Se fosse possibile, definirei la musica dei Naked Sun in questa maniera: un’immensa macedonia composta da diversi tipi di frutta, una miscela brutale e allo stesso tempo romantica, il lavoro sincronizzato di cinque chef che amano diversi tipi di cucina, di musica, di cocaina. (Max Vanderwolf).
Secondo Beppe Riva sono stati la rivelazione più originale dell’underground newyorchese, da anni a questa parte (e per questa parte si intende il 1992). Lo stesso Riva riconobbe nei Naked Sun un eclettismo fuori dal comune per il tempo. Sapete cosa vuol dire ecclettismo, vero?
Buffo perché io invece mi figuro gli anni tra il 1990 e il 1994 come i più vari, imprevedibili e fuori dagli schemi, per l’heavy metal. Probabilmente sono io a sbagliarmi. Però penso che gruppi come i Naked Sun o i Green Jelly, per citarne un paio al volo, esprimessero un bisogno di fusione di elementi distanti, persino all’opposto, nel tentativo di liberare la creatività e magari colpire al cuore tutte le schiere votate al thrash, al glam, al prog, al goth e a Frank Zappa imbastendo un linguaggio universalmente heavy.
Per Riva, i Naked Sun erano “avantgarde”, anche grazie ai loro show interattivi in cui la band esortava il pubblico a partecipare allo show con danze imprevedibili e rispolverava tematiche idealiste e psichedeliche tipiche della già allora vecchia controcultura, in una forma inedita di “neo-hippismo consapevole”.
Qualcuno avrebbe potuto infilare i Naked Sun nel calderone del crossover di quegli anni, e probabilmente la Noise sperò di ingannare almeno quel genere di pubblico, se non i “grungies”, ma questo gruppo non aveva nulla a che spartire col funk e il cambio costante di generi all’interno della stessa canzone, esprimendo per la maggior parte, un bisogno di espansione ed esplorazione della scuola progressiva anni 70.
Quello che io provo sul palco è fondamentalmente una sensazione di trascendenza. I Naked Sun stanno riarrangiando i cromosomi per una nuova generazione. (Max Vanderwolf)
Nel debutto dei Naked Sun ci sono momenti in cui non si sfoggia la tecnica e non si assembla provocatoriamente la fusion con il metal, ma si sospendono le classificazioni e le aspettative (e con esse il respiro) in attesa di capire cosa succederà, soprattutto quando Max Vanderwolf imbocca il sax o randella le tastiere.
Lui come voce non è sempre facile da digerire, bisogna farci l’abitudine, soprattutto nelle prime due tracce, The Moment e A Song Of Fire, quando alzando il registro, a un certo punto, gli vanno dietro i campanelli d’allarme di chi ascolta, sicuro che steccherà da qualche parte. E invece sa benissimo cosa sta facendo.
noi a non saperlo.
Riva non si risparmia e cita King Crimson e Black Widow. Sia chiaro, non esagera ma io ci metterei pure i Pink Floyd, Red Hot Chili Peppers, The Cult, Steve Wonder e David Bowie, omaggiato nella cover cazzutissima di Andy Warhol.
Sentitela, sembra un brano da paura dei vecchi Crimson Glory. Peccato che certi accostamenti, nel 1991-1992 non fossero ideali per coinvolgere il pubblico adolescente di allora, diviso a metà tra i Nirvana e i Metallica.
È interessante ancora recuperare alcune dichiarazioni di Vanderwolf, nel periodo promozionale dell’esordio, perché ci ricordano problemi che abbiamo rimosso. Leggete qui:
Ma, sai, ci sono molti dischi in uscita oggi – in realtà la maggior parte dei dischi delle big band – in cui hai questi ragazzi che non sono dei batteristi molto bravi ma suonano in modo fantastico sui dischi. Bravi ma non hai la vera atmosfera che dovrebbe avere la musica. Quando i Led Zeppelin hanno fatto un disco, cosa c’era di così bello nella batteria? Era Bonham, il bello. (Max Vanderwolf)
Capite? Allora c’era questo problema della qualità sospetta e impersonale dei batteristi e si invocavano i macina-pelli degli anni 70, con il loro tocco riconoscibile. Chissà cosa direbbe oggi Max davanti a questo profluvio di iper-tech drummers che invadono il metal attuale?
La Noise però ci credeva. Infatti Luca Collepiccolo fece presente su HM, nell’introduzione all’articolo-intervista ai Naked Sun, quanto l’etichetta tedesca avesse messo in piedi un battage pubblicitario notevole, augurandosi che potesse essere giustificabile.
I Naked Sun erano stati definiti da alcune riviste straniere, sempre secondo Collepiccolo, “la next big thing”. E lui confermò il valore del gruppo, parlando nel suo articolo di “alchimia stilistica”, per definire un sound che gli sembrava il risultato di una inspiegabile tessitura magica e non della consueta bravura da “studiati”.
E concludeva che sì, “la Noise, dopo aver perso i Voivod e rischiando di passare in un’altra divisione del campionato discografico, alla fine aveva messo a segno il vero colpaccio”.
E si spinse a dire una cosa del genere senza nemmeno aver ascoltato l’intero album, per sua stessa ammissione, ma solo il singolo A Song Of Fire. Anche Beppe Riva di quel pezzo aveva scritto cose irripetibili.
Ma al di là dell’esagerazione emotiva di certi critici, dubito che la Noise abbia davvero investito dei gran soldi sui Naked Sun. Basti pensare che il solo videoclip uscito se l’era girato la band da sola con un amico regista, in super-8, e non tanto per catturare lo spirito del Village, grazie alle rudi immagini di un’esibizione dal vivo del gruppo davanti a trenta post-hippie in visibilio, ma per ricavare un prodotto commercialmente appetibile senza l’aiuto della Noise, che dopo l’uscita dell’album e le vendite deludenti, aveva mollato subito la presa sui Naked Sun senza pensarci troppo.
Il gruppo realizzò un secondo album, Wonderdrug, che non era nemmeno brutto e tentava di inserire elementi più moderni (Shriek Of The Weak in apertura è decisamente grunge) ma i riscontri furono peggio che mai e tutto finì lì. Pecado.