Tiamat: le melliflue nuvole sumere

 

Se c’è un disco che al contempo sappia mescolare e sovrapporre generi diversi nell’universo dell’heavy metal, risultando grandioso in ognuna delle sfaccettature mostrate, questo è Clouds dei Tiamat. Già la bellissima copertina che alterna il viola a immagini seppiate e viranti all’oro, evoca subito scenari meravigliosamente decadenti. Una luce soffusa, crepuscolare, che accompagna gli ultimi respiri del tramonto verso un viaggio ignoto nelle tenebre, non presenti ma imminenti, infonde sia un senso di pace dell’anima che l’inquietudine di qualcosa che potrà tramutarsi in pericolo, sgomento, horror vacui.

Figure malinconiche, un corvo crocifisso, le rose, un ragno. Poi una fortezza con una scalinata che sembra trasfigurarsi in una figura di donna, forse una dea sumera. Lei spalanca le braccia e accoglie nei suoi lombi la porta verso l’eternità; metafora del grembo fecondo che infonde la vita contrapposto alla cessazione di essa, con il sacrificio dell’uccello sulla croce (una messianica idea di un Cristo salvifico?).

Basterebbe questo per far viaggiare la mente e il cuore verso una dimensione onirica e melliflua, preludio a una musica altrettanto evocativa. E Clouds non delude l’aspettativa, anzi va oltre.

Sicuramente l’album è stato il primo punto di svolta nella carriera dei Tiamat, band che come un mutaforme cangiante ed elusivo, da qui lascia alle spalle le ombre death metal più rozze di Sumerian Cry e la lenta e ancora incompiuta metamorfosi di Astral Sleep. Alcune idee, pienamente sviluppate nelle uscite successive, fanno la loro prima timida apparizione.

Clouds è un viaggio onirico e morfico, mescola le istanze death metal più canoniche, ma qui già in evoluzione, con il doom, il gothic e un gusto melodico raffinato ed elegante. L’album si sbarazza del grezzume primordiale che ancora attanagliava gran parte delle band di quel periodo storico.

Johan Edlund si distacca da ogni cliché, avventurandosi nella creazione di qualcosa di inedito e di sperimentale, pur attingendo agli elementi più classici dell’heavy metal.

La produzione di Waldemar Sorychta e dei Woodhouse Studios è adatta, non rozza, ma nemmeno calda e cristallina come in Wildhoney.

Un valore aggiunto alle canzoni è il contributo al songwriting del bassista Johnny Hagel, che toglie un po’ di peso a Johan Edlund nelle parti vocali, le cui capacità di parlare inglese e l’intonazione rauca ma intellieggibile sta finalmente permettendo agli ascoltatori di apprezzare i suoi testi esoterici, dalla struttura semplice: brevi strofe con rima, che si adattano alla struttura delle canzoni strofa-coro-verso-coro.

Questo album si concentra maggiormente sull’atmosfera, sul romanticismo gotico e sulla poesia crepuscolare e decadente. Alcune canzoni hanno più significato di altre, legate da un fil rouge di un doloroso mondo onirico sull’orlo della morte, in preda a una febbre disperata che sogna nella sua agonia.

Clouds è un disco che in gran parte parla della fluttuazione lenta e ferale nel mondo dei sogni, dei lati nascosti dell’anima e dell’aldilà, una sorta di paradiso etereo con le fiamme dell’inferno in lontananza.

A livello musicale la sezione ritmica, semplice e molto pesante, accompagna riff ipnotici che passano dal doom al thrash e si sporcano di melodie gotiche tristissime. The Sleeping Beauty, a esempio, ha un’apertura di batteria straordinaria. Per la maggior parte si mantiene in 4/4, tranne durante alcune parentesi in cui la ritmica passa ai sedicesimi per un paio di misure. Gli assoli melodici sono piuttosto rari e talvolta sostituiti da chitarre acustiche, ma tutte le canzoni sono realizzate in modo tale che l’ascoltatore non ne avverta l’assenza (dei soli).

L’atmosfera generale è resa più intensa da tastiere semplici ma molto efficaci. Le voci si alternano tra pulite e taglienti, con queste ultime che dominano l’album. Edlund ha migliorato le sue capacità canore per enfatizzare ancora di più la sua voce rauca. Altre canzoni contengono parti cantate da più voci, persino un coro femminile nell’ultima traccia.

Il black/death degli album precedenti lasciava spazio a un doom atmosferico semplice e molto cadenzato. La presenza di chitarre acustiche e di intermezzi di tastiera contribuiscono invece qui a creare un’atmosfera simile a quella dei Pink Floyd, poi omaggiati allo stremo nel successivo  Wildhoney, che è un disco totalmente diverso da Clouds.

Le canzoni si muovono tra brani semplici e diretti (Smell Of Incense) e maestose canzoni doom (A Caress Of Stars). a episodi più complessi, come l’ultima traccia, “Undressed”, che è il brano più lungo.

Quando gli strumenti si affievoliscono, non si sente nient’altro che il suono di un monitor che registra i battiti del cuore in un ospedale. I suoni che seguono sono eterei, prodotti dalle tastiere, e danno l’impressione che qualcuno sia morto e ora stia fluttuando verso l’aldilà, come l’intero album.

Non c’è stato quasi nessuno nella scena meta dei tempi a essere così intenso e personale, capace di rapirti l’anima e squarciarla in mille brandelli, sia in ambito estremo che in quello più tradizionale, doom o gotico.

C’è chi afferma che i Tiamat più belli siano quelli di Wildhoney, e rinnegano o minimizzano tutto ciò che è stato prima, ma forse peccano di lesa maestà. Inutile e insignificante fare una recensione e un “track by track”, ogni canzone è un tassello che si incastra nell’altro, e compone un magnifico diadema oscuro e misterioso. L’equilibrio perfetto, unico, non sarà più replicato.

Edlund si dirigerà verso il citazionismo gothic rock poco efficace, tra i Lucyfire e le ultime fatiche in studio con i Tiamat, che sono pallidi fantasmi della grandeur di un tempo.

Se devo racchiudere Clouds in un’immagine sola, penso a un uomo che, seduto sulle solitarie e silenziose pietre di un muretto a Sumer, contempla il calare del sole placido, con un tempio in lontananza, la sabbia del deserto che asciuga le sue lacrime e che spazza via qualche nuvola rosata e melliflua. Questo è l’album di cui vi ho parlato, questi sono i Tiamat.

(Marco Grosso)