Il giro di vite – I fantasmi e l’isteria non esistono!

Il giro di vite di Henry James è considerata una della storie di fantasmi più riuscire e spaventose, insieme a La casa degli invasati di Shirley Jackson e, aggiungo io, The Woman in Black di Susan Hill.
Non ha senso che vi racconti la trama e ancor meno che faccia un’analisi critica. In più di un secolo e un quarto (uscì a puntate nel 1898) si è scritto moltissimo, i più grandi critici anglo-americani hanno dibattuto, analizzato e sentenziato su The Turn Of The Screw fino a piallarsi i polpastrelli.Esistono interpretazioni freudiane, marxiste, femministe, fiabesche, qualunquiste (e persino interiste) de Il giro di vite, ma la questione principale su cui tutti questi cervelloni critici si sono scornati è se sia una storia di fantasmi “veri” o un ritratto psicologico deviato.

Sì, insomma, se l’istitutrice, protagonista narrante della vicenda veda davvero gli spettri o se non sia tutto frutto della sua mente isterica.

Edmund Wilson fu il più determinato a voler dimostrare, raccogliendo prove su prove disseminate sapientemente da James nelle pagine, che è solo una storia d’isteria, e si è scatenato ad abbinare la torre (fallo) con la prima apparizione di Peter Quint e il laghetto (la vagina) con quella di Miss Jessel, i due spettri cattivi che vogliono corrompere i bimbi e possederli.

Poi però ha dovuto recedere davanti a un elemento piuttosto evidente: l’istitutrice (che nei vari film ha sempre un nome, ma James non gliene diede mai uno) vede un uomo sulla torre e dopo averlo descritto a Miss Grose, la vecchia governante sconvolta le dice che la descrizione faccia pensare a Peter Quint, uomo di fiducia del padrone, morto in circostanze poco chiare tempo prima.

Di sicuro James, pur precedendo Freud col suo ritratto dell’istitutrice, era a conoscenza degli Studi sull’isteria del viennese. Inoltre in quel testo c’era proprio una vicenda di una donna che gestiva la custodia di due bimbe, e c’era anche il caso di un bimbo morto d’infarto, e di certo nel libro risulta una grossa tensione sessuale dietro le accese emotività della giovane istitutrice.

Eppure Il giro di vite non può essere solo quello, una messa in scena degli studi freudiani.

Ed è clamoroso come oggi sia a me facilmente chiara una cosa che per quasi un secolo non lo è stata a gente molto più in gamba del sottoscritto. Una cosa che, solo nel 1977, a settantanove anni dalla pubblicazione del testo originale, fu una folgorazione per il povero Shoshana Felman. Povero perché ormai sarà un fantasma pure lui.

Vale a dire che, non ha mai avuto alcun senso acclarare se gli spettri esistessero o meno, perché il vero, il grandissimo pregio di Il giro di vite non sta nella prosa robustissima ed elegante di James, nella tensione, l’atmosfera incantata e minacciosa. E per quanto riguarda la trama…?
Beh, la trama… è interessante cosa ne disse Truman Capote.

Sapete che fu lui a occuparsi dell’adattamento cinematografico del 1961, Suspense (The Innocents), diretto da Jack Clayton, con Deborah Kerr, che poi resta la migliore trasposizione filmica mai realizzata.

Bene, Capote disse che aveva accettato di scrivere la sceneggiatura perché amava il romanzo, ma quando si trovò a cavarne una trama compiuta si accorse che… non c’era.

E fu un vero grande incubo, altro che spettri. Solo uno sceneggiatore può immaginarselo. C’erano appena due scene fattibili di tutta la faccenda narrata da James e Capote riuscì a ricavarne una storia commestibile per il pubblico dopo essere quasi impazzito per raggiungere un simile scopo.

Quindi non è la trama, e non sono i personaggi a rendere Il giro di vite così fico.
L’eccellenza di The Turn of the Screw è nel perfetto equilibrio costruito da Henry Jame per impedire che il lettore potesse avere mai la certezza di trovarsi davanti a un racconto di spettri o alla cronaca dettagliata di un esaurimento nervoso.

E questo è eccezionale.

E i critici, i grandi “capiscioni”, si sono persi a scavare, analizzare e dimostrare se gli spettri c’erano e o se no, era matta lei.
Che palle. Cosa ce ne facciamo ora di tutta quella marea di carte?

C’è chi le ha studiate (Mario Arturo Iannaccone) ma solo nel tentativo di ricostruire i passi evolutivi di un gigantesco trabocchetto ideato da James.

Ma qual è il senso di un’impresa del genere? Illudere il lettore che sia proprio lui a dover scegliere dove stia la verità e non dargli alcuna soluzione… perché?

Io azzardo la risposta: in un modo o l’altro, ognuno di noi finirà comunque per scegliere e credere.

Non c’è la sicurezza indiscutibile che l’istitutrice sia una povera isterica. Tanto più che, considerando il pesante revisionismo arrotondato per difetto sull’opera di Freud, viene da pensare se non sia altrettanto folle credere al subconscio e ai cosiddetti fenomeni isterici del credere ai fantasmi.

Non ci sono prove che i fantasmi esistano (ci mancherebbe altro), ma non ci sono prove che dimostrino il subconscio. Sia nel libro di James che in tutti quelli di Freud e chi è venuto dopo di lui.

Però ne Il giro di vite, c’è tutto e il contrario di tutto al fine di ridurre il lettore a compiere, nell’ambito della scienza o della superstizione, ancora una volta una scelta di fede e una rinuncia a qualcos’altro.

Non vi ho raccontato la trama non perché potete trovarla facilmente dappertutto, ma perché se raccontassi la trama sarei costretto a scegliere tra la storia di fantasmi e di isteria. Se dicessi: un’istitutrice difende due bimbi dalle insidiose manovre di due perversi spettri della servitù, sarebbe una scelta.

Se invece scrivessi: un’istitutrice difende due bimbi dalle insidiose manovre di due spettri che lei crede di vedere, farei l’altra scelta.

Dovrei scrivere: un’istitutrice difende due bambini da spettri che vede solo lei?
Vi rendete conto quanto sia invalidante il meccanismo creato da Henry James? Non si sfugge dal suo laccio.
E il bello è proprio qui.