Se immaginassimo la carriera dei Rush, terminata nel 2020 definitivamente con la morte di Neil Peart, tipo un grande serpente che si snoda sinuoso come quello ctonio del Kundalini, potremmo individuare cinque grandi spire. Sono le cinque fasi universalmente riconosciute alla band, ognuna foriera di evoluzione e distacco parziale dagli stilemi sonori preponderanti in quegli album relativi a ogni era. Ogni “eone” viene poi chiuso idealmente da un grande disco dal vivo, e da lì sono sempre ripartiti. Gli highlight dei Rush sono tanti, non hanno mai registrato un lavoro che si possa definire meno che ottimo, ma alcuni capisaldi sono nel cuore dei fans.
Da 2112 a Moving Pictures, Hemispheres o Signals, senza dimenticare il resto. Un disco che ho nel cuore più di ogni altro, quello che reputo il mio preferito in assoluto, non sempre viene messo ai vertici dellla loro discografia, e lo ritengo un assoluto a livello sonoro, a mio gusto. Qualcuno dissentirà, ma credo che le ragioni che esporrò potranno dirvi il perché. Sto parlando di Permanent Waves.
Intanto è il primo e credo unico loro album ad avere in copertina una donna, poi ha una serie di peculiarità che lo rendono perfetto a livello sonoro. L’album si incasella nella seconda fase dei Rush – 1977 – 1981, da A Farewell To Kings fino a Moving Pictures – e inaugura la decade degli anni 80 con rilevanti novità.
Nel 1980 già altre band progressive avevano avviato la loro metamorfosi (vedi Drama degli Yes) così come i Police in altri settori. Le suite barocche, enfatiche, lunghe e pompose stavano lasciando spazio alle istanze musicali emergenti. Non sfuggono i Rush a questa nuovo paradigma, e in Permanent Waves il cambio di marcia è davvero evidente.
Le canzoni diventano più corte, le melodie più accessibili, e le influenze new wave e reggae entrano prepotentemente nel loro songbook. I synth, magistralmente dosati da Geddy Lee, iniziano ad assumere un ruolo più preminente e centrale, giocando e sovrapponendosi con la chitarra rock di Alex Lifeson.
Siamo in una fase in cui tutti i punti di forza dei Rush sono al massimo, in una forma sublime. Una sintesi del meglio del passato amalgamato con una perfetta interpretazione dei nuovi suoni. A livello testuale Neil Peart introduce per la prima volta una nuova forma lirica: dalle tematiche sci – fi allegoriche, fortemente evocative, fiabesche, si passa ad analizzare i sentimenti e le emozioni umane, i bisogni e i desideri dell’uomo comune nella vita.
Bisogna dire che i Rush, a differenza di altri colleghi progressivi, non avevano mai frequentato i meandri del “barock rock”, poco indugiando in riferimenti classicheggianti, tastiere settecentesche, pianoforti leziosamente sinfonici, preferendo marcare l’appartenenza al versante più rock ed elettrico di questo genere, dal quale provengono fin dagli esordi.
Permanent Waves nasce idealmente nelle sessioni del 1979, quando il trio si chiude ai Rockfield Studios in Galles, e riparte laddove Hemispheres aveva avuto una gestazione lenta, faticosa, quasi monacale, ribaltando completamente il modus operandi.
Si stabiliscono in un cottage il Windermere, nelle Muskokas dell’Ontario settentrionale, con in testa un’idea precisa: accorciare i brani, condensarli, senza perdere però nessuna delle peculiarità del loro sound.
Le visite del produttore Terry Brown sono saltuarie e meno frequenti che in passato, e questo permette ai Rush di lavorare in un modo diverso dal solito. Le canzoni finali solo sei per trentacinque minuti di musica, e considerandoli un gruppo prog il minutaggio è già insolito.
Rispetto al passato l’energia dei Rush è più positiva, solare, serena, e questo influisce sull’unicità dell’album. I demo nascono da un interscambio di riff e accordi con la chitarra acustica, ispirati dai fogli volanti che Neil Peart passa a Lee e Lifeson mentre compongono. In quelli il batterista suggerisce subito connessioni e modifiche alle strutture sonore.
Alla base c’è la volontà schietta di essere accessibili alle radio, avere dei singoli che possano bucare l’airplay, con belle melodie, ricamate e ricavate senza però rinunciare alla struttura tipica del prog. Ovviamente non pensano di sfornare sei hit single, (non sono né i Toto e nemmeno i Boston), e non rinunciarono a inserire brani più complessi.
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L’operazione riesce davvero con due pezzi, amatissimi e sempre suonati dal vivo dai Rush. Sto parlando di The Spirit Of Radio e Freewill.
La prima ha una struttura multiforme, con un mood gioioso, melodie subito ficcanti, un substrato rock venato di reggae che si apre verso l’esterno, con un bel assolo di wah wah e naturalmente arrangiamenti prog, seppure meno visibili.
Freewill è perfetta, nel suo incedere maestoso e variegato. I tempi di esecuzione sono tanti e si intersecano, senza rendere pesante la struttura. Raddoppi e dimezzamenti di tempo, intervallati da terzine lo rendono un saliscendi emotivo, regalando a tratti echi malinconici nel cantato.
A pelle sembrerebbe un feeling tipico della saudade brasiliana, allegra tristezza o triste allegria, che rende la tensione narrativa altisima e non ti distrae manco per un secondo dal flusso sonoro.
Jacob’s Ladder è secondo me la summa di come un pezzo prog dovrebbe suonare. Drammatico, suadente, epico e ad alto tasso tecnico. Qui gli accordi in minore e la prevalenza di tempi dispari si sposano alla marcia solenne di chitarra e batteria che sfocia in un intermezzo di synth fiabesco. Da lì si crea una sensazione centrifuga, sfociante nella ripresa della marcia. La dinamica fluida che costruisce le fasi armoniche e ritmiche del pezzo sono un capolavoro strutturale che ispirerà migliaia di gruppi nei decenni a seguire.
C’è poi Entre Nous, con un rarissimo titolo in francese: le istanze reggae e anche ska si fanno preponderanti, su un incedere non frenetico ma malinconico, giocato sulla continua alternanza ritmica tra 3/4 e 4/4. La chitarra a 12 corde di Lifeson accompagna i synth di Lee al centro del pezzo, addolcendo ulteriormente una struttura delicata.
Su Different Strings i toni si fanno elegiaci, le inserzioni rarefatte di piano cesellano una ballata molto distesa, sussurrata, in cui il basso sottolinea i momenti più intensi con note accentuate e allungate. Un finale blues dilatato chiude tutto con grande calma.
Se c’è qualcosa che personalmente ritengo l’apice creativo del disco e dei Rush è la chiusura di Permanent Waves, ovvero la mini suite Natural Science. Non UNA suite, per me LA suite. In poco più di nove minuti, le tre parti che la compongono (Tide Pools, Hyperspace e Permanent Waves) raccontano tutto quello che il prog stesso è.
Incredibile la fusione di diverse atmosfere e scenari, da quelle più acustiche a quelle cibernetiche, robotiche e aliene. Impossibile non pensare che i Voivod non abbiano mutuato da questo brano il loro sound di melodie vocali, intrecci di chitarra e basso più solismi da brivido. La varietà di tempi dosati e alternati è spaventosa; 3/4, 4/4, 7/8, 12/8, terzine, sincopati, con una fluidità dinamica che solo Neil Peart è in grado di gestire con estrema naturalezza, un manuale ritmico da accademia.
Non credo possa descrivere con accuratezza l’emozione che un brano come questo mi provoca a livello interiore, tanto è strutturato, complesso, amalgamato, tecnico, carico di pathos e di magniloquenza. Ci rinuncio, a voi basta solo ascoltarlo per rendervene conto. Concludo questo breve excursus per non apparire pedante, anche se di cose da dire ce ne sarebbero altre mille.
Da sottolineare come i riferimenti alla new wave sono sempre evidenti, in un gioco di parole nel titolo stesso. Il trio ha sempre confermato come abbia voluto agganciarsi a quel tipo di musica che li aveva affascinati. Altrettanto nitidi anche nel tipo di suoni algidi dei sintertizzatori, “cold and ice”, a differenza di altre band che continuavano a usare l’Hammond o il Mellotron, retaggio degli anni 70.
Tutto questo senza rinnegare le radici rock e progressive, che solo dei geni come loro hanno gestito senza snaturare un solo grammo del loro suono peculiare.
Sull’iconica copertina, a opera di Hugh Syme, vi è raffigurata la modella canadese Paula Turnbull, che mostra le mutandine e sfoggia un’acconciatura a “onde permanenti” (ennesimo livello di lettura multiplo caro alla band) che sembra poter resistere a qualsiasi tempesta. Si staglia sullo sfondo del Galveston Seawall, in Texas, durante l’uragano Carl, nel 1961, mentre un cameo visivo dello stesso Syme lo vede salutare allegramente in secondo piano lo spettatore.
Il giornale spazzato via dall’uragano è una copia del Chicago Daily Tribune, datata 1948, che vedeva un titolo errato (Dewey sconfigge Truman). A causa di questo l’editore voleva intentare causa contro i Rush, e quindi nelle successive ristampe dopo la prima, il titolo venne oscurato.
A cavallo del logo “Rush”, in rosso, il tracciato ECG dei componenti della band (terzo livello di lettura “Waves”).
Ultimo particolare da citare, i cognomi della band sono stati indicati su un cartello. In sintesi Permanent Waves ha ridefinito l’identità moderna del prog, abbandonando i grandi concept album, riducendo ogni traccia a un “mini film”.
Senza questo disco, ciò che è ritenuto il loro capolavoro, Moving Pictures, non sarebbe esistito, e nemmeno certe evoluzioni successive sia nel prog metal che nel progressive rock. Alla fine è il disco più bello e riuscito? Per me sicuramente si, ma è solo la mia opinione.
Marco Grosso