Nel 1993, un fan dell’horror avrebbe scommesso su tanti nomi, sia in ambito cinematografico che letterario. E avrebbe perso su tutta la linea. Richard Stanley si era da poco riconfermato con il gigantesco Dust Devil; Clive Barker era da tempo e inarrestabilmente il “nuovo Stephen King” in libreria e al cinema uno dei registi più promettenti del New Horror, dopo Hellraiser e Cabal; Philip Ripley aveva esaltato i cultori più crepuscolari con l’esordio Riflessi sulla pelle (1990); sempre in ambito letterario imperversava la nuova onda sanguinolenta degli Splatterpunks e persino il versante musicale stava offrendo novità succose con il death metal, l’industrial malato dei Ministry e Skinny Puppy. Noi italiani potevamo contare ancora su Argento, reduce dalla buona prova di Due occhi diabolici (in tandem al meno ispirato Romero), ma soprattutto c’erano Michele Soavi, Tiziano Sclavi di Dylan Dog e un po’ più sottotraccia, il sorprendente fenomeno Mariano Baino e il suo Dark Waters.
In campo creativo, di Mariano Baino ce ne sono due.. Non sono molto famosi, né il primo e né il secondo. C’è il poeta avanguardista di cui non so nulla o quasi e c’è il regista di cui per molti anni, ho saputo ancora meno. Adesso con la rete bastano un paio di ricerche e le curiosità coltivate a lungo vanno in overdose nell’arco di tre minuti e mezzo, con un getto di informazioni che definirei annichilente. Immaginate un campo asciutto da tanti anni che viene annaffiato con uno Tsunami.
Ora so tutto di Baino, da circa due giorni, ma per vent’anni, a parte le mie domande su di lui, potevo contare su poco e niente. Era meglio così? Ni. Ma una cosa rimpiango, del tempo in cui non sapevo. Cosa ne sarebbe stato del suo cinema dopo un inizio tanto promettente. Non potevo prevedere quanti altri film avrebbe realizzato. Nessuno, a parte dei corti e alcune sceneggiature. Magari sarebbe diventato il nuovo Lucio Fulci o alla peggio un Luca Guadagnino un po’ più discolo?
Insomma era bello non sapere, nel 1993, che noi fan dell’horror italiano avremmo dovuto aggrapparci alle brache di un cantautore romano un po’ antipatico e afono (Federico Zampaglione) e a un regista di drammi hipster (Guadagnino, appunto) per sperare di riveder nascere il genere in casa.
Ma a parte Baino, come detto, da quelle splendide premesse di inizio anni 90, è stata una strage di delusioni, sparizioni e disdette. Di Soavi che cosa resta? Poco o nulla, così come di Stanley, Barker, Ripley, gli Splatterpunk e il death metal. Persino Tiziano Sclavi combinò poco dopo il 1993. I suoi romanzi continuarono a uscire per qualche anno ma erano tutti vecchi e quindi postumi, come lui in quanto romanziere è sempre stato postumo a se medesimo.
L’horror, a metà anni 90 subì una battuta d’arresto, come si diceva di quelle che faceva il Benigni degli anni migliori, per quanto non l’abbiano mai arrestato e le risa si siano ormai arrestate da sole, così come le battute decenti.
E l’horror andò sempre peggio. Per qualche anno i fan dovettero accontentarsi delle sempre più mosce trasposizioni da Stephen King, delle deludentissime prove di Argento e di scovare l’orrore in prodotti mainstream piuttosto inquietanti, ma pur sempre mainstream (Batman 2, Edward mani di forbice, La morte ti fa bella, Terminator 2, Il corvo).
Dark Waters di Baino era una promessa sanguinaria sempre più incrostata sulla parete della mia cameretta. “Che stava combinando?” mi domandavo?
Il suo film lo vidi solo nel 1998, ma capirete. Non avevo Tele + e non conoscevo un modo per farmi mandare film non distribuiti in Italia. Sì, perché Dark Waters non era uscito da noi, se non in una versione sottotitolata sui canali a pagamento e fu quella versione, di terza o quarta mano, che vidi, esaltandomi come un bimbo altamente problematico.
LOVECRAFTIANO
Dark Waters era un film lovecraftiano. Qualcuno ha detto una cosa interessante, a riguardo. Senza dirla a parole mie, riporto le sue:
Lovecraftiano era un aggettivo molto meno inflazionato al tempo in cui uscì il film di Baino. Oggi si spreca e spesso a sproposito. Allora fu necessario per esprimere come Dark Waters fosse sì un film debitore all’universo di HPL ma senza riprendere nessun racconto o romanzo di preciso, se non l’essenza profonda, la visione sconcertante dell’autore e di quel mondo fatto di Dei insensibili al benessere dell’uomo, avidi della sua adorazione e indifferenti a tutto il resto.
Lovecraftiano è stato Messiah Of Evil, di cui ho scritto tempo fa. Un altro film lovecraftiano è Il seme della follia di Carpenter, ma se dobbiamo ricorrere all’aggettivo ora, non saprei quale film citare, a parte l’ultimo di Richard Stanley, redivivo oltre ogni speranza. Color Out Of Space è la trasposizione di un titolo noto di Lovecraft ma, cosa rara, fedele alla sostanza.
Baino parla di Lovecraft come influenza ma rifiutandosi di ridurre Dark Waters a un omaggio allo scrittore americano. Dice di averlo amato dal primo momento, sin da quando lo scoprì a 14 anni, nel reparto tascabili sotto il sole di un’edicola. Lo dice in tutte le interviste ma la colpa non è sua, gli rivolgono sempre le stesse domande.
Il giovane Mariano si imbatté in un libro dal titolo La casa delle streghe. Il testo, pubblicato in due tempi da Longanesi, prima nel 647 e poi una decina d’anni dopo e con due copertine diverse, è una raccolta di quattro romanzi brevi. Nessuno di quelli però è L’ombra su Innsmouth.
Baino lesse Lovecraft nel 1981 e fin qui va tutto bene, ma possiamo credergli quando dice che in fondo stava pensando a tante cose quando diresse Dark Waters, e non tanto ad HP. E tanto più che il soggetto l’aveva scritto il montatore del suo primo corto Caruncula, tale Andy Bark.
Quindi dovremmo domandare più a Bark che a Baino su Lovecraft, ma di lui si sono perse le tracce. In rete non c’è niente, al punto che fatico a credere sia stato più di un alter ego di Baino, ma lasciamo stare.
Dark Waters è un film lovecraftiano e questo lo rese davvero molto interessante nel 1993. Un regista italiano girava il suo lungometraggio sul mar nero e faceva una cosa lovecraftiana. Non potete immaginare quanto fosse suggestiva una premessa del genere per un amante del genere, adolescente e italiano, in quegli anni.
Vedendo Dark Waters mi fu evidente fin da subito che era anche un sacco di altre cose. Intanto era un omaggio visivo molto potente al cinema italiano, una specie di canto crepuscolare a una stagione allo sbaracco. C’erano le suore demoniache di Fulci, gli omicidi e le atmosfere stregonesche e fiabesche di Suspiria e sui muri, nella cella del pittore veggente, una serie di figure dagli occhi bianchi che potevano rimandare sia alla galleria della medium Helga, in Profondo Rosso, che alle sorelle Legnani di Avati.
Ma anche come struttura narrativa, nei pregi e nei difetti, è lecito parlare di gotico italiano e Curti è d’accordo con me. C’è il castello, i residenti locali che sanno e rifiutano di portare la protagonista nel posto maledetto, c’è anche l’intreccio evanescente in favore delle suggestioni e dei momenti visivamente potenti, come tradizione filmica vuole, a partire da La maschera del demonio fino al più spompo viaggio onirico di Argento.
La mano tecnica del film di Baino, però era più vicina a Stanley e Ripley che a gente come Ferroni o Mario Bava. Non a caso Mariano viveva già da tempo in Inghilterra ed era scappato dall’Italia appena possibile, riconoscendosi estraneo alla cultura di nascita e tuffandosi in quella anglosassone, fino a farsi adottare dagli Stati Uniti per meriti artistici.
NAPULE E LE MILLE CULURE… DEL BUIO
Dark Waters parla anche di questo. Non è un remake di Suspiria ma usa inconsciamente lo stesso spunto del “ritorno sgradito” per misurarsi con una patria abbandonata (Napoli) e che però richiama la protagonista Elizabeth (Mariano) a sé, tenendogli un abbraccio euforico e sadico, come quello di una mamma mostro alla Di Orazio. Non ho citato il mio amico Paolo ma per me è stata una figura importante sul piano narrativo di casa nel 1993, e non è un caso che un racconto di Primi delitti (Peccati originali) ricordi proprio Dark Waters.
Parola di Baino: Non l’avevo mai notato, ma proprio Coralina (Cataldi-Tassoni) di recente mi ha fatto vedere una cosa. Disse: “Guardalo. Si tratta di te che torni a Napoli. Sono nato a Napoli e ho sempre pensato che la cicogna mi avesse lasciato nel posto sbagliato, anche se amavo i miei genitori e loro sono i migliori genitori del mondo, quindi lì sono stato fortunato. Ma in termini di location, ho sempre pensato: “Perché sono nato a Napoli?” Non l’avevo mai notato prima finché Coralina non l’ha fatto notare e ha assolutamente ragione. Sono io che torno a Napoli e devo affrontare tutto questo, vengo da lì e parte di questo sono io. Anche quando torno a Napoli e dico a tutti: “Oh mio Dio, Napoli, com’è orribile”, una parte di Napoli è dentro di me per sempre. non posso scappare. Posso vivere a Londra per 20 anni quanto voglio, ma una parte di Napoli ci sarà sempre. Quindi è stato affascinante per me rendermi conto che il film parlava molto più di questo che del bene e del male (o dei culti immondi di Lovecraft). Si tratta di tornare alle tue radici e non voler accettare che quelle siano le tue radici e come le affronti.
Anche le suore assassine sono un elemento tipico del cinema di genere italiano. Lasciamo perdere la recente The Nun, la filmografia sulle pinguine inquietanti, escludendo quella di Blue Brothers è tutta nostrana. Ma perché?
Beh, io da piccolo andai all’asilo dalle suore e capisco perfettamente il senso di una rappresentazione così infida, cruenta e malsana delle spose in dio. Inoltre avevo una zia che lavorava per le suore e mi raccontava di quanto il convento fosse pieno di rivalità spietate, rancori infantili e vanità nascoste nella preghiera e sotto le lenzuola delle piccole celle.
E comprendo bene a fondo anche quando Baino parla dell’iconografia napoletana piena di ferite e sofferenze carnali. La chiesa per un bambino italiano è un posto demoniaco, pieno di croci e sangue, di mummie reliquiate e di vergini addolorate che ti guardano facendoti sentire una merda senza motivo. Sembra colpa tua di tutto quel dolore e quel sangue, direbbe Baino. E non è un caso che Soavi mi abbia tolto il sonno per molte notti proprio realizzando un film come La Chiesa.
Sentite cosa dice Baino al riguardo: Ero terribilmente terrorizzato dalla chiesa, quindi è da lì che proveniva uno dei miei sentimenti di orrore. A Napoli, che è una città dove i vivi e i morti coesistono in modo molto concreto, da piccolo mi sentivo circondato da immagini di santi sanguinanti. Invece di una Madonna sorridente, c’era una statua di una Vergine Maria sofferente, detta la Madonna Addolorata, velata e vestita di nero, che tiene tra le mani il proprio cuore trafitto da sette spade. Nei negozi di souvenir vendono statuine che rappresentano le anime dei dannati e uno dei best seller è una ghignante rappresentazione del dirompente poltergeist locale, il munaciello (che ispirò Coscarelli per i mostri di Phantasm). Quindi non avevo bisogno di attingere a nessun filone del cinema horror: avevo tutto ciò di cui avevo bisogno intorno a me mentre crescevo. Puoi certamente vedere come questi ricordi d’infanzia informino Dark Waters e il suo ambiente è inquietante, il suo convento è un luogo in cui “i vivi e i morti coesistono”.
I MOSTRI SIAMO “NOIO”
Mariano Baino, sia a proposito di Dark Waters che del suo precedente corto Caruncula, esprime una poetica piuttosto diffusa nei primi anni 90, a partire da Barker (Cabal) e Sclavi (Johnny Freak), vale a dire che il mostro è innocente e che più spesso, i veri demoni siamo noi umani, così convinti di avere ragione sulle tenebre e di dover perseguire ogni creatura diversa e insofferente alle nostre plafoniere squallide e ospedalizie.
È una retorica che trasforma il genere horror in un posto tutt’altro che reazionario (secondo le teorie di Kevin Williamson in Scream) ma progressista, ma evidente già a partire dal Frankestein (1818) di Mary W. Shelley, passando a Nato d’uomo e di donna (1954) di Richard Matheson e agli zombi torte in faccia di Romero (1978) e che negli anni 90 del secolo scorso, è ormai pronta a esplodere definitivamente nel mainstream, con un Dracula innamorato e sostanzialmente cattivo per buone ragioni, nel film di Coppola.
Il vampiro è ormai dentro di noi e non più in un vecchio castello sui Carpazi, dicono Barker e Baino. Peccato che proprio quando le cose si sono fatte interessanti nell’horror, sul piano filosofico e politico, tutto sia saltato e sia stato azzerato dal revisionismo burlone di Craven.
Ma cosa combinava effettivamente Baino nel 1995 o nel 1997?
Stava cercando di realizzare il suo secondo film che era una trasposizione di un libro dell’autore Graham Masterton, astro inglese horror equiparabile a Ramsey Campbell, ma non celebre in Italia quanto lui. Feast, conosciuto in Inghilterra come Ritual, era uscito nel 1988 ed è inedito da noi.
Parla di un critico gastronomico intrappolato in una città di cannibali e per quanto lo spunto sembri una barzelletta nera, pare sia un romanzo molto inquietante e che Baino sentiva davvero come suo ideale secondo film. Masterton andò a Soho a vedere una proiezione di Dark Waters per rendersi conto delle effettive capacità del regista italiano che aveva opzionato il film e pare ne sia rimasto entusiasta.
Mariano realizzò con la benedizione di Masterton una sceneggiatura di Ritual che… ancora sta lì nel cassetto. Lui sente che un giorno farà il film ma dopo così tanti anni è difficile crederlo possibile, così come non è facile immaginare un seguito di Dark Waters a una tale distanza dal primo capitolo.
La sceneggiatura di Ritual però valse al giovane regista, al tempo ancora transfugo dall’Europa per l’America, parecchi lavori negli Stati Uniti come scrittore, e per quanto di tutti gli script che ha firmato da lì in poi, solo un paio siano diventati film veri e comunque poco noti, lui vanta ormai una cittadinanza americana per meriti artistici. Come Barker disegna e dipinge, quindi immagino sia soprattutto questo ad avergli fatto guadagnare un tale privilegio.
Dark Waters, rivisto oggi, non mantiene il fascino dato più dalla prospettiva in cui mettevo questo giovane regista italiano che girava all’estero le sue cose, finendo sulla copertina di Fangoria mentre in Italia nessuno sapeva chi fosse.
Un cervello in fuga che però non ha dato gran seguito a quell’incipit. I difetti che non vedevo allora, nutrito dal fascino e dalle speranze di chissà quale talento registico in divenire, oggi sono ferite rinsecchite che qualcuno chiama buchi di sceneggiatura, coperte alla meglio da suore col pugnale che sbucano dal nulla e a più riprese vogliono ammazzare la protagonista senza riuscirci.
In effetti alcuni dialoghi sono resistibili, la trama non raggiunge mai una sua compiutezza, anche se tutti i problemi che il regista ha dovuto risolvere nel corso delle riprese giustificano in gran parte la confusione narrativa della seconda parte. La recitazione di molti attori è decisamente mediocre, pure la protagonista, Louise Salter, non è all’altezza, sebbene poi lei abbia lavorato ancora e persino con Tom Cruise in Intervista col vampiro.
Dark Waters resta tuttavia potente. La sua sintassi visiva è fresca e avvincente. Cosa vuol dire? Che si parla poco e si mostra parecchio. Tenendo presente la scarsa esperienza di Mariano Baino il suo film resta la prova di un grande talento del se fosse.
Se fosse nato dieci anni prima, in un sistema cinematografico in grado di offrirgli set e soggetti horror come ne ebbero Bava, Margheriti e Fulci, Baino forse sarebbe stato diverso…
Ma inutile continuare. Parafrasando Umberto Eco, “con i se ci fai le pippe”. Guardatevi Dark Waters e godetevelo nella sua imperfetta e inarrestabile forza primitiva…