Si usa tirar merda sugli In Flames, almeno è ciò che avviene nella mia piccola bolla di contatti metallici. Difficilmente percepisco qualcosa di più positivo del commento: “però fanno la crana, mentre Strömblad fa la fame”.
Di conseguenza è contro questo piccolo stuolo di denigratori della mia tribù algoritmica che mi schiero, riguardo le vicissitudini degli In Flames. Prima però va sempre specificato chi è il pontificatore e quindi vi dico che non sono un fan della prima fase. Non amo Lunar Strain, non reputo The Jester Rice uno dei lavori più importanti della storia del metal e non considero Whoracle l’ultimo grande album della band.
Secondo me sia Lunar Strain che The Jester Rice non erano prodotti da una vera band, si trattava di progetti e questa cosa mi suona evidente ascoltandoli e se li paragono a Colony, Clayman o Come Clarity. Lo stesso Strömblad ha ammesso qualche anno dopo che la faccenda In Flames doveva risolversi come un’esperienza puramente da studio, niente tour e tutto il resto. Non avevano un cantante e di fatto, tra Lunar Strain e The Jester Rice non fecero nessun concerto perché non potevano contare su una line-up effettiva.
Quindi trovo ridicolo non tanto chi accusa il gruppo di non essere più “la band originale” ma una congerie di usurpatori, perché la band originale NON era una band vera! Non discuto i gusti e la paludòsi generazionale di chi c’era e “visse” quei primi album, preferendoli millemila volte ai più recenti, ma è inutile accusare Fridén o Gelotte di non essere capaci di ripetersi a quei livelli.
Del resto cosa avvenne quando finalmente gli In Flames diventarono un gruppo in carne e ossa e cominciarono a portare in giro il tanto celebrato repertorio classico? Fu un casino. Dal vivo si accorsero di non poterlo rendere fedelmente. I pezzi perdevano quasi tutta l’intensità e non c’erano abbastanza chitarristi per appaltare quella marea di armonizzazioni. Inoltre passare dall’elettrico all’acustico era una vera soma, ammazzava il ritmo della performance e il pubblico non rispondeva bene a tutte quelle digressioni strumentali.
Potete dire quel che volete, parlare di coerenza o incapacità, ma quello che si fa in uno studio di registrazione, pur toccando risultati creativi di grande efficacia, non sempre regge la trasposizione nel mondo reale, fatto di sudore, casse spia che scorreggiano e gente con la birra in mano che grida e vomita nei momenti “sbagliati”.
Gli In Flames sono quindi diventati un vero gruppo, hanno sperimentato la dimensione live e da lì hanno adattato ciò che non erano mai stati in quanto band, a ciò che avrebbero potuto essere in un contesto di tour, dischi ben prodotti e perché no, successo negli Stati Uniti. Esatto, non fate smorfie. Non c’è niente di male a sperare di trasformare un sogno in un mestiere. Per un gruppo metal medio alto come loro, nel 2002 era una cosa ancora possibile, anche se già da lì, nelle interviste cominciavano a fargli domande morali sugli mp3 e il fenomeno in crescita del download illegale. Oggi tutti si riempiono la bocca di austerità e fedeltà a se stessi, ma sono come un convento di frati confinato su Marte che sostiene di preferire il celibato alla fornicazione. Con cosa vuoi fornicare su Marte? Allora un gruppo come gli In Flames aveva davvero la possibilità di scegliere tra carriera musicale e un part-time sotto casa in nome dell’integrità. E cosa vuoi biasimare, oggi?
Le incomprensioni col pubblico non sono iniziate con Reroute. Ci sono sempre state. Lasciamo perdere che al tempo di Lunar Strain il death cosiddetto classico era in crisi nera e la gente implorava qualcosa di fresco. Ma già al tempo non fu un rischio calcolato inserire inserire le melodie degli Iron Maiden nei propri dischi armonizzandole. Non lo faceva più neanche Steve Harris!
Anche se il triunvirato di Göteborg non può vantare un simile primato, e nessuno mi rinfacci retroattivamente i Ceremonial Oath, per cortesia! Alla base del death svedese c’è sempre stato Bill Steer, sin dal primo concerto dei Napalm Death da quelle parti e con tutta l’ammirazione e l’affetto che ho per Slaughter Of The Souls, Heartwork esce due anni prima e lì già c’è tutta la maideneide che si potesse impastare con i growl e il blast-beat. La vera differenza tra il vecchio death 1988-1992 e quello svervegico 94-99 è nel tupatupa, ma quello io non lo reggo già più dal 1996.
E tornando agli In Flames, non è mai esistito un momento, a parte forse l’epoca tra The Jester e,,, The Jester Rice, in cui il gruppo non sia stato oggetto di discussione. Whoracle, Colony e Clayman non fecero contenti tutti e ancora oggi c’è chi li ridimensiona, pur tenendosi alto con i punteggi di valutazione e riconoscendo generale delle delle canzoni.
Le cose sono semplicemente divenute croniche e davvero esasperanti da Reroute To Remain in poi, ma lì il gruppo ha coscientemente deciso di cavalcare la tigre di cartone dei reazionari e fregarsene.
Ogni lavoro del gruppo, successivo al 2002, ha aumentato il divario tra chi li amava all’inizio e chi li scopriva e apprezzava nel nuovo millennio. Se non hanno mai mosso le stesse cifre dei Metallica, la questione sul prima e dopo degli In Flames è davvero molto simile.
Per quanto i Metallica abbiano sempre conservato, almeno dal vivo, pure negli anni della recessione metallica di Loud e Re-Loud, un approccio davvero heavy e una considerevole quantità di classici in scaletta.
Gli In Flames invece si sono dimostrati sempre più insofferenti davanti ai paragoni con i vecchi tempi e dal vivo, per i motivi detti sopra, hanno eclissato gran parte dei pezzi delle origini. Sia Fridén che Gelotte, ormai i soli membri storici rimasti, hanno sempre più volto gli occhi al cielo durante le interviste, rispondendo più o meno pazientemente di non potere e soprattutto non voler tornare a quei suoni, alle strutture complesse dei primi album. Gelotte ha persino dichiarato che non c’è mai stata una scena di Göteborg e che quindi non si può aver nostalgia di ciò che non è mai effettivamente esistito. Come dargli torto, se fosse vero?
Ma non si sa cosa sia vero o meno quando si parla di scene, soprattutto nel metal.
Gli In Flames per la verità hanno realizzato dischi di qualità durante questi lunghi anni di sbadigli, insulti e distrazioni nella mia bolla. Io li ho sentiti a lungo tutti, dal primo all’ultimo, cosa che molti dei più incalliti accusatori non ha mai fatto e mai farebbe. Del resto non vi sto dicendo che titoli come Battles o Siren Charms potrebbero far cambiare idea a qualcuno. Sono prodotti minori che danno la zappa sui piedi agli In Flames stessi. Anche lì io ci ho trovato almeno un paio di grandi pezzi ad album, ma diciamo che hanno più una loro importanza economica, non tanto però nel senso che danno i detrattori. Non credo abbiano venduto uno sfracello. Come tutti gli album meno riusciti, andavano fatti per capire certe cose e smetterla.
Per prima cosa Fridén e Gelotte dovevano sbattere il muso sui confini della propria idea creativa minimale: riff, melodia centrale più presto possibile, assolo sbrodolino, riff e chiusa. Il singer aveva la necessità di capire fino a quando il reflusso potesse ispirare la sua lamentosi espressiva. Gelotte invece doveva cagar fuori ancora una decina di riff nu metal che gli erano rimasti nella sacca marsupiale, prima di capire che il nu metal era morto e con esso sarebbe morto qualsiasi cosa lo ricordasse ancora.
Per capire che qualcosa andava cambiato e che bisognava rischiare sul serio e non parlarne soltanto durante le interviste, per creare qualcosa di interessante, il duo ha dovuto partorire almeno una ventina di brani di tre minuti e mezzo a dir poco intercambiabili e tutti morti poco dopo la prima masterizzazione, per due dischi e mezzo di assoluto superfluo. Ma un momento, questo da prima che Strömblad se ne andasse “minimizzando” il problema con la dicitura “alcolismo”. Troppo comodo fare la parte dei puristi che mollano la nave dopo averla condotta verso gli scogli con le proprie mani, Jesper non è l’anima truista e tradizionale del gruppo. Le sue esperienze parallele agli In Flames e poi quelle successive alla sua uscita dal gruppo, denotano sì una certa insofferenza creativa rispetto alla formula ormai poppeggiante della band ammiraglia, ma allo stesso tempo una gran confusione su cosa fare della propria vita: basta mettere insieme i Dimension Zero, The Resistence e Cyhra per passare da un parziale ritorno alle cose di The Jester Rice, retrocedere agli albori di Left Hand Path e poi virare sul commerciale spinto nella speranza di poter vedere un po’ di gente ai concerti.
Certo, finché c’era Jesper nel gruppo qualcosa di interessante era accaduto (inutile citare, ma lo faccio ugualmente, The Chosen Pessimist in A Sense Of Purpose, grandiosa) mentre dopo di lui, il duo di compositori rimasti ha seguitato con la ricettina, concedendosi qualche momento più a rischio solo se capitava: l’inquietante e quasi medianica The Jester Door e Wallflower (che comunque l’ha scritta Engelin, silurato senza pietà tempo dopo).
Ma a parte la fase di passaggio dopo l’abbandono di Strömblad, da Sounds Of A Playground Fading (2011) a Battles (2016) per cui nutro un’affezione come potrei avere per un cucciolo zoppo e dal pelo incatramato di pedate esistenziali, trovo indiscutibile che la band abbia ricominciato a fare cose degne del proprio nome con I, The Mask. E vi dirò di più, credo sia il solo vero picco raggiunto dal gruppo dopo Come Clarity, alla faccia del parziale ritorno all’ovile di Foregone.
Foregone è un buon album ma non mi convince completamente. Non parlo per il virus nostalgia che ormai ha causato un’ecatombe insopportabile, ma proprio la media delle canzoni. Non ci troverete una Is This Life o una Through Oblivion, per intenderci.
I, The Mask ha la forza delle ragioni di Fridén e Gelotte, i quali si sono buttati avanti, a testa bassa, fregandosene delle critiche, alla continua ricerca di un nuovo equilibrio identitario e alla fine l’hanno raggiunto. Gli è costato molto. Hanno attraversato robe indegne: sono quasi arrivati a rasentare le sottane dei Linkin Park (Drained) e dei Coldplay (The Truth) pur di capire cosa volevano diventare. Hanno mescolato i Nightwish e Nuvolari di Lucio Dalla (When The World Explodes) e i Ratt e i Thelostprophets (Through My Eyes). Non stiamo scherzando, sono esperienze che segnano…
E adesso che tutte quelle cantonate imbarazzanti hanno condotto a una quadra decente, cosa fanno Fridén e Gelotte? Chiamano uno shredder bionico (Cris Broderick) e si rifanno i muscoli alla vecchia palestra Göteborg Revival? Spero che il prossimo lavoro sia interamente elettronico, con Fridén che inscena per venti minuti il lamento di una gazzella sbranata pigramente da un oceano di leoni da rave party, ma non mi stupisco se nel giro di tre album, ritroveremo gli In Flames a fare roba molto vicina al tanto ripudiato periodo giullaresco, con Jesper di nuovo nei ranghi e un mega-tour insieme ai riformati Dark Tranquillity, At The Gates e Ceremonial Oath.