Parlerò di Storia di fantasmi cinesi non tanto in merito ai contenuti filmici, per quelli avete già a disposizione siti, blog e vecchie riviste su ebay. No, io ne approfitto per tornare con la mente al periodo in cui comparve in Italia questo film davvero singolare per il mercato a cui eravamo abituati. Già vedere sulla locandina un rubizzo guerriero orientale (l’attore Wu Ma) che indirizza la propria foga verso un nemico oltre l’inquadratura, creava un senso di vuoto per il pubblico italiano.
Che razza di film poteva essere?
In effetti si trattava di un mix molto equilibrato di romantic story, horror e avventura fantasy, solo che nei videoclub finirono tutti per piazzarlo in mezzo a Nightmare e La casa 7, provocando uno strano effetto sul pubblico. Dalla locandina e l’estetica orientale, non faceva pensare a un film spaventoso, inoltre nel 1990-91, il pubblico italiano aveva in mente solo i cosiddetti film di Kung-Fu con Bruce Lee o Wong Yu-lung e magari i grossi melodrammi festivalieri in stile Lanterne Rosse. Solo due anni più tardi, Quentin Tarantino avrebbe scombussolato i confini del genere parlando ai critici e giornalisti che pendevano dalle sue labbra a Cannes, di black-exploitation, Fernando Di Leo e soprattutto John Woo e il cinema d’azione hong-konghese.
Ma quando uscì Storia di fantasmi cinesi, titolo così piatto e didascalico ma fedele all’originale A Chinese Ghost Story, non ci si poteva appigliare a nulla. Non si conoscevano i film di Tsui-Hark (in particolare la matrice assoluta del film di Ching Siu-tung, ovvero Zu. Warriors From The Magic Mountain, 1983) e nemmeno la saga di Mr. Vampire.
Oltretutto, dopo il successo in patria di A Chinese Ghost Story (che ebbe due seguiti e un remake nel 2011) il mercato di Hong Kong mise da parte quasi subito spettri e demoni e si concentrò sui gangsters, ma senza mollare il romanticismo spinto, la poesia, spesso la commedia e soprattutto il ritmo esagerato.
Personalmente accostai il film di Siu-tung a The Barbarians di Deodato per il ritmo, lo splatter e la comicità che condivano la storia, e a Gigi la trottola per la voce di Stefano Onofri, il doppiatore di Leslie Cheung nel ruolo del giovane e valente protagonista Ning Choi-san; ma era evidente, soprattutto per la componente orrorifica, il modello rocambolesco di Sam Raimi.
E la strategia di vendita in Italia, ricordo che si concentrò proprio su Evil Dead, presentando A Chinese Ghost Story come una versione Made in Cina di quel piccolo grande cult che tutti voi conoscete, risalente al principio degli anni 80.
L’influenza era chiarissima, così come la capacità dei cinesi di giocarci ad armi pari, tra riprese vertiginose, demoni salterini e lingue gigantesche in soggettiva disboscante.
Peccato che non si provino brividi nel film di Siu-Tung. Avrebbe anche potuto offrirne se il produttore Tsui Hark avesse voluto.
Il film infatti è tratto da una serie di racconti tradizionali recuperati e tramandati da Pu Songling, un’antologia uscita anche in Italia e che ho letto con moderato interesse.
Ma non solo, A Chinese Ghost Story è anche un remake, per molti versi fedele, di una pellicola cinese del 1960, The Enchanting Shadow, film di una certa risonanza anche in Europa ma che oggi sono riuscito a recuperare solo in lingua originale e senza sotto-titoli, infliggendomi i settanta minuti più lunghi della mia esistenza.
The Enchanting Shadow è davvero simile a A Chinese Ghost Story, tranne per le scene d’azione e le parentesi comiche. C’è la stessa drammatica storia d’amore tra un fantasma e un vivente, il demone tirannico che possiede la donna-spettro-lamia-vampiro e il tempio abbandonato a cui la gente del villaggio vicino si tiene diligentemente alla larga.
The Enchanting Shadow è un film d’atmosfera, sofferente, fatto di ombre malinconiche, fugaci impronte di sangue sulla pietra e soprattutto lunghe conversazioni, con dei notevoli momenti fantastico-terririfici che richiamano al gotico di Bava, così come nel 1987 Siu-tung rimandava alla violenza slap-stick dei demoni candariani dentro e fuori lo chalet isolato.
Però manca la paura, soppiantata dalle corse, i combattimenti, le capriole in aria e il salto di palo in frasca del vero mattatore di A Chinese Ghost Story, l’attore maturo Wu Ma.
Rileggendone sui libri e le riviste dei primi anni Novanta, ho scoperto che A Chinese Ghost Story fece capolino in sala ma senza avere il tempo di riscuotere un po’ d’interesse. Fu ritirato in fretta e ridistribuito nelle videoteche, prendendo la via del cult-movie anche da noi.
Sebbene allora tutti ne scrivessero con meraviglia ed entusiasmo, il film ci mise parecchio a guadagnarsi una vera possibilità con noi italiani. Del resto, basta prestare attenzione maggiore ai giudizi di quei critici per riconoscere una certa ansia da impreparati e la sufficienza per una scioltezza narrativa davvero troppo avanti rispetto alle più cafone comedy-action americane a cui erano tutti abituati.
A Chinese Ghost Story era una puttanata bella e buona, però realizzata tecnicamente in modo impeccabile. Inoltre c’era un senso di “scanzoneria” continuo che non impediva ad Hark e Siu-tung di sterzare verso il dramma, la violenza e la poesia.
La colonna sonora di Romeo Diaz (un filippino che ne realizzò parecchie per i film di Hong Kong, in collaborazione con il conduttore di talk show e paroliere cinese James Wong) è perfettamente in linea con le immagini. La si ascolta e si ridacchia non solo perché sentire i vocioni solenni di Wong e di Wu Ma è abbastanza esilarante, ma anche per l’eccesso di melensaggini melodiche di cui è composta. Però alla fine, nonostante l’impressione di pacchianeria, cresce un liberante senso di piacere e di dolce commozione a mano a mano che si entra in confidenza con il leit-motiv principale.
Oggi il film è invecchiato maluccio ma resta complessivamente d’impatto.