Vivere felici, lavorare ed esprimere se stessi: quanto fa?

Salve equinidi, come state? Io bene. Sappiate che se non scrivo qualcosa per un po’ di tempo è perché ho di meglio da fare e visto che per me scrivere è il miglior modo di sbrogliarmi la vita, questo significa che sto facendo cose ancora più piacevoli e sbroglianti che perdere tempo con voi.

Ora però ho voglia e modo di buttar giù due righe e quindi ecco qui: sapete quando la filosofia è uscita dalla vita dell’uomo comune, diventando una mera specializzazione umanistica da imboccare all’Università? Nel momento in cui ha smesso di occuparsi di felicità. Se per i filosofi non era più il fine di tanto ragionamento: cosa sia, come averla, perché essere felici e soprattutto quando, l’uomo comune, quello che non legge neanche un libro all’anno, e ha ragione, ha continuato a domandarselo e ancora se lo chiede. Io me lo chiedo, e mi accorgo che per qualche tempo mi sono dato anche diverse risposte. Tipo questa: essere felici è fare il lavoro che ti piace.

Ragioniamo un momento su questa assurdità. Come diceva Bukowskiogni lavoro è una merda, anche se ti piace, e lo è perché se devono pagarti per fartelo fare, vuol dire che non avrai sempre voglia di farlo”.

Disse più o meno così. Ma il lavoro che ti piace è il migliore dei mondi possibili, rincarava Freud. E allora, se io per vivere devo faticare, preferisco che sia per una cosa che 1) comprendo 2) apprezzo e 3) so far bene.

Se io mi sento felice di spazzare le strade e stimo positivamente il contributo sociale che il mio impiego di netturbino mi permette di dare alla comunità, conseguentemente lo farò bene e mi sentirò adeguato e integro. Se invece svolgerò un lavoro che mi sembra assurdo, stupido e inutile, quasi di certo lo farò di schifo e mi sentirò uno schifo.

“Tanto devi lavorare” dice Freud, “quindi meglio che che sia la prima ipotesi”.

Giusto. Ma vedete, è quel “tanto devi lavorare” che impedisce davvero la felicità di tutti noi. Il lavoro è una galera esistenziale. Può darci sicurezza, stabilità, protezione, esattamente come una gabbia con le inferriate. E allo stesso tempo può farci sentire… in gabbia.

La cosa che più amo fare è scrivere, al punto che lo faccio regolarmente, da più di vent’anni, senza prendere un soldo (tranne rare volte). Se mi pagassero avrei fregato il sistema abbracciandolo, giusto?

Sarei uno che si sbatte per vivere, ma non sentirei la fatica perché starei svolgendo la cosa più fica per me. Non sentire la fatica vuole dire comunque faticare.

Io ho scritto a pagamento. Erano bei soldoni da parte di una grossa compagnia. Ma è stato orribile. Scopare a pagamento è la stessa cosa. A meno che tu non sia un mandrillo scatenato, non ti andrà sempre di fare sesso e soprattutto non vorrai farlo con chiunque tu abbia davanti. Ti pagano ma non è bello, quasi mai. I pornodivi raccontano cose tremende sul proprio lavoro.

Insomma, non esiste un lavoro che ci renda felici. Il lavoro è una fregatura che subiamo, è necessaria per tenere in piedi le cose, ma è pur sempre una fregatura che ci trasforma in ingranaggi di un grosso meccanismo. Dalle ore alle ore facciamo quello e continuiamo a farlo, ogni giorno, a testa bassa e nel mentre la nostra anima chissà dove finisce…

Lo sappiamo tutti, in profondità, che è un’inculata, lavorare, qualsiasi lavoro. Però attenti, anche i ricchi piangono, quindi non dover lavorare e fare ciò che si vuole dalla mattina alla sera potrebbe condurre allo stesso vicolo cieco di solitudine, dolore mestruale e morte vivente.

Sapete cosa mi succede col mio lavoro? Quando sono in ferie non vedo l’ora di tornare in servizio. Dovrei essere lieto di questa cosa. Altri impieghi a vacanza, l’idea di tornare a farli mi scatenava crisi d’ansia. Anche così però non è sano. “Che cazzo di vita sto vivendo se mi manca lavorare? Sono in vacanza con la donna che amo, i figli che ho voluto, il sole e il mare a mia disposizione sono lì che mi abbracciano il cuore e io sotto sotto non vedo l’ora di tornare alla routine lavorativa, rimettermi la divisa e sgobbare? Potrei definirmi felice? No. Fregato sì.

Siamo infilati in un sistema economico talmente serrato che veniamo allevati in seno a esso. I filosofi sono stati disinnescati e i poeti sono tutti internati o suicidi. La più alta forma di letteratura a cui possiamo ambire è l’autore di best-seller che si fa la villa con piscina e si scopa qualche modella.

Fin da bambini parliamo di lavoro, anche se per lo più, quando siamo molto giovani si tratta di impieghi assurdi e romantici, tipo l’acchiappafantasmi, il ladro gentiluomo o il bidello. Cresciamo nell’ottica del futuro impiego che svolgeremo. Studiamo in vista di un lavoro. Diventiamo un lavoro. Ci prensentiamo e diciamo cosa facciamo per vivere e non chi siamo. Questo la dice lunga, no? Trovare un lavoro significa acciuffare un posto buono nel sistema e il sistema ci protegge, veleggia verso uno scopo e al suo interno possiamo dormire tranquilli. Giusto???

Non ne sono tanto convinto. Un posto di lavoro è un sedile su cui poggiare il culo e sentirsi parte della tribù.

La cosa è talmente radicata in me che se non trasformo le mie inclinazioni in qualcosa di traducibile in termini di stipendio e di guadagno, smetto di esprimere la mia anima e cambio rotta. Sciolgo la band e vendo la chitarra. Per qualcuno vuol dire morire a se stessi, per la mamma significa crescere.

Io continuo a non voler crescere e scrivo e suono la chitarra in una band. Sono le cose che mi fanno davvero sentire libero, forte, la cosa più vicina a me. Eppure non ho trovato il modo di farli diventare un lavoro, quindi ho bisogno di un lavoro per praticare gratis la scrittura e la musica, ma sotto sotto, scrittura e musica, che sono la parte più vicina al vero me, sono anche il modo migliore per sentirmi un fallito.

Come definireste uno che scrive romanzi e non li pubblica? E uno che li pubblica e non li vende?

Come definireste uno che suona e incide demo o dischi autoprodotti da una vita e non ci ricava niente?

Un fallito.

Io posso anche ubriacarmi di retorica sulla libertà espressiva, la nobile funzione dell’arte, sul destino dei grandi creativi ignorati in vita e santificati in denaro dopo morti, ma in fondo mi sento un fallito e un infelice, perché quello che amo fare non mi rende niente e la gente non lo desidera a tal punto da pagare per averlo. Scrivo qui e voi leggete, ma se domani smetto, non verrete a coprirmi di soldi per farmelo fare ancora.

Che mi leggiate è già un miracolo, nessuno vi obbliga a farlo, quindi siete interessati, ma è chiaro che volete continuare a farlo gratis e io accetto tutto questo. Mi offre la libertà di farlo quando mi pare e come mi pare, quindi siamo pari. Però resto un fallito, mi sento così dentro. E un infelice perché non ne ho fatto un lavoro.

Ma dato che facendone un lavoro sarei comunque fregato, a questo punto devo tornare a chiedermi, filosoficamente, cosa è essere felici e se c’è rimasto qualcuno che sia capace davvero di valutare la felicità senza tirare in ballo cose, oggetti posseduti, soldi o appezzamenti di terra.

Le tante rockstar che si sono uccise dicono chiaramente che non è quello a salvarci dai demoni che ci tormentano ogni giorno. E sono quei demoni spesso a darci le idee migliori per creare grande musica o pagine indimenticabili.

Il sistema economico ha tagliato fuori tutto quello che non vende. E la cosa tremenda è che ha inculcato dentro di noi questa logica. Non pensiamo a trovare un modo di far cantare la nostra anima ma a un modo per usarla per fare i fottuti soldi. E questo dovrebbe renderci felici?

Una volta che hai i soldi cosa hai davvero? Invece di avere, ti viene tolta una cosa: l’assillo di dover guadagnare facendo ciò che fai.

La libertà dall’assillo e la libertà di scrivere, suonare (non crescere e essere te stesso, sentendoti legittimato a esserlo).

Lui canta ma guadagna, quindi ha ragione a cantare. Scrive ma vende, quindi ha ragione a scrivere. Devo ammettere che gran parte della fatica che faccio a realizzare libri o articoli come questo, è per via del peso di accuse che il mio sistema interno, speculare a quello esterno, continua a sferzarmi addosso. Sei qui che scrivi e scrivi invece di smetterla e crescere…

Il sistema ci dice infatti che per crescere bisogna smettere di dar retta alla propria anima o pervertirla al sistema stesso. Amen.