Il mio pasto nudo

In preda a sensazioni e pensieri contrastanti, non univoci, a stati d’animo che si condensano da tempo, colgo l’occasione di esprimere tutto questo turbinio sulle pagine di Sdangher, che saprà cullare e sostenere il peso di certe parole. Da qualche mese rifletto su come si esplica e su come si esprime tutto il mio amore e la passione che mi pervade per la musica heavy metal, che coltivo da quarant’anni e che sta proseguendo in maniera costante, più o meno. Citerò, anche se non sono certo cattolico, un passo del Vangelo di Giovanni che racchiude molto bene questo mio modo di vedere le cose.

“Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo”.

Ecco, io vivo nel mondo dell’heavy metal, ma non sono del mondo dell’heavy metal. Non lo sono perché non amo quei rituali che invece accomunano la stragrande maggioranza dei seguaci attivi o meno, e che in essi trovano la loro ragion d’essere. Da anni ho smesso di collezionare album in formato fisico, anzi, sto vendendomi tutti i cd e qualche vinile, il che suona eretico per tanti di voi che state leggendo. Raggiunta e superata la soglia dei 50 anni, mi rendo conto che quello che davvero mi piace non è la forma fisica e l’ossessiva ricerca e compulsione di accumulare plastica sugli scaffali, ma l’essenza stessa, ovvero la musica in sé per sé.

Quindi non mi importa come da me viene fruita, che sia un vinile, un cd, una cassetta o lo streaming, un mp3 o altro. Ho compreso che in qualsivoglia forma si presenti, è la musica a pulsare in me, al netto della parafernalia che invece attira e nutre l’appassionato.

Idem per i concerti. Tolta qualche sporadica e isolata partecipazione, l’idea di trovarmi tra molte persone sudate e bercianti, che celebrano una cerimonia collettiva fatta di rilascio fisico di energia animale, non mi piace più. Preferisco vivere questa intensa passione in una dimensione più intima, con poche selezionate persone da frequentare, o da solo.

Ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere in passato a tantissimi concerti, aver conosciuto miriadi di band, famose e non, ma questo non mi appaga più da anni. Specie vedere sui palchi musicisti che stanno diventando vecchi o che lo sono già, e che non soddisfano quella vitalità innata che il rock e il metal incarnano.

Lo slancio vitale della gioventù che ho vissuto in quelle band ora è svanito. Sessantenni o settantenni che arrancano sul palco perché quello hanno fatto tutta la vita e continuano a farlo se no non saprebbero come altro guadagnarsi la biada mi avvilisce. Sarebbe come vedere giocare Maradona o Pelè a settantanni, o veder correre Senna e Schumacher in età da pensione.

No grazie. E siamo a due. Non amo e non cerco a tutti i costi la rincorsa al passato, al “ai miei tempi sì che il metal…”, discorsi consueti e totalizzanti che i miei coetanei, ma aihmé anche i trentenni spesso e volentieri, fanno.

Vedo una paura folle di invecchiare, la nostalgia subdola e malsana di chi vive con la testa girata indietro, e che a cinquant’anni pensa che il meglio per la sua vita sia stata solo in un’adolescenza spensierata e felice. No. Non è così per me. E i trentenni che sognano un tempo che non potrebbe mai esistere per loro e lo pongono come ideale, è da pazzi.

Siamo vivi ora e adesso, se la vita è un dono, il dono lo si scarta per tutto il tempo che stiamo al mondo. Ma chi vive l’heavy metal in modo totalizzante, accetta questi dogmi, consuetudini, queste regole non scritte e ne fa uno “stile di vita”.

Non io. Ecco perché non “sono del mondo heavy metal”, mai lo sono stato e mai lo sarò.

Attenzione, questo non significa che non ami questa musica, la adoro, mi trasmette tantissimo, ma la vivo in modo collaterale, personale, e staccata da quello che è la militanza fatta in un certo modo. A me piace sopratutto unire alla parte istintiva ed emozionale, quella razionale e analitica, se no non scriverei come un ossesso di musica, con grande fervore.

Frank Zappa diceva che scrivere di musica è come danzare di architettura. Ebbene, per me è il contrario. Proprio perché gravita nell’ambito dell’irrazionale, i gusti e le preferenze personali sono diverse e soggettive, spesso gli appassionati disprezzano il tentativo intellettuale di codificare tutto questo.

Io invece adoro trasformare in una sequenza di Fibonacci, in un poliedro ordinato, come Bach che faceva musica con la matematica, il mondo etereo delle sensazioni e delle emozioni. Ordinarle, codificarle, catalogarle, perché poi mi restituiscano un qualcosa di nuovo, che posso studiare e poi ritrasformare in nuove emozioni.

C’è tanta gente che non si pone il minimo problema di perché un assolo, un ritornello, un accordo, una melodia vocale lo faccia stare bene, semplicemente a livello inconscio ascolta e gode. Si gode la musica heavy metal e non si pone domande, diventa un imput binario, 0 e 1, bello/brutto, scapoccio/non scapoccio.

Troppo riduttivo, troppo semplicistico per me, non appagante. Al contempo l’amore per questa musica mi spinge a impegnarmi, nel mio piccolo, per coniugarla in una visone diversa, difficile forse, indurre a riflettere gli altri e anche me stesso, se si può avere un’altra visuale.

Io ci credo, e nel tempo ho trovato qualche persona che condivide questa visone, con la quale l’interscambio è arricchente, nutritivo in ambi i lati della relazione amicale. L’energia della gioventù non esiste più, ma subentra un altro tipo di carburante. L’esperienza, la passione, la vitalità, che mettono tutto sotto altre prospettive, altrettanto belle e appaganti.

Se a 53 anni sono ancora qui con fervore a propagandare cose come Holy Legions, le mie mille passioni, la voglia di fare, credo che anche il mondo dell’heavy metal mi capirà, almeno coloro che sento più evoluti e pensanti, escludendo tantissimi dormienti ristagnanti nell’abitudine ciclica e perpetua, a mò di ruota del criceto.

Chiudo questo “pasto nudo”, sincero, brutale, appassionato, affermando con assertività chi sono e cosa voglio, e sottolineando le diversità ma anche le cose che ci accomunano. In primis sempre e per sempre l’amore assoluto per la musica heavy metal.

Marco Grosso