Sola… in quella casa – Un horror cult da recuperare

Una tela pulita e una tavolozza di colori.

Il titolo originale di Sola… in quella casa era I, Madman. Oggi potrebbe anche funzionare sul mercato italiano- Io il pazzo! Fico, no? I, Madman… visto che ormai abbiamo tutti guadagnato una certa dimestichezza con l’Inglese e siamo abituati a titoli in lingua (Breaking Bad, Serendipity, Ghost). All’inizio degli anni 90 però era più probabile per i distributori, coinvolgere meglio il pubblico di “Casa”, con un titolo che pur non avendo nulla a che vedere con la trama del film da vendere, poteva alludere genericamente a una parolina infallibilmente attraente, a quei tempi. Sola… in quella casa. Quale casa? Ma quella, la casa che sapete bene, in fondo al parco, a sinistra, vicino al cimitero,  nel bosco, al numero tredici, la casa di Mary, di Helen, delle anime perdute, dove è sepolto coso… Coso, ma chi coso?

E via con una locandina appositamente ridisegnata per dare coerenza al titolo. Sola… in quella casa quindi la tizia che è sola (il volto di una donna urlante) e la Casa, in stile Norman Bates, con l’immancabile C uncinata disegnata grande rispetto al resto della parola, a mezza luna, colore giallo, con allusione di parentela tra l’ennesima Casa e quella Casa che tutti conoscevano, almeno gli italiani, in fondo a sinistra eccetera eccetera. Quella che all’estero non era mai stata definita casa, infatti era uno chalet, e a cui tutti facevano riferimento con una parola da noi intraducibile: Evil Dead.

Poi capitava di guardare il film e scoprire che sì, una donna era spesso da sola in casa, ma si trattava di un appartamento e soprattutto il pericolo non veniva da dentro lo stabile, era fuori e chiedeva di entrare.
In fondo anche The Last House On The Left non c’entrava nulla con la trama, però il titolo funzionò alla grandissima e trasformò un film violentissimo, girato quasi tutto in esterni, nel prototipo distributivo che poi condusse a Sola… in quella stramaledetta casa, che sta sulla sinistra, è nera, ha una porta che non va aperta, una cantina che non va visitata, un cancello che non va superato e insomma, non bisogna entrarci che è meglio.

Tutto il preambolo per dare un’idea del clima selvaggio e un po’ folle in cui il film di Tibor Takàcs, regista ungherese, è annegato in poco tempo, salvo riemergere negli anni grazie al fenomeno dei cult.
Quando uscì I,Madman, Takàcs aveva diretto solo un film, ma di gran successo, l’horror-teen antesignano delle odierne Stranger Things,


Esatto. Non aprite quel cancello. Ve lo ricordate?

Era già in cantiere il seguito di The Gate (il titolo originale) ma Tobor, in quel momento, potendo permettersi di fare qualcosa di più audace per sfruttare la benevolenza del mondo cinematografico, si ripresentò con questo meta-terror-movie adulto di rara spietatezza, e con un protagonista negativo davvero efficace: uno scrittore e alchimista folle di nome Malcolm Brand.

Lui.

Ci sono un paio di cose davvero fiche intorno a questo feticcio. La prima è che è interpretato alla grandissima dal creatore degli effetti speciali Randall William Cook, il quale, come vedete in foto, sembrò ispirarsi Max Schreck

che Bela Lugosi insieme;

la seconda è che il personaggio fa proprio paura.

Guardate la scena in cui lei lo incontra alla fermata dell’autobus con la sua nuova pettinatura (sempre foto sopra) e ditemi se non è così. È una via di mezzo tra l’Erik de Il fantasma dell’opera, Freddy Krueger e Van Gogh quando sbrocca.

La Christine della situazione si chiama in due modi: Virginia nel mondo in cui è convinta di vivere lei e Anna in quello in cui è convinto di vivere Malcolm Brand.

Non pensate che sia tanto complicato. Si tratta di un rimpiattino tipico tra realtà e finzione in cui i personaggi di un paio di romanzi estremi e crudeli, sconfinano nella dimensione di chi legge, approfittando della fervida immaginazione e dell’apertura mentale della protagonista.

Virginia infatti fa presto a capire davvero cosa stia succedendo. C’è un uomo molto pericoloso, lo stesso che ha scritto due romanzi auto-biografici terribili (di cui uno che si intitola I, Madman) il quale è uscito dalle pagine per fare a lei ciò che nel libro è riservato all’amata.
Infatti, Sola… in quella casa è una storia d’amore, ha un suo impresentabile romanticismo che seduce la povera Virginia, capace di provare per il mostro una certa empatia.
Questo però finisce per attirare lo spirito di Brand verso Virginia e sono cazzi per lei.

E quando Malcolm Brand diventa il suo spasimante, la pietà iniziale di Virginia si trasforma in orrore senza confini.
Però lei prova a spiegare al mondo cosa stia davvero succedendo.

Virginia è la tipica protagonista degli horror che fa il genere di cose che non fareste mai, tipo visitare un sotto-scala da sola senza dopo aver sentito un rumore, oppure dire alla polizia che il maniaco che ha tagliato le orecchie al suo vicino, è uscito dal libro che sta leggendo e che il libro le permette di prevedere i futuri omicidi, aspettandosi di essere creduta.
Ma chi vuoi che le creda?
Nessuno.

Virginia ha una relazione con un bellimbusto bogartiano che fa l’ispettore di polizia. Sembrano una bella coppia, ma tra i due, fin dall’inizio ci sono delle incompatibilità. Secondo lei, dopo un mese di relazione, lui non dovrebbe trascinarla a casa da sua madre per il pranzo di Natale e per lui, dopo un mese di relazione, è chiaro che lei legge robaccia e si lascia troppo suggestionare.

Malcolm Brand diventerà presto il medium giusto per scatenare la crisi tra i due. E in coda, sarà anche il motivo della loro momentanea riappacificazione. Dico momentanea non perché esista un seguito di Sola… in quella casa dal titolo Sola… in questa casa, (anche se siamo) 2. Ma perché è chiaro quanto i piccioncini vivranno come coppia, più di contrasti che affinità.

Lei frequenta corsi di recitazione e lavora in una libreria di usati dove la gente compra soprattutto manuali per scambisti e sesso con la terza età. Lui ha un brillante avvenire nella polizia pagato al caro prezzo di perdere ogni speranza, ogni empatia, ogni idealismo.

Lei ha bisogno di solidità e stabilità ma Richard, (che a proposito, forse vorrete saperlo, è interpretato da un vattelappesca di seconda mano di nome Clayton Rohner) ha la mano pesante e probabilmente forzerà nel cestino tutta l’inquietudine e incertezza di lei in un ruolo casalingo da famiglia americana che non reggerà a lungo.

La protagonista è interpretata da Jenny Wright. Alzi la mano chi sa chi è Jenny Wright?!!

Nessuno? Beh, forse questo nome non vi dirà molto ma posso garantirvi che la conoscete, sempre che abbiate visto The Wall di Alan Parker e Near Dark (Il buio si avvicina) della Bigelow. Secondo Takàcs lei è la cosa migliore di tutto il film e in effetti la ragazza cerca di cavarsela con l’interpretazione di una sognante disadattata alla vita adulta.

Dice il regista a riguardo: “Ho visto per la prima volta Jenny Wright darmi le spalle seduta su una panchina fuori dall’ufficio del casting. Non l’ho riconosciuta. Ho osservato i suoi movimenti e i gesti mentre leggeva. Ero troppo lontano per sentire la sua voce ma sapevo che lei era la ragazza a cui volevo far interpretare Virginia. Quando l’ho incontrata, sembrava perfetta per il ruolo in ogni modo. Ho avuto pressioni per lavorare con nomi più grandi, ma dopo aver visto Jenny quel giorno sulla panchina, non potevo vedere nessun altro come Virginia. Durante la produzione è stato fantastico lavorare con lei, ha sempre fatto scelte interessanti e ha mantenuto il suo buon umore”.

La cosa davvero paradossale è che proprio questa componente dissociante e perturbata, il disadattamento alla vita adulta che dicevamo, lega Virginia al mondo di Brand, il quale di sicuro sa capire certe profondità di lei molto meglio del suo boyfriend poliziotto; ottuso ricercatore di assassini e di indizi plausibili nella misera realtà del sensibile.

Ho citato Van Gogh perché Malcolm Brand decide di corteggiare la sua amata usando un rasoio e prendendosela con il suo viso poco avvenente. Si mozza il naso, le labbra, le orecchie e si scalpa la testa. Poi inizia a fare la spesa nel vicinato sociale di Virginia, raccogliendo dalle sue vittime, le parti del loro corpo che sono più attraenti e trapiantandole su se stesso.

Il film è invecchiato, la fotografia salmone stancante Bryan England, le scenografie asfittiche e il doppiaggio sotto-vuoto, lo rendono ormai un po’ datato e tipico di un certo design cinematico anni 90. Per dire, c’è un acquario di pesci. Negli anni 90 ce n’è uno in ogni film. Un acquario a cui però i personaggi non danno quasi mai retta (mentre negli anni 80 era un oggetto molto più dinamico, come in Sbirri oltre la vita). In questo film Jenny Wright non perde un secondo con quei pesci, potrebbero anche essere morti, per quanto le riguarda. Ma non solo quelli, anche gli altri oggetti della casa, l’arredo intero, lei e lui, Clayton Rohner, ovunque si trovino nel loro appartamento, non comunicano mai con esso.

Al riguardo Takàcs ha detto una cosa che risponde in parte alle mie obiezioni: Ho collezionato tascabili pulp alla fine degli anni ’70 e ’80. All’epoca di I, Madman, mi piacevano molto i vecchi noir. E il film mi diede la possibilità di assecondare i miei “impulsi pulp”. Ho usato la copertina sgargiante e sopra le righe dei tascabili come punto di partenza per la scenografia. Bryan England, il mio direttore della fotografia, aveva un feticismo per i vecchi noir e studiava i classici di quel genere in modo maniacale.

Di conseguenza è possibile che il contrasto “fintoso” e statico delle scenografie sia dovuto proprio a questo bisogno del regista (e di England) di recuperare certe atmosfere alla Chandler ricostruendo le stanze come nei film di Fritz Lang o John Huston.

L’omaggio alla letteratura pulp è sia nel finale, di cui parleremo dopo, che nel siparietto dell’editore di romanzi porno, che è cinico, brontolone, equivoco e responsabile inconsapevole della pubblicazione dei due libri di Brand, divenuti alchemicamente i canali di passaggio dimensionale per il killer. “Io non ho sposato quel tipo, ho solo pubblicato un paio di suoi libri”, dice sbocconcellando il suo sigaro.

Ok, si tratta di piccolezze. Il film però si regge su una grande idea e conserva dei momenti ancora efficaci. Per esempio quando Malcolm insegue l’attrice dai capelli rossi lungo le strade nebbiose e poi su per le scale del suo appartamento, con una siringa in mano e un violino striminzito che lo accompagna lungo il corridoio, quella è una sequenza molto potente.

E la colonna sonora è una delle cose davvero interessanti. Peccato che nessuno l’abbia riversata generosamente su you tube. Mi sarebbe piaciuto ascoltarla per intero. Tra suggestioni sentimentali d’altri tempi (La vie en rose) e promenade pianistiche struggenti alla Satie, l’autore Michael Hoening, già autore delle musiche di Non aprite quel cancello e il remake di Bloob degli anni 80, aiuta il film di Takàcs a non morire nell’abbraccio soffocante del tempo.

Takàcs sembrava davvero destinato a una carriera da vincente nell’horror, quando uscì questo film. Era riuscito a conquistare il grande pubblico con The Gate e la critica grazie ad I, Madman (vincendo il Festival di Avoiraz del 1990) e invece dopo lo stanco seguito di Non aprite quel cancello, realizzato l’anno successivo, non ha praticamente più fatto horror, a parte Rats (2003) e qualche cosa per la TV, il resto della sua filmografia, dopo questo ottimo exploit, è stato cinema d’azione, thriller per famiglie, Sabrina vita da strega e film natalizi.

Nonostante il film sia raramente girato in esterni, va notata la versione davvero atipica di una città che siamo abituati ad associare al sole, le macchine, i colori e le palme. Hollywood qui è piena di nebbia, è fredda e triste, come Londra a Natale. Non so se nella realtà la città sia così sinistra e deprimente in certi periodi dell’anno, di sicuro la versione di Nathanael West/Joel Schlesinger de Il giorno della locusta ci fa intravedere le ombre di questo posto idealizzato e farlocco, ma qui siamo davvero in una dark city dove la gente muore nell’indifferenza e nel buio famelico dell’amore malsano e disperato della follia, un luogo in cui si capisce che siamo a Natale per via di una vaga musichina percepita per la strada e uno spot in TV guardato di sguincio dalla protagonista in un momento di scazzo.

Non è un film completamente deprimente, intendiamoci. Ha momenti in cui non vi offre alcun appiglio che non sia qualcosa di sanguinolento e viscido, ma I, Madman ha pure i suoi momenti di leggerezza e ironia. Tanto per dire, i passaggi dalla realtà alla finzione dei libri di Brand, che Virginia/Anna vive in prima persona, sono recitati in modo affettato, da feuilletton.

Il finale del film è una citazione letteraria difficile da cogliere, a meno che non siate dei grandi appassionati di narrativa fantastica. È un colpo da maestro dello sceneggiatore Chaskin, che omaggia un romanzo breve di Fritz Leiber, Nostra signora delle tenebre. I mostri si trasformano in fogli di carta che volano nel cielo. E c’è finalmente una veduta di Hollywood, con un po’ di sole. E di azzurro.