I Firehouse iniziarono facendo scopa già col primo album, uscito quando la scena glam e hair americana era sulla spalletta più alta della giostra, nel momento esatto in cui finisce la salita e inizia la discesa. Era talmente ben fatto e tagliato per il mercato hard & heavy 1990, da istigare la Epic a spingerlo come si deve. Andò tutto alla grandissima. Soldi, riconoscimenti, figa, fama e hit da far squirtare John Kalodner. Per il mondo poteva finire anche lì. Tutti contenti, la band trionfante, l’etichetta rimpinguata dai gordosi guadagni e il pubblico saziato dopo un ultimo giro sulla giostra del divertimento hair metal ma…
Il nome Firehouse va inteso come “Stazione dei pompieri” e non letteralmente “Casa in fiamme” come l’ho inteso io per quasi 30 anni. La copertina dell’omonimo farebbe pensare a qualcosa del genere, no? C’è una sexy piromane che mostrandoci un fiammifero acceso, confessa civettuola di essere collegata alla casa che va fuoco sullo sfondo della scena. Si tratta della rappresentazione di un pericoloso disagio mentale, davvero molto diffuso, specie in provincia, ma al tempo si viveva il lato oscuro con un senso di leggerezza e di partecipazione sguaiata.
I Firehouse non hanno attizzato il fuoco incontrollato del rock anni 80, così alto da far preoccupare le mogli di certi senatori. Non furono infatti le mamme anti-rock, guidate da Tipper Gore, a uccidere la pericolosa musica giovanile dei Lizzy Borden, Prince e i Motley Crue, ma le band stesse, con una quintalata di ballate zuccherose e un’attitudine sempre più prevedibile e posticcia.
E fenomeni di successo come i Firehouse, nel 1990, furono sostenuti e benvoluti dal mondo discografico proprio perché rassicuravano i genitori.
I Firehouse diedero la stura a una melassa densissima, poi tramutata in pasta di zucchero per centinaia e centinaia di torte nuziali. Love Of A Life Time o When I Look In To Your Eyes, sono ancora tra le più frequenti colonne sonore dei video-tape matrimoniali della classe media americana.
SONG OF A LIFETIME
Dopo aver ascoltato in anteprima i pezzi che poi sarebbero diventati l’infallibile scaletta del primo album, Bon Jovi consigliò ai Firehouse di non pubblicare Love Of A Lifetime, perché quella canzone avrebbe fagocitato la band. Ci prese, ma non del tutto.
Il gruppo dal debutto ha realizzato alcune delle più riuscite ballads per coppiette di sempre e per certi versi ha fatto la fine degli Scorpions, dimenticati dalla massa come gruppo hard rock ma ricordato per i lenti e in particolare “quello col fischio”.
Non siamo agli stessi livelli di popolarità della band “tetesca” (per non riscrivere Scorpions) ma in Italia qualcuno se l’ensemble americano (per non riscrivere Firehouse già la decima volta) li ricorda ancora.
No, non intendo voi metallari ossessionati dagli anni 80 e 90, parlo della gente che ha una vita e che accidentalmente si ritrova incagliate nella memoria certe canzoni o determinati fenomeni pop vissuti con passività negli anni giovanili, mentre consumava la propria breve traversata verso l’età adulta pensando ad altro. “Ah, sì, questi mi pare di conoscerli, chi sono gli Europe?, ti chiedono mentre gli spari Love Of A Lifetime o Rock Me Tonight.
I metallari rammentano volentieri i Firehouse e li citano immancabilmente quando sciorinano uno dei loro argomenti preferiti: L’olocausto Grunge. Li nominano come esempio di ciò che intendono per “sterminio sistematico di un genere da parte del SISTEMA delle multinazionali discografiche e di MTV più l’uomo del giappone”.
In USA solo gli Steel Panther e Chuck Klosterman parlano di queste cose nel 2023. E al tempo, quando ogni settimana uscivano almeno dieci nuove band con le stesse caratteristiche dei Poison, Motley Crue o Bon Jovi, la gente notò comunque i Firehouse e comprò il loro primo album. Ottennero larghi consensi in un tempo di saturazione e nausea diffusa per il pop meta fu una cosa tutt’altro che facile.
Eccerto, per quasi tutti quelli che li ascoltarono, comprarono e abusarono, l’esperienza legata a questa band nacque e morì nell’arco del 1990/91. Ciò che venne dopo fu solo una questione di caparbio attaccamento alla vita. Perché se i Firehouse si fossero sciolti nel 1992, in pochi avrebbero avuto qualcosa da ridire, in primis la loro stessa etichetta.
Capite di cosa sto parlando?
Negli anni 70 i Kiss avevano realizzato i primi tre album vendendo pochino. La loro casa discografica però non mise in discussione la fiducia e gli investimenti riposti in loro. Poco dopo uscì Alive I e divennero un fenomeno gigantesco che ripagò fiducia e investimenti alla grande.
Vent’anni dopo, una band che già all’esordio fece soldoni su soldoni, dovette sperare con tutte le forze che gli stessi milioni di persone, avrebbero avuto la memoria e il gusto abbastanza resistenti da comprare anche in massa il successivo Hold Your Fire.
Questo cosa significa?
Che nel 1991 le tecniche di vendita e di persuasione occulta del music business avevano raggiunto livelli quasi infallibili, mentre nel 1973 c’erano metodi più blandi, mitigati da un’etica lavorativa e artistica più pronunciate. Anche allora usciva Lammerda, ma c’era un rapporto di fiducia maggiore tra pubblico e discografia e ritmi di produzione meno esasperati.
Nel 1991 le cose andavano ormai talmente veloci che non facevi in tempo a nascere e venivi già buttato nella pattumiera. Il pubblico, ormai annichilito da manovre sotterranee di pubblicità, comprava e divorava quintali di musica, ma doveva subire un lavoro massiccio di promozione che riuscisse a tenergli alta l’attenzione, l’appetito e la memoria.
Beh, no, forse quella non serviva. Ecco perché ogni anno compravano tutti un nuovo disco dei Bon Jovi, anche se non erano i Bon Jovi, non sempre. Una volta parecchi distratti acquistarono i Kingdom Come credendo si trattasse del nuovo degli Zep. Storia vera.
HOLD YOUR MEMORY
Il disco Hold Your Fire, che più coerentemente mostrava in copertina una divisa dei pompieri pronta a essere indossata, dei Firehouse fu all’altezza del primo, anche se per quello che mi riguarda non aveva la stessa media d’ispirazione e alcune delle hit puzzavano di vecchio, pur riscuotendo plausi al momento dell’uscita. Reach For The Sky, giro di chitarra, riff, dinamiche ritmiche, era già indietro di otto anni. Su Videomusic la passavano in heavy rotation, anche a pranzo, ma confrontare quel clip con gli altri video hard rock del 1992, faceva pensare a qualcosa di molto prevedibile e consolidato. Niente rischi, morte sicura.
La regola numero uno per la sopravvivenza, in qualsiasi ambito della vita, è il cambiamento. Cambiare ci permette di evolvere, di rimanere consapevoli e vivi, la rigidità uccide, talvolta salva dagli orsi affamati, ma solitamente, soprattutto in arte, non paga. Hold Your Fire, che è considerato “buono”quanto se non più del primo album, aveva, come strategia di sopravvivenza, di puntare ancora di più sulle ballad smielate, provando, per bilanciare il menù, a esprimere un po’ più la mascolinità del gruppo.
Non solo i lenti erano sulla gioia dell’amore e sulla felicità di una vita insieme, anche le hit più movimentate, come Don’t Treat Me Bad e All She Wrote, tenevano davvero bassi i livelli di testosterone. Nella prima, un uomo si lamenta perché lei gli caga in testa e lui comunque chiude lo sfogo ammettendo di non riuscire a sfancularla. La seconda canzone invece è la storia di uno che, rientrando a casa, trova una lettera sul tavolo in cui lei gli spiega perché se ne è andata, vale a dire perché è finita e perché boh.
Hold Your Fire vendette bene, sia chiaro, qualche milione in meno del previsto ma era sempre una cifrona di dischi. Nonostante il gruppo chiuse il secondo giro di giostra con un bel punto di domanda. Sarà mica finita qui?
Nel 1993 i Firehouse tornarono con 3.
Rispetto ad altri gruppi hard & heavy deluxe americani, non virarono sul thrash-dark-grunge e mantennero più o meno lo stesso sound, smussandolo un po’ qui e là e rilanciando con nuove ballad iper-romantiche e salvarono clamorosamente il culo grazie a una di esse: I Live My Life For You (seguita molte posizioni sotto da Here With You).
Questa canzone scatenò un entusiasmo e un riscontro notevoli, nonostante l’assoluta mancanza di spinta da parte dell’etichetta che non vedeva l’ora di chiudere al gruppo le porte in faccia con la scusa che non vendeva più.
La cosa avvenne inesorabilmente con la quarta uscita ufficiale in quattro anni: una raccolta di hit riarrangiate in chiave acustica più inediti. In quel periodo era la cosa più appetibile che un gruppo come i Firehouse potesse offrire al mercato. Ma Good Acoustics non funzionò o meglio, la Epic non ci scommise un soldo, replicando il comportamento di totale non-promozione, e stavolta, come per la fiaba di Pollicino, andò come doveva andare. Niente copie vendite, contratto rescisso.
I Firehouse però sapevano una cosa, erano ancora molto apprezzati e seguiti in oriente e, a dispetto di altri nomi grossi che si sciolsero tra i debiti, o continuarono a graffiare la cancellata del “Sistema” rifacendosi il costume e sperando di essere nuovamente accolti alla corte di chi conta, loro capirono l’antifona e si mossero decisi verso il Catai.
Liberati dalla Epic, rifiutarono le etichette europee o indie americane e firmarono un contratto con la giapponese Pony Canyon Records. Pubblicarono un disco che per il pubblico metal occidentale non esiste nemmeno. Category 5, e in Malesia, Tailandia, nelle Filippine, fecero sfracelli. L’album arrivò pure nella top ten giapponese.
Chiaro? In Europa e in USA non esistevano praticamente più, ma in posti pieni di mosche e di bambù sembrava ancora di stare nel 1989 e gli Smashing Punpkins o i Korn gli sparecchiavano la tavola a Dokken e Malmsteen.
Sia il quinto album, che i due successivi, O2 e Prime Time, rappresentano ancora oggi, per chi ne conosce l’esistenza, una languida evoluzione verso la pensione creativa. Sono album di mestiere, realizzati dal gruppo senza aspettarsi nulla, con una leggera oscillazione tra il rock melodico adulto e un “gurgito” mascolino di ritorno. Due parole vorrei spendercele.
Innanzitutto sono lavori dignitosi, carenti sul piano produttivo, ma più o meno coerenti col passato. Il gruppo non smette di produrre ballate “saccarose” incentrate su epifanici incontri d’amore, colpi di fulmine, giuramenti eterni e liturgiche dichiarazioni d’affetto (Take Me Away, I’ll Do Anything, I’d Rather Be Making, Loving You Is Paradise, Unbealivable, If It Change) ma alternate, a volte in modo quasi schizoide, a pezzi in cui si racconta la seconda parte di questi idilli, vale a dire addii amarissimi, incredule constatazioni della fine dei giochi e dell’orrore vacuo davanti alla prospettiva inevitabile di un futuro senza di Lei (Arrow Thorugh My Heart, Don’t Fade On Me, Perfect Lie).
Poi ci sono accenni di critica sociale (Acid Rain, What’s Wrong su 3, The Dark) e momenti di biografismo spinto (Can’t Stop The Pain, Dream e Get Ready, che rappresentano una vera e propria trilogia del lutto e The Day, the Week, and the Weather, dedicata al divorzio dal punto di vista di un bambino). Per concludere in tutti i sensi, al termine dell’ultimo album ufficiale, Prime Time, c’è persino una canzone, Go On, dedicata alla mindfullness: soluzione ai mali dei residuati bellici coronarici anni 80 e 90.
STERMINIO SISTEMATICO (SS) DELL’HAIR METAL
Devi portare le valigie leggere. Devi essere preparato. Il viaggio può essere brutale. La gente ti vede sul palco e potrebbe non rendersi conto che quella mattina ti sei svegliato alle 3:00 per prendere il volo delle 6:00 in modo da poter arrivare fisicamente al concerto. I voli vengono cancellati, i voli arrivano in ritardo e perderai la coincidenza, i bagagli vengono persi o reindirizzati e sperimenterai la rabbia del viaggio quasi ogni fine settimana, ma ne vale la pena quando sali su quel palco e senti l’energia di il pubblico. Quando avrai tre o quattro appuntamenti di volo di fila, scoprirai che il tuo corpo può gestire abbastanza bene la privazione del sonno, ma a volte perdi la concentrazione. I fan danno per scontato che tu sia ben riposato! (Bill Leverty)
Di certo i Firehouse non pensavano a tutto ciò quando da giovani lottavano per realizzare i propri sogni da rockstar, ma anche se qualcuno gli avesse detto che si sarebbero ridotti a vivere di traversate aeree il fine settimana e con un impiego da ufficio, capelli corti e giacca e cravatta ogni lunedì mattina, probabilmente ci avrebbero messo lo stesso una firma. Avere ancora un pubblico dopo 33 anni e in più, la possibilità di stare su un palco gridando “Bye Bye Baby Bye Byeee!”, non ha prezzo con Mastercard.
Sono stati fortunati. Hanno vissuto almeno un centinaio di giorni da Bon Jovi. Quanti ruderi del metal anni 80 possono dire di aver emanato le vere fluorescenze della fama, per quanto effimera, dei grandi rockers?
Quando si parla di sterminio sistematico di un intero genere, secondo me è un’esagerazione dei nostalgici, gli stessi che oggi maledicono Napster, ignorando che sovvertì proprio quel sistema che faceva cose tanto naziste (Vedi l’ascesa del grunge, appunto).
Ma al di là dei decessi repentini del metal losangelino nel giro di un anno e mezzo, dopo che le etichette gli avevano staccato la spina ancor prima di vederli stramazzare, c’è da dire che però era vero, stava per stramazzare. Quasi tutte le band che avevano dominato il mercato appena cinque anni prima, nel 1991 annaspavano dentro produzioni sempre più sfarzose e piene di pezzi tutti uguali rifilatigli da Desmond Child ormai al raschio del barile con una ricetta armonica che non funzionava giù più dal 1988. I big del metal stereofonico, quello dei grandi numeri, colavano a picco da soli (Ratt, Black N Blue) con o sensa Grunge.
Per i Firehouse varrebbe però la drammatizzazione di cui sopra. Avevano tutto per soddisfare quel mercato amico dell’hard rock, producevano a ripetizione ottime cartucce da sparare ma semplicemente furono lasciati a morire con tutti gli altri, riuscendo nonostante questo a partorire ancora un paio di singoli di successo, al di là degli sforzi promozionali, nulli.
Sono in pochi a conoscere l’intera discografia dei Firehouse. Loro stessi non si illudono quando salgono su un palco negli States o in qualsiasi altro posto. Suonano le cose più vecchie e amate. Il repertorio non si spinge oltre il 1994.
Che poi, la musica dei Firehouse è buona musica a prescindere dalla nostalgia, lo sfondo suggestionante alla Rock Of Ages, la luce crepuscolare di Seattle che entra dalla finestra e spezia con un po’ di malina l’esilio in oriente del gruppo… ?
Canzoni come All She Wrote o Love Of A Lifetime, si reggerebbero in piedi senza la nostalgia per un tempo ormai andato?
Secondo me sono indistricabili da quel contesto. Rappresentano un validissimo esempio di come nel 1990 si potesse, attraverso qualche lucida e ispirata variazione, rivendere al mondo ancora una volta Unchain The Night dei Dokken, Love Song dei Tesla e Round And Around dei RATT.
Basta guardare i video girati per supportare le hit del primo disco. Siamo nel tempio del manierismo glam metal di MTV. I Firehouse non erano giunti per sconvolgere il mondo ma per offrirgli qualcosa che già esso conosceva e apprezzava. Si parlò di raccomandazione quando il gruppo vinse a sorpresa gli MTV qualcosa Awards come band emergente al posto di Nirvana e Alice In Chains, ma loro erano solo il più fresco esemplare del manierismo mainstream rock. E presto lo sarebbero diventate le band grunge.
Un anno dopo i Firehouse erano già nel cestone Nice Price.
Fa tenerezza ascoltare dischi come 3 o Category Five perché dentro ci si sente il cambiamento in atto: la speranza che via via sfuma e la confusione che aumenta, dolorosa e poi il distacco dello yoga.
Nel 1990 i Firehouse sapevano cosa fare, lo sapevano proprio bene. Nel 2000 non erano più sicuri nemmeno di cosa usare per pulirsi il culo, come direbbe John Wayne. Ma se ne fregarono. Lo accettarono. E anche oggi non si piangono addosso. Prendono l’aereo di corsa, bestemmiano lì per lì, ma sul palco dimenticano ogni incazzo.