punto di morte scendesse Dio e ci desse un’altra settimana, cosa cambierebbe? Probabilmente nulla. Quella settimana fareste sempre le stesse cose. Io farei sempre le stesse cose, almeno non penserei che è l’ultima settimana che mi resta da vivere.
Una vita piatta, scontata. E per di più ci sembra che manchi il tempo per ripeterla e ripeterla.
Ma la ripetizione è un loop. Quando finisce un loop cosa finisce esattamente? Arriverà un giorno in cui sarò sazio di leggere libri? Arriverà il giorno in cui sarò libero dal sesso, dallo scrivere, dal suonare un cazzo di strumento per sentirmi un po’ bene o riempirmi le orecchie di musica caotica? Arriverà il giorno (o la notte) in cui per vivere in pace non dovrò compulsarmi l’uccello o il cervello su qualcosa di completamente inutile?
E se fosse già passato quel momento?
Se mi fossi volutamente incastrato in una trappola dove il tempo è insufficiente perché il percorso che faccio è sul posto, non va da nessuna parte, esattamente al contrario della vita che mi è stata data e che ho lasciato languire in una marcetta robotica insfinente.
Dobbiamo esistere per un po’ e sperimentare cose, certo. Però cerchiamo subito dei binari da seguire. Ci piace il lavoro fisso, la donna fissa, la passione fissa. E il giorno in cui il tempo si esaurisce (e non possiamo sapere quando sarà) rimarrà fisso soltanto il nostro sguardo cadaverico.
Avete mai osservato gli occhi di un cadavere? Non parlo di vostro nonno o di un padre. Lì ci mettete il cuore e chissà cosa vedete. Io intendo uno che non vi è niente. Ne ho visti tanti che non mi erano nulla. Li vestivo, li truccavo e li seppellivo.
Beh, lo sguardo che avevano era di grande stanchezza e di tristezza.
Lo stesso che abbiamo tutti il mercoledì pomeriggio, quando cala il sole, c’è traffico e avete ancora un sacco di cose che DOVETE fare prima di morire sfiniti e arresi al tempo che passa e al vuoto che resta.