Prima di iniziare una doverosa precisazione: sono un po’ saturo di heavy metal, dopo le recenti fatiche di Holy Legions, e solo l’idea di rimettere su un disco con chitarre sferraglianti e teschi assortiti in copertina, al momento non mi aggrada. No grazie sir! In compenso sto deliziando le mie orecchie con alcuni dischi degli Yes, non i classiconi, ma quelli che ai progster scafati piacciono forse meno: Drama, con la virata new wave di Horn e Downes, Relayer, il mio preferito in assoluto, con le partiture nervose e jazzy del fenomenale Patrick Moraz e sopratutto Tormato, che amo alla follia, nonostante sia stata per molti la pietra dello scandalo perché portò poi alle fasi meno prog e più “easy”, sfociate nel bellissimo 90125 e nel, per me, anonimo Big Generator. Ma quello che sto ascoltando trilioni di volte, scoprendo sempre sfumature nuove e infinite stratificazioni, dopo tanti anni che l’avevo lasciato nello scaffale, è il disco che di Yes ha molto, ma anche paradossalmente nulla.
Ovvero ABWH, sigla che raccoglie il progetto Anderson-Bruford-Wakeman-Howe, vale a dire gli Yes senza il deus ex machina Chris Squire. Ogni ascolto mi entusiasma come la prima volta, quando uscì e lo comprai subito, anche i vari 45 giri dei singoli, e che dopo almeno una ventina d’anni senza toccarlo, mi mangio le mani per non averlo ripescato. Pazienza.
Tutto nasce nell’estate nel 1988, quando Jon Anderson trascorre un po’ di tempo in Grecia, e il soggiorno nei caldi mari mediterranei lo tocca dentro, nell’anima, visto che la sua vena mistica e spirituale è talmente forte da fargli ripensare sul proseguimento della sua carriera musicale così come era sempre stata.
Tornato a Londra, Anderson ricontatta Steve Howe, Bill Bruford e Rick Wakeman. Entusiasta di ripartire con qualcosa che coinvolgesse i vecchi sodali negli Yes, abbandonati alla vigilia delle session per Drama (alcuni inediti di quei demo tape furono poi ripescati per le ristampe in cd).
Steve Howe fece sentire ad Anderson il ritornello di Long Lost Brother of Mine, brano che era stato originariamente scritto da lui e Geoff Downes per gli Asia, e che per qualche motivo non era mai stato realizzato. Alla fine divenne “Brother Of Mine”, più semplice e d’impatto come titolo.
Anche Bill Bruford, era elettrizzato dal progetto, poiché poteva sperimentare con la batteria elettronica e nuovi marchingegni tecnologici, soprattutto perché aveva il sentore che si potevano guadagnare un po’ di soldi, e la cosa lo motivava tanto.
Dal canto suo Rick Wakeman voleva una sorta di “rivalsa musicale” verso gli ex, e ben si sa che dove non unisce l’amore, l’odio è comunque un cemento abbastanza forte. Sebbene non pienamente convinto all’inizio, Lane e Anderson riuscirono a fargli cambiare idea velocemente.
Temporaneamente. Steve Howe riesuma dagli archivi personali Order Of The Universe e Birthright, pezzi scritti e mai usati per il secondo album dei GTR, comunque mai registrato. Anche Quartet è opera sua, mentre Jon Anderson scrive Let’s Pretend, pensata sull’isola di Hydra in Grecia, e sulla quale ha collaborato anche Vangelis.
Bill Bruford rimedia alla pesante sostituzione di un mostro sacro come Chris Squire, pezzo da 90 e insostituibile in realtà, calando l’asso pigliatutto: assolda Tony Levin. Il suo curriculum è galattico: King Crimson, Peter Gabriel, Pink Floyd e miriadi di altre collaborazioni, genietto del Chapman Stick, basso a 10 corde, che permette di suonare bene il tapping e sfruttare cinque ottave anche con la suddivisione melodica e ritmica con due mani. Bingo!
Ma per volere dei quattro, per dare un suono ampolloso, pieno e ricco, come mai prima pensavano di avere fatto, decidono di assoldare una pletora di ospiti, tutti blasonati, per rafforzare e sviluppare bene il processo di registrazione di quello che sarà un album. La lista è nutrita e lunga: Milton McDonald, Matt Clifford, Julian Colbeck, Deborah Anderson, Tessa Niles, Carol Kenyon, Francis Dunnery, Chris Kimsey, Joe Hammer e persino un intero gruppo corale, gli Emerald Isle Community Singers.
Un “prog dream team”, nelle intenzioni, che avrebbe giocato ad armi pari con gli Yes, e la volontà di fare anche meglio di loro. Malelingue parlano di “aiutini” per evitare che le bizze eventuali di Wakeman e Bruford potessero determinarne la dipartita prematura (in studio), e quindi continuare a lavorare in tranquillità.
Che sia questa la vera motivazione, oppure no, oggi poco importa. La maggior parte dell’album è stata costruita da Anderson, che era al centro del progetto, e con una buona partecipazione di Howe, anche se tutti i brani portano, virtualmente o meno, la firma dei quattro ex Yes.
Al songwriting sono accreditati, anche per piccole parti o demo di altri progetti Max Bacon (GTR), Geoff Downes (Asia, Yes), Vangelis e Rhett Lawrence (il cui curriculum come produttore e musicista è lungo come la Bibbia).
Il titolo scelto è ovviamente l’acronimo del quartetto: “Anderson Bruford Wakeman Howe”, e tutta la parte grafica, che ricorda esattamente l’iconografia Yes, realizzata proprio da Roger Dean, disegnatore storico delle cover dell’ex band.
La meravigliosa copertina, dal nome di Blue Desert a oggi è una delle sue più belle, e su questo non ci piove. Lo stesso Dean firmerà 5 mila poster a New York da regalare ai fans come memorabilia. A titolo informativo, l’ultimo artwork di Roger, per Tales From Topographic Ocean, fu venduto a un collezionista per 56 mila dollari.
Dean creò appositamente per il progetto un set di caratteri tipografici, diventati iconici negli anni. Essendo Chris Squire legalmente proprietario del copyright “Yes”, non si poteva usare. In realtà i quattro parlavano tra di loro come compositori di “Yes music”, e Wakeman odiava quell’acronimo, perché gli faceva pensare a uno studio di avvocati americani, quelli dalle targhe dorate nei grattacieli altissimi, e la cosa lo disturbava assai.
Il richiamo ossessivo agli Yes si evince anche dal titolo che Anderson scelse per il tour: “An Evening Of Yes-Music Plus…”; e non serve aggiungere altro.
Molte le sessioni per registrare: una con quasi tutti a Parigi, a La Frette Studio; una a Monserrat, Air Studios nelle Indie Britanniche, con Tony Levin e Bill Bruford e Steve Howe da soli a Londra, ai Sarm West Studios. Il clima tra i vari musicisti è abbastanza buono, anche se l’atteggiamento da leader e monarca assoluto di Jon Anderson a volte urta un po’, e viene soprannominato scherzosamente, ma non troppo, “Napoleone”.
Non a caso ABWH è nato essenzialmente da una joint venture tra Anderson e Brian Lane (manager tra l’altro di Yes, Asia e GTR), e il pieno controllo di fatto viene esercitato dai due. Il lancio del disco è preceduto dal singolo Brother Of Mine, che gira bene e si piazza ai piani alti delle classifiche rock. Altri due 45 giri escono a breve distanza: I’m Alive e Order Of The Universe.
In totale, secondo stime attendibili, le vendite superarono le 750 mila copie complessive. Ovviamente il disco fino a oggi ha profondamente diviso la critica e il gradimento dei fan; da una parte c’è chi lo adora e lo ritiene un fulgido esempio di “progressione del progressive classico degli Yes”, con l’introduzione di maggiore melodia e immediatezza, pur restando nei canoni della ex band madre, mentre altri criticano aspramente la scarsa incisività del suono di chitarra di Howe, la batteria elettronica che pare poco fluida e capace di colorare bene i passaggi strumentali, e l’eccessiva presenza di sovrastrutture dei millemila ospiti, che appesantiscono e stratificano inutilmente gli arrangiamenti.
Ognuno lo valuti da solo, ascoltandolo ovviamente. Personalmente ritengo che questa direzione abbia incarnato maggiormente lo spirito Yes più di 90125 e Big Generator, ed è stato un bene che Squire, deciso a portare avanti una linea compositiva più leggera e meno progressiva, abbia rifiutato l’iniziale chiamata di Anderson per questo progetto. Di certo “ABWH” non è un album che passa inosservato, e mostra a mio giudizio una buon compromesso tra le istanze dei classici anni 70 e le sterzate più “easy listening” che caratterizzarono parte del rock e del prog negli anni 80, quasi 90. Un interessante melting pot tra due decadi, con alcuni highlights di notevole spessore, e qualche imbarazzante filler per fare minutaggio (vedi Teakbois, canzoncina caraibica dozzinale da meditazione prêt-à-porter). Questa mediocre composizione però era molto cara ad Anderson (e odiata da Wakeman), perché nel testo e nel sottotitolo cita tale “Bobby Dread”, che altri non è lo pseudonimo col quale Jon prenotava alberghi e ristoranti per non farsi riconoscere.
L’alternanza tra melodie cantabili, lunghe progressioni settantiane, intermezzi acustici e parti magniloquenti e corali, a mio avviso, è gestita con grande classe, rendendo fluido e omogeneo l’insieme, avvicendando anche qualche guizzo inusuale per i loro standard, in particolare alcuni interventi di Steve Howe.
I riferimenti testuali e musicali inseriti sono molti, e rimandano a pezzi come The Gates Of Delirium, South Side Of The Sky e Long Distance Runaround, passando per le citazioni chitarristiche di Howe, che si muovono a richiamare a più riprese Turn Of The Century. Non mancano l’alternanza tra alcune lunghe suites e pezzi più brevi, accontentando i gusti di categorie diverse di ascoltatori.
Chicca extra in alcune edizioni è l’inedito Vultures In The City, che si rivela un pezzo brillante e ben coeso con la scaletta ufficiale. Il conseguente tour è un successo incredibile, con una set-list che pesca i grandi classici degli Yes e parte dei brani nuovi. Purtroppo quasi subito Levin si ammala e dal vivo viene sostituito da Jeff Berlin, altro mostro sacro del jazz rock e della fusion, che suonerà in maniera magistrale tutti i brani, imparandoli in pochissimi giorni.
Le esibizioni sono straordinarie, a partire dalle scenografie con le creazioni di Dean. Il pezzo forte degli show è l’esecuzione di Owner Of A Lonely Heart, senza Howe a suonare la chitarra, sostituito da MacDonald. Il motivo si può evincere facilmente.
Di ritorno a casa, la smazzata di amiconi vorrebbe bissare con un secondo album, Dialogue, con canzoni dai nomi come She Walks Away, It Must Be Love, Shot In The Dark, Make Believe, Touch Me Heaven, To The Stars, ma in realtà parte di queste confluiranno in ciò che sarà un’altra stravagante e folle idea: riunire il popolo di “ABWH” con gli ex guidati da Squire.
Ciò avvenne con Union, ma è un’altra storia. Di quel disco e di quel tour fu pubblicato un doppio cd, An Evening Of Yes-Music Plus, che testimonia nero su bianco quell’epoca e quel progetto, con una registrazione estremamente godibile.
Molti si interrogano su cosa sarebbe potuto succedere se Anderson e gli altri avessero continuato in quella direzione, ma il cantante ritornò all’ovile per il non esaltante Big Generator. Quello che è stato è stato, resta la possibilità di godere di un bellissimo lavoro e di un doppio live di alto spessore. Questo basta e avanza.
Marco Grosso