Wasted In America non ha più bisogno di essere rivalutato. È successo. Il mondo oggi lo considera, certo non alla stregua di Blackout In The Red Room, ma come una specie di degna prosecuzione della fase alta dei Love/Hate. Il periodo 1990-1992 è quello in cui la band ha vissuto al massimo delle proprie possibilità ed è il lasso di tempo in cui c’era davvero una specie di magia. È un fatto del resto che Wasted In America, appena uscito, sia stato accolto in modo piuttosto tiepido.
Nonostante le polemiche e gli scandali pubblicitari architettati dal gruppo e l’effettiva qualità del disco, ci fu chi ne scrisse male. Un esempio per tutti in Italia, Roberto “Robbo” Gandolfi di HM, il quale, tra l’altro introdusse l’intervista del 1992 a Jizzy Pearl con una nota interessante, scrivendo che “adesso le sonorità seventies di certe band sono state ribattezzate “street”.
Quindi la nascita della definizione “street metal” aveva come intento l’identificazione di quelle band hard rock e glam che al principio degli anni 90, si rifacevano sempre di più agli Zep e gli Aerosmith? Boh…
Gandolfi ne parla a proposito dei Love/Hate e di Wasted In America. E di esso ecco cosa sentenziò al tempo:
“Il nuovo lavoro dei Love/Hate ha purtroppo il sapore della sconfitta. Non è stato infatti sufficiente raddoppiare gli sforzi produttivi (!), incattivire il suono (?) diversificare l’impronta del gruppo con inflessioni sixties (!) e dare e dare spazio compositivo anche a Jizzi (scritto per tutto l’articolo con la i, ndpc) il secondo episodio dei californiani manca proprio a livello di songwriting e nel mare magnum di una sconsolata piattezza creativa si salvano tre pezzi al massimo (la title-track, il singolo (?) e Social Saidewinder) (scritto proprio così e non Sidewinder, ndpc). Il resto sopravvive per merito di una testualità naive quando diretta, naturalmente (e forse inconsapevolmente) tesa a destabilizzare la logica di benpensanti e moralisti, quanto a stimolare l’elettroencefalogramma piatto di milioni di americani castrati da TV e media”.
Quando leggo cose di questo genere devo fare i conti con l’idealizzazione che al tempo mi ero fatto di certe penne, ma lasciamo andare.
Questo brano ci dice più che altro quanto fosse dura nel 1992 soffermarsi il tempo necessario sui Love/Hate. Era un periodo di transizione che non vi sto a ridire, c’era davvero tanta roba nuova in giro e si notava questo stacco tra le band di Los Angeles che avevano dominato i precedenti cinque anni di mercato e le nuove realtà più promiscue.
La band di Jizzy Pearl non si era mai sentita vicina ai Motley Crue o ai Warrant. Era più per i Jane’s Addiction o i Cult, gruppi che non c’entravano nulla con l’heavy metal cotonato o se ne avevano fatto parte, come era capitato ad Astbury e Duffy, fu per un momento e senza perdere mai la propria identità zingaresca (Sonic Temple).
Eppure il mercato aveva accolto Blackout In The Red Room come l’ennesimo fenomeno festaiolo di Los Angeles e ancora oggi questo album è inserito tra i cinquanta migliori del glam metal, alla stregua di Stick It To Ya degli Slaughter o Skrew It dei Danger Danger, per intenderci.
Ma è abbastanza chiaro che nessun brano di Red Rome c’entrava qualcosa con quella roba. Poteva rappresentare una validissima evoluzione verso le nuove tendenze anni 90, ma per il pubblico, guidato da MTV e dalle grandi etichette, fu il canto del cigno di un genere ormai agli sgoccioli.
I Love/Hate allora erano trattati con poca pazienza dai giornalisti, e attenzione quasi nulla da un pubblico ormai “esodato” da L.A. verso Seattle.
Ovviamente questo fallimento, che Gandolfi definiva “sconfitta” fu il modo più diffuso di considerare Wasted In America. Portò a una fase di grande amarezza per la band, con capitan Jizzy che non escogitò niente di meglio a parte lagnarsi della Columbia in tutte le interviste promozionali.
Un passo indietro, però. Tutto cominciò male con il trasferimento del gruppo a New York. E di questo ci parla John E. Love.
“New York è stata un’esperienza a dir poco… l’intera città è allestita come un parco giochi per la decadenza di una rock band. Sfortunatamente le feste interferirono con la realizzazione di Wasted In America. Sai, era una fantasia di Skid e Jizz vivere al Village e restare nei vecchi ritrovi dei nostri coetanei. Quando la Columbia disse che era ok andare a vivere tutti insieme in quella città, così da lavorare sodo tutti insieme all’album, io rimasi scioccato. Ci costò un sacco di soldi trasferirci lì e creare una residenza per noi quattro. Inizialmente volevamo fare “Wasted” all’Electric Ladyland, dove Hendrix aveva registrato, ma a causa del limitato budget optammo per i Power Station. Quando entrai agli Electric Ladyland tempo dopo, rimasi sorpreso dall’aura e dall’atmosfera che aveva quella stanza. Vorrei che avessimo fatto lì il disco”.
Ancora:
“Wasted” è stato uno strano disco per me. Avevamo avuto un piccolo successo e la Columbia era ancora a bordo in quel momento. Inizialmente volevamo Dave Jerdan (Jane’s Addiction, Alice In Chains, RHCP, ecc.) per produrre l’album, ma non era disponibile, quindi l’etichetta ci dette John Jansen. Non fraintendetemi, penso che John sia un bravo ragazzo e un grande produttore, semplicemente non capì bene quello che stavamo facendo. Inoltre, poiché avevamo imparato per tentativi ed errori come produrre noi stessi i demo, penso che forse eravamo un po’ diffidenti nei confronti degli estranei… Penso ancora che i demo di “Wasted In America” siano migliori del disco. La resa non era così raffinata, ma la magia che avevamo catturato compensava il resto”.
A peggiorare l’umore del gruppo ci fu la decisione della Columbia di far uscire come singolo Evil Twins, molto prima che fosse pronto il nuovo album. La band non era per niente d’accordo, lo riteneva prematuro e poco strategico, ma la gente aveva bisogno di carne fresca per stimolare gli appetiti e fare concerti su concerti a supporto di Black-Out, dopo un anno e mezzo dalla sua uscita, non bastava più.
Secondo Jizzy, Skid e gli altri, l’etichetta aveva sbagliato singolo di lancio, per cominciare. La scelta di un pezzo come Happy Hour era decisamente inappropriata e il video che fu girato era troppo disturbante per il pubblico bubble-guffies di MTV.
Ecco cosa ne dice ancora oggi Pearl:
“Ripensando a quando la Columbia Records ha insistito per pubblicare ‘Happy Hour’ come singolo principale dell’album, invece di ‘Miss America’, beh, quello fu un preciso errore da parte loro. Un dirigente di una casa discografica, in particolare, pensava che noi fossimo la seconda venuta dei Chili Peppers, e non quello che volevamo essere, vale a dire una rock band che poteva passare alla radio. Volevamo che la canzone ‘Miss America’ fosse il singolo, l’etichetta britannica aveva già dei dischi stampati. Quando ‘Happy Hour’ uscì e passò inosservato negli Stati Uniti, fummo incolpati noi dall’etichetta e agli occhi loro cademmo in disgrazia”.
Happy Hour non era un brutto pezzo, secondo me, però di sicuro c’erano singoli di lancio più appropriati per accalappiare un pubblico vario. Miss America non avrebbe cambiato di molto le cose, dai. Nulla di quello che c’è in Wasted In America, se fosse stato scelto al posto di quel singolo o di qualsiasi altro brano scelto dalla band, avrebbe potuto invertire la rotta, perché, oggi è una cosa indiscutibile: l’intero flusso promozionale e culturale che aveva favorito i Love/Hate, portandoli in cinque anni da una serie di demo di culto al contratto da un milione di dollari con la Sony, quel flusso era cambiato e i Love/Hate erano stati lasciati in un canale dimensionale ormai prosciugato. E lì rimasero.
Di nuovo la parola a John E. Love:
“Avevamo un contratto per due album con la Sony. Il nostro primo disco aveva venduto bene e il secondo era uscito e non vendeva neanche a calci. Non voglio sedermi e dare la colpa a nessuno perché è così che andò, ma quel fottuto singolo che l’etichetta aveva scelto era sbagliato. “Miss America” magari non avrebbe funzionato nemmeno quello, ma era di sicuro più morbido, commerciale, più adatto alle radio. A quel tempo dovevi andare in radio. Quello era il tuo biglietto per tutti i concerti, MTV e il resto. Se avevi una canzone che rimaneva impressa al pubblico era fatta. Mettila in questo modo, gli Alice In Chains erano anche loro con la nostra etichetta. Beh, quando uscì “Man In The Box”, la Sony si era presa tutto il merito del successo del gruppo, ma la verità era che non sapevano davvero cosa fare di loro quando li lanciarono. Ero amico di Layne Staley e lui mi disse che la Sony non sapeva come gestirli, ma “Man In The Box” rimase in radio a lungo. Le stazioni radiofoniche degli anni novanta, settimana dopo settimana, l’avevano spinto. Era il potere della loro musica, non la magica casa discografica. La Sony aveva Bruce Springsteen, Barbara Streisand e cose del genere, quindi non sapevano davvero come commercializzare ragazzi che saltavano in giro come i Red Hot Chili Peppers e suonavano metal. Hanno preso un paio di decisioni sbagliate e quando prendono le decisioni sbagliate finisce per essere colpa della band, se la band poi non vende dischi. Quindi è quello che è successo. Skid e Jizzy preferirono denunciare cosa ci stava succedendo, sperando che le cose cambiassero, ma alla fine, se non vendi i dischi, sei fuori. Se sei un completo incasinato ma vendi 15 milioni di album, l’etichetta ti coccolerà, dandoti quello di cui hai bisogno, ma se non vendi niente sei solo un coglione e vogliono che ti togli dai piedi il prima possibile”.
I Love/Hate capirono presto come stavano le cose. L’exploit dell’esordio, con i grandi tour e la popolarità in Inghilterra, avevano sollazzato solo in parte la grande voglia di riscatto di quei quattro ex-morti di fame. Le antennine della paranoia erano ben dritte e la paura che le cose potessero non riconfermarsi per un altro giro, divenne presto la loro principale fonte d’ispirazione creativa e attitudinale.
Una volta che videro manifestarsi l’incubo della retrocessione e del fallimento, iniziarono a dare di matto, ma non si arresero e decisero che se qualcuno aveva deciso di togliere al gruppo ciò che per cinque lunghi anni fatti di pazzia, violenza e follia si era conquistato, quello stronzo avrebbe dovuto passare qualche brutto momento prima di scordarsi dei Love/Hate.
I Love/Hate erano davvero una band rock and roll di razza. Una volta sotto contratto con la Columbia, oltre a produrre un disco spaccafinestre, non ci misero molto a fare i casini tipici delle rock band. Prendete i Motley Crue o i Guns And Roses: camere d’albergo distrutte, scandali sessuali, droghe eccetera…
La band iniziò con una serie di risse epiche durante i tour con Skid Row e Ac/Dc, poi passò a fare dichiarazioni molto compromettenti sul mondo discografico e infine le disse davvero grosse sulle sostanze stupefacenti. Ci pensò Skid a diffondere una visione iper-legalista delle droghe leggere:
“Quando i Beatles composero “I Am The Walrus” erano tutti fatti. Tutto il progetto Sgt Pepper fu determinato dall’eccessivo uso di LSD. Sono le cose che mi fanno impazzire. Non sto dicendo che farsi le canne sia salutare ma quando sento parlare di censura o guerra in Iraq, mi viene proprio voglia di farmi una fumatina. D’altro canto l’ho fatto ogni giorno della mia vita da quando avevo dodici anni… Insomma, se legalizzassero le droghe, si risolverebbe il problema della mafia e lo spaccio!”
Oggi ste cazzate fanno sorridere ma al tempo, in America, dopo che le dichiarazioni Skid girarono nei notiziari, costarono alla band un periodo di embargo dai media che durò mesi e mesi, fin quasi all’uscita di Wasted In America, quando Jizzy si inventò la storia che non erano i giornali a non cagarli più ma loro a essere in silenzio stampa.
Ecco cosa disse a Metal Shock nel 1992, per spiegare il problema con la stampa: “Il periodo di interruzione di rapporti con la stampa è stato fondamentale. Ci ha aiutati a capire noi stessi. Ci siamo parlati, confrontati, anche sconfessati in un certo senso. Personalmente ho capito tante cose; nel corso di molte interviste mi sono dilungato a lamentarmi di come venivamo trattati quando eravamo una band emergente. Furono necessari quattro anni per raggiungere un contratto discografico e allora mi sembrava un’eternità. Adesso penso sia esagerato pensarla così.
E riguardo l’intervista sbagliata di Skid Rose, Jizzy disse sempre a MS: “Un giorno ti arriva a casa un giornalista e che tu però conosci da parecchio tempo. Ci cominci a parlare del più e del meno, arrivando all’argomento pot con molta naturalezza e, con altrettanta leggerezza, ripeti quello che dici di continuo tra i tuoi amici più intimi, i quali condividono con te l’uso e la passione per certe sostanze. Beh, quel pezzo di merda di giornalista ci ha fatto il suo cazzo di articolo. Che non si sia firmato col suo vero nome è la prova che aveva la coscienza sporca”.
E a proposito di non sbottonarsi con i giornalisti, ecco cosa segue nella stessa intervista.
Il tizio di Metal Shock gli dice: Okkk Jizzy… Il tuo secondo album, Wasted in America, è uscito di recente. La Columbia sta promuovendo questo album tanto quanto ha spinto Blackout in the Red Room ?
E Jizzy sparò merda sulla propria etichetta come se davanti avesse un roadie ubriaco abituato a sentirlo sclerare.
John E. Love commenta molti anni dopo: “È una cosa piuttosto brutta da fare quando la tua etichetta ha investito una quantità eccessiva di denaro nella tua band e non stai facendo cifre da platino. Devi ricordare che il grunge era il re della collina in quel momento. Il tempismo ha avuto molto a che fare con la nostra mancanza di successo finanziario. Eravamo i preferiti dalla critica, ma non vendevamo dischi ed eravamo rimasti tutti delusi dalla situazione. Questo è quando le cose iniziarono a peggiorare, sia internamente al gruppo che con la Sony. Ma quando la Sony aveva acquistato la Columbia, c’erano stati dei cambi di personale e alcune delle persone che ci avevano aiutato, credendo in noi, furono licenziate e allora…”
Jizzy e Skid stavamo esplodendo di rabbia e così pensarono a una trovata che costringesse il mondo a ricordarsi di loro, a parlarne e stimolare l’etichetta a puntare ancora soldi su Wasted In America, ma le cose presero davvero una piega grottesca e non portarono nulla di buono.
LA CROCEFISSIONE DI JIZZY PEARL
L’idea iniziale era di crocefiggersi tutti e quattro sulla scritta Hollywood e aspettare l’arrivo dei giornalisti. Sarebbe stato un incatenarsi polemico contro il sistema discografico o qualcosa del genere. Andò a finire che solo Jizzy se la sentì di farlo. Si fece legare a una croce piantata alla base della Y. Gli altri lo mollarono lì illudendosi che presto qualcuno si sarebbe accorto della cosa e avrebbe chiamato il 911, scatenando il caos mediatico…
Purtroppo per lui le cose andarono un po’ diversamente. Ci volle parecchio prima che un testimone si accorgesse della faccenda e occorse ancora più tempo per i soccorsi di raggiungere Pearl sulla scritta e tirarlo giù. I telegiornali fecero il servizio, certo, l’America ne parlò per qualche ora, ma tutti conclusero che il gesto di Jizzy era stato un patetico tentativo di guadagnare attenzione. E in realtà era proprio così, ma lui e il resto del gruppo cercarono anche dopo di condurre il mondo verso interpretazioni più auliche.
Dichiarazione di Jizzy risalente a pochi mesi dopo la crocefissione: “Il motivo per cui l’abbiamo fatto non era perché volevo fare notizia, o sui giornali, o andare da “Oprah”. Il motivo principale era per me e per la band. Era una dichiarazione che la band sentiva di dover fare in un momento in cui eravami al sicuro nelle nostre menti. In questo modo, stavo tornando a quel disprezzo adolescenziale dell’autorità su cui ho prosperato quando ero un bambino. Se chiedi a un bambino perché vandalizzi qualcosa, la sua prima risposta è: perché è divertente. Vedi, il nostro secondo disco, uscito di recente, è un po’ più prodotto, più finto, capisci? Io in fondo sentivo questo, e volevo riaffermare l’atteggiamento ribelle che mi aveva portato al solenne giuramento nei confronti dei miei fans e che sentivo di stare infrangendo. A volte devi farlo, che si tratti di uno schermo pubblico o privato: spacchi tutto e riprendi più puro di prima.
Ma dopo più di vent’anni, Pearl può dirlo, anche se non c’è mai stato bisogno, in fondo. Si è sempre capito: “L’idea di farlo risale al 1987. Eravamo al verde, arrabbiati e disperati… e c’era il cartello lì davanti agli occhi di tutti, una specie di derisione per noi. Ho pensato che forse ciò di cui la nostra band aveva bisogno per dare il via alla nostra carriera fosse un sacrificio umano vecchio stile!”
Dal 1987 al 1992, Jizzy aveva deciso di giocarsi la carta della crocefissione per salvare una carriera ormai lanciata sì, ma poco dopo in caduta libera.
E a proposito della produzione di Wasted In America… Il gruppo disse di averci lavorato un po’ troppo, rispetto a Blackout, e che questo era sintomo di un allontanamento spirituale dalla fonte primaria del rock and roll. Andiamo a vedere meglio come stavano le cose. Riprendiamo l’intervista ad HM del 1992:
Skid Rose: Non vogliamo nessun produttore in studio, nessuno stronzo può venire in studio con noi, guadagnare mille dollari al giorno e telefonare a chi gli pare mentre noi lavoriamo sui pezzi e poi, quando ne ha voglia ci dice quello che lui ha intenzione di fare con la nostra musica! Sai, una cosa, noi avevamo un producer, ma lo abbiamo mandate a fare in culo perché, vedi, quello stronzo non c’era mai stato quando creavamo, quando sputavamo l’anima in tour… i produttori servono a realizzare dischi conservatori, che non creino grane alle etichette, mentre noi volevamo essere ancora più aggressivi e quindi abbiamo pensato fosse giusto fare da soli. Noi non crediamo di essere esperti musicisti o tecnici, ma abbiamo sempre saputo cosa possiamo fare con la nostra musica e nessun produttore del cazzo ce lo può venire a insegnare.
Jizzy Pearl: Abbiamo registrato Don’t Be Afraid su un misero otto piste, lo abbiamo arrangiato da soli e funziona a meraviglia. Non riesco a immaginare il motivo per cui dovrei baciare il culo a un produttore, pagargli ogni respiro che fa e permettergli di venirmi a dire quello che debbo fare con la mia musica.
John E. Love molti anni dopo spiega un po’ le cose:
“Skid e Jizzy erano arrabbiati con i produttori in generale, a causa di una pessima esperienza con Tom Werman.
Tom era un grandissimo produttore. Aveva una cosa come 20 dischi di platino in carriera, tra Motley Crue, Dokken, Blue Oyster Cult… Era un gigante per noi. Fu lui a negoziare il contratto a sei cifre con la Columbia, quindi dobbiamo ringraziarlo a prescindere, ma diciamo che quando entrammo in studio per incidere il primo album, le cose non furono meravigliose. Andammo allo Studio 101, che è lo stesso in cui i Metallica avevano trascorso un anno a registrare il Black Album, e lì incidemmo tutte le tracce di base di Blackout. Nei primi giorni, notammo che Werman era sempre al telefono a parlare con qualcuno, invece di essere nella sala di controllo con il tecnico del suono Duane Byron. Werman aveva avuto molto successo l’anno precedente, con quattro top 10 nelle classifiche e aveva portato la stessa squadra con cui aveva realizzato Dr. Feelgood dei Crue. Avevo registrato le demo per l’album e praticamente tra Duane, un altro ingegnere del suono chiamato John Purdell (RIP) ed io, avevamo cercato di prendere quello che avevo fatto e migliorarlo. Dopo aver realizzato le tracce di base, andammo agli Oceanside Studios per fare le sovra-incisioni e avevamo programmato di mixare in un altro posto chiamato Conway Studios. Bene, in breve, sprecammo un sacco soldi. Werman e io avemmo una grande discussione sul tipo di macchina multi-traccia che voleva usassimo; ero fermamente convinto di cavarmela alla grandissima con due vecchie tavole mie: avevano quella che consideravo “magia”, ma lui insistette sul fatto che usassimo questo nuovo registratore digitale a trentadue tracce. Vinse lui, era il boss, quindi dovemmo noleggiare questa cosa complicata e super-moderna per tutto il periodo di registrazione. Non solo gli pagammo una somma di cinque cifre, più quattro punti percentuali di vendite future per il suo lavoro di produttore – che consistette nello stare al telefono il più del tempo per i cazzi suoi – ma in seguito si è scoperto che era in parte proprietario della macchina multitraccia che ci aveva imposto di noleggiare, quindi stava ricevendo soldi anche per quello! Immagino avesse bisogno di mungerci il più possibile. Quindi il suo team mixò il disco e lo consegnò alla Columbia. David Kahne, il ragazzo di A&R dell’etichetta, disse che i mix non avevano l’impatto delle mie demo ingegnerizzate! Così andammo in un altro studio e spendemmo altre cinque cifre per remixare più della metà del disco! Tutti quei remix cercavano di emulare ciò che avevamo fatto gratuitamente su una piccola cassetta a quattro tracce. Dopo tutto questo usammo una versione modificata del mio demo per “Blackout In The Red Room”, come singolo di apertura. Storia vera! Capisci perché per Wasted In America eravamo un po’ sulla difensiva riguardo la questione del produttore?”
ESSERE WASTED IN AMERICA
“Wasted in America è un po’ più leggero. Il titolo è una canzone contro la droga, nel senso che i George Bush del mondo possono parlare della guerra alla droga quanto vogliono, ma c’è ancora un ragazzo all’angolo di una strada che vende crack e ci sarà sempre. Quando dico “sprecato”, non intendo una cazzata. Intendo gioventù sprecata”. (Jizzy Pearl)
Il secondo album dei Love/Hate è pieno di ottime canzoni. C’è la title-track, sagace apologia anarcoide della generazione cresciuta a pane, droghe, TV e alienazione, a cui la band sentiva di appartenere, poi ci sono le iper-melodiche Miss America e Don’t Fuck With Me, che ancora oggi rappresenta un momento di grandissima audacia per una band metal: un inno all’integralismo razziale che attraversa ubriaco la sottile linea tra il Live Aid e gli Steel Panther.
Ci sono episodi di sporchissimo e imperdonabile sex and roll (Spit, Cream) ed episodi più prossimi alle cupe e depressive risacche grunge-metal (Don’t Be Afraid). La mia preferita tra tutte le tracce dell’album è Social Sidewinder, davvero la cosa più vicina a She’s an Angel, che resta il pezzo più alto mai scritto dai Love/Hate.
Nonostante l’impatto nullo di Happy Hour come singolo, il gruppo partì in tour accusando una flessione nervosa galoppante annaffiata di alcol e droghe varie.
John E Love: “Già durante il tour di Wasted, Skid era fuori controllo, iniziò a usare i soldi della band per finanziare uno stupido film che voleva fare con Jizzy e con il vecchio cantante dei Data Clan Hollis. A Hollis fu permesso di venire in tour con noi sia per riprenderci che in veste di tecnico del basso di Skid, ma era un tale alcolizzato che non era in grado di combinare nulla. Quindi all’improvviso il mio tecnico della chitarra stava facendo due lavori e Hollis correva in giro cercando di essere Francis Ford Coppola con la macchina da presa! Era ridicolo: una macchia di follia guidata dall’alcol”.
All’interno del gruppo si creò una guerra di nervi che portò Skid a ostracizzare John, in quanto guastafeste. A sentire John E. nulla sarebbe servito: la band era fuori dai piani della Columbia, fare un film era uno spreco di soldi, c’era troppo alcool in giro, e allora basta. fanculo! Minacciò il resto della band che se non avessero licenziato Love, se ne sarebbe andato lui, ricordando loro che era “solo” il principale compositore, oltre che autore delle copertine dei dischi, tratte dai suoi quadri.
John E. Love: “Quando siamo scesi dall’aereo, alla fine del tour, ho deciso di fare loro un favore e di andarmene io. Skid mi ha chiamato per dirmelo, ma prima ancora che potesse aprir bocca gli ho detto io che ero fuori. “Buona fortuna e buona liberazione: c’erano troppi tradimenti, bugie, inganni e troppi soldi sprecati. Fu doloroso perché Skid, Joey e io stavamo insieme dal liceo, ma ne avevo abbastanza. Mi stavo lentamente uccidendo con alcol e droghe e sapevo che sarei morto se qualcosa non fosse cambiato. Senza il rispetto dei miei compagni di band e alcuni brutti crolli, era tutto troppo per me, quindi ho lasciato il posto”.
Dopo Wasted In America e la defezione di John E. Love, la band proseguì incidendo una serie di album sempre meno convincenti con etichette indie. Tra tutti si salva il terzo, Let’s Rumble. E al proposito, come direbbe il Fuzz, forse non tutti sanno che…
Jizzy: “Let’s Rumble ebbe il più grande successo radiofonico nella carriera della band, visto che “Spinning Wheel” è stato trasmesso davvero tantissimo. Ma noi eravamo ormai con una piccola etichetta, la Calibre e non avevamo la distribuzione adeguata per cavalcare il successo di quel pezzo. Eravamo in tour con una hit radiofonica nella top ten e i ragazzi si avvicinavano e dicevano: “non riusciamo a trovare il vostro disco da nessuna parte”. Questo prima che Internet prendesse davvero piede. Troppo poco e troppo tardi”.
Concludiamo con un aneddoto divertente, perché se siete arrivati fino a qui, dopo un articolo estenuante e dalla conclusione triste e deprimente, meritate di andarvene con un piccolo sorriso.
I LOVE/HATE E IL VIOLONCELLISTA
Skid Rose: Sai, ci piace usare i suoni veri, non una tastiera che li riproduce, capisci? Beh, per Blackout abbiamo ingaggiato questo violoncellista perché desideravamo avere il suono di un vero violoncello su un nostro pezzo (She’s An Angel). Ecco, il tipo era un palo nel culo. Si lamentava tutto il tempo che non riusciva a suonare con noi perché non andavamo a tempo mentre lui, che aveva studiato, sapeva andare a tempo. E così gli abbiamo detto di incidere le quattro cazzo di note che doveva fare e levarsi dai coglioni.