Ero molto orgoglioso di suonare nei Mind Over Four. Eravamo davvero degli idealisti. Abbiamo creduto sul serio nella musica. Abbiamo creduto nel futuro. Volevamo eliminare l’ego e la postura. I nostri nomi e le nostre foto sono stati volutamente omessi dall’artwork delle nostre prime uscite – Mike Jensen
“Is possibly the best band in the world”, così scrisse Haris Karaolides, penna del Metal Hammer greco, nel 1993. Il giornalista inglese Mike Ealey li definì “uno degli eventi più importanti nella scena dai tempi dei Voivod e Faith No More”. Prima che vi mettiate sulla difensiva perché non li avete mai sentiti nominare e solleviate grossi dubbi su quello che sto scrivendo, posso rassicurarvi che nemmeno io ne sapevo nulla di questi tizi, fino a poco tempo fa. Li ho scoperto leggendo un bel tomo di Jeff Wagner sul Progressive Metal, uscito per Tsunami e, credo, ancora in commercio. Lui è il vero responsabile di una potenziale riscoperta di questi “Almost “Not Really” Famous” che nel giro di dieci anni, realizzarono dischi straordinari senza riuscire a conquistare una vera, consistente e fideizzata audience.
Erano avanti? Erano geniali ma incompresi? Non lo so, cerco di non vendervi nulla. Posso però garantirvi però che in tanti anni di metal non avevo mai sentito un gruppo metal come questo. Non pensate a cose astruse, tecnicissime o ultra-sperimentali. Si tratta di un segmento smarrito della storia evolutiva del genere, “il ponte perfetto”, come ha scritto un certo Marchman “per collegare i fan dei Queensryche, Primus, Janes Addiction e gli emergenti Tool.
CAPITOLO 1 – I QUATTRO MOSCHETTIERI DELLA MENTE
I Mind Over Four sono una delle poche band heavy rock che non hanno ancora deciso di tornare insieme, fare un tour o un disco commemorativo. E questa è cosa buona, per quanto mi riguarda, perché il fenomeno dei revival mi ha stancato e non ne posso più, quindi bravi, vendete cara la pelle all’industria della nostalgia.
Non che i Mind Over Four abbiano resistito alle pressanti e appetitose richieste di qualche promoter; nessuno li ha cercati. Considerando però i ritorni più improbabili degli ultimi quindici anni, non ci sarebbe niente di strano se anche loro tentassero una ripartenza. Sembra però che non gliene freghi niente. Guardano avanti, hanno una vita e io li benedico.
Di contro, il “non ritorno” di questa band ha voluto dire una scarsissima quantità di materiali a cui ho potuto attingere per scrivere questo pezzo. In rete non ci sono news più recenti del 1995. Riguardo la carta stampata uscì forse qualcosa su un Rockerilla dei primi anni 90 ma non ne sono sicuro.
Insomma, sapere qualcosa di loro, soprattutto dopo lo scioglimento del gruppo, è difficile. Per una striminzita rassegna stampa mi sono dovuto accontentare di una vecchia intervista su una vecchia rivista canadese che mi ha gentilmente scannerizzato Manuel Fiorelli.
Se fossero tornati in circolazione, che so, nel 2010, pubblicando magari un nuovo album con qualche etichetta ultra-indie, probabilmente in rete si troverebbero delle interviste promozionali con cui rivangare il passato e offrire delle nuove risposte, ma non c’è più una band e le quattro menti del nome, hanno tutti fatto perdere le proprie tracce; a parte Ritchie Castillo, il bassista.
Passando in rassegna i sentiti commenti sotto gli amatoriali video dal vivo dei MO4 risalenti ai primi anni 90, che si trovano sul tubo, ho notatoun messaggio copia-incollato in cui si faceva riferimento alla pagina facebook di Ritchie e alle novità discografiche di un suo progetto solista, da lì a individuare la pagina facebook è stato un attimo. Gli ho scritto subito delle mie intenzioni di fare un pezzo sul suo ex gruppo e di avere qualche domandina per lui. Dopo poche ore ho ricevuto una risposta cordiale in cui mi offriva la sua disponibilità.
Senza perdere tempo, gli ho inviato una ventina di domane nel giro di dieci minuti, tanta era la mia curiosità sulla band. Il giorno dopo mi è arrivata una mail di un tipo di nome Mike Fordays, che diceva di essere Mike Jensen, ovvero il chitarrista del gruppo.
Mike Fordays, come si fa chiamare oggi, mi ha detto che Ritchie gli ha parlato dell’intervista e gli ha girato le domande a cui vorrebbe rispondere pure lui. Non solo, ha pensato di farle avere, se non mi spiaceva, anche agli altri due ex membri della band: il frontman Spike Xavier e il batterista Mark Fullerton.
Jensen/Fordays mi ha assicurato che in pochi giorni avrei avuto tutte le risposte e devo ammettere di essermi emozionato per questa cosa. Non credevo sarebbe stato così facile avere udienza da tutti e quattro, visto che non ci sono profili o pagine ufficiali.
I quattro sono stati di parola. Sotto potete leggere l’intervista. Voglio ringraziarli, se leggeranno e tradurranno con google il mio articolo, perché nel tempo che ho dedicato ai Mind Over Four, io ho avuto l’opportunità di crescere. Spesso col metal io torno adolescente, raramente mi succede il contrario.
CAPITOLO 2 – GROW UP AND SCREAM
Crescere perché davanti ai Mind Over Four ho davvero avuto pane per i miei denti, o come diciamo noi di Sdangher “biada per le mie ganasse”.
La mia prima reazione dopo aver sentito tutti e cinque gli album ufficiali, è stata un misto di delusione e irritazione. Mi interessava comprendere la loro musica ma dopo una settimana di ascolti ripetuti, qualcosa mi lasciava sempre al palo. Mi immergevo nella ricezione e ne uscivo fuori come una pallina da ping pong in una piscina.
Nonostante mi sentissi respinto dal sound e dalla struttura della maggior parte delle canzoni, però allo stesso tempo capivo che mollare questa band fosse fuori discussione perché percepivo il senso di una sfida a cui non avrei dovuto rinunciare. Se anzi, avessi insistito, sarei venuto fuori da questa esperienza con qualcosa di speciale su cui meditare e scriverci su.
Di solito mi lamento della poca originalità di tanti artisti, della prevedibilità del 90 per cento delle band rock e metal. Anche i gruppi più sperimentali mi appaiono per lo più andare a tentoni, non viaggiare verso l’ignoto. Beh, finalmente avevo davanti a me un gruppo diverso dagli altri e allo stesso tempo parte del tutto che conoscevo già così bene.
Non vi sto dicendo che la musica dei Mind Over Four sia fresca e e all’avanguardia, si avverte bene da quale tempo arriva (anni 80 e 90) ma in un certo senso loro sono qualcosa che probabilmente ci siamo tutti persi e che continuiamo imperdonabilmente a perderci. Mi viene in mente una fase evolutiva della specie che scopriremmo solo, recuperando in ben preciso ghiacciaio disciolto grazie al riscaldamento globale, dopo millenni. In quel muro di freddo eterno, ecco quattro cadaveri intatti dalle sembianze mai realmente riconducibili a nessuno stadio umano conosciuto.
Non potevo e non posso aggrapparmi a nulla di famigliare per definire i Mind Over Four. Queensryche, Fates Warning, Jane’s Addiction, qualcuno cita pure i Die Kreuzen (come se potessero significare qualcosa per qualcuno) ma una volta tanto si tratta davvero solo di nomi, il cosiddetto dropping name che serve solo a chiarire i confini della mia ignoranza riguardo i Mind Over Four. Potrei citare alcune band come fanno altri, ma non vi aiuterei. Dovete sentirli per capire di cosa stiamo parlando.
Spesso e volentieri, quando ci troviamo di fronte a un gruppo che non abbiamo mai sentito prima, e che però fa parte della consolidata storia del metal, ci risulta nuovo e famigliare insieme. Se io non avessi mai sentito dopo tanto tempo che frequento il genere metal, che so, i Celtic Frost, comunque non farei fatica ad assimilare i loro dischi perché quello che i Frost hanno realizzato negli anni 80, difficilmente un metallaro non lo trova negli album di band anche molto diverse e che lui conosce molto bene: metti nel caso specifico, Paradise Lost o Nightwish, Ma se un gruppo originale non ha avuto degli epigoni, è passato come un fantasma nel cuore di un secolo senza lasciare traccia, ecco che davanti a esso tu non sai a cosa aggrapparti per entrare subito in sintonia.
Si tratta di metal, ok, ci sono brani con le cavalcate, altri più thrash, arpeggi malinconici, il vocalist Xavier a volte ricorda persino John Midnight nella soffitta (Lost Reflection) e altre volte sembra uno sgangherato punk rocker ubriaco marcio che si sta tenendo le budella per non farle cadere sul pavimento, ma l’insieme non è niente di simile a ciò che conosciamo. Pace.
Basta sentire un brano a caso del loro quarto e probabilmente maggiore album Half Way Down (My Name Is Nothing o Jack The Throne) e possiamo dire che sì, è metal, cazzo. Però ci sono dentro altre cose strane. E dopotutto ok, metal ma come? Basta seguire le dinamiche dei brani e accorgersi che non è esattamente il metal che siamo abituati a riconoscere come tale.
Potremmo affiancare a metal due paroline libera-tutti come “alternative” o “progressive” ma stavolta non basterebbero a spiegare il “disagio” che proviamo davanti a pezzi come The Goddess o Winter. Lo stesso disagio che proveremmo di fronte a un uomo che nonostante le apparenze, non vi ricorda nulla e nessuno della moltitudine di uomini che avete visto, sognato, conosciuto, amato e odiato.
Definirli alternativi in un periodo in cui band come i Mind Funk erano messe sotto contratto a scatola chiusa e i Nirvana dominavano le classifiche, non è davvero rappresentare qualcosa di diverso né rendere un favore ai Mind Over Four. L’alternativo allora era mainstream e loro volutamente cercavano di starne il più alla larga possibile. Definirli “progressivi” potrebbe starci, a patto che si chiarisca secondo quale accezione: il loro prog è ricerca, non un rifacimento dei viaggi di vecchi pionieri.
Il progressive dei Mind Over Four somiglia a un tuffo nello spazio senza speranza di ritorno, non è un volo Spagna-Bahamas sulle orme di Cristoforo Colombo. Pensate a Colombo e immaginate gli Yes, pensate a tante band odierne e sostituitele con vostro nipote che va alle Bahamas su un volo low-cost e si definisca anche lui un praticante dell’esplorazione. Avete capito cosa intendo?
CAPITOLO 3 – EXPERI-METAL
I Mind Over Four ancora oggi non sono definibili. Su Heavy Metal Webzine uno di quei ragazzi scrive con affetto: “non ho mai capito cosa abbiano cercato di fare, ma mi piaceva”. Ed è esattamente il punto. Non puoi dire che è power metal con influenze jazz-core. Cosa significherebbe per mia madre? E voi in questo caso siete mia madre, capite? La mia definizione sta su come una targhetta appesa con lo sputo al culo di un elefante in movimento.
Half Way Down dove andrebbe a parare? Si tratta di punk-metal con parentesi power e progressive? Sì, ma anche no. Non vedete la fine della strada e non sapete bene cosa sia perché non potete tirare un confine che dica io mi trovo qui.
I Mind Over Four vengono da un tempo in cui, per un po’, (dal 1987 al 1997), pareva che il mondo chiedesse proprio che le barriere dei generi saltasse per aria, e che tutto tornasse all’inizio, quando il rock era “Rock” e dentro il disco di un gruppo come i Jefferson Airplaine potevi trovare la potenza, la follia, la sperimentazione, l’amore e tutta la gamma di colori che il sangue assume quando sgorga da una ferita e schizza nel cielo della vita. Cito la band di Grace Slick non a caso, poi vi dico perché.
Loro sono nati quando il punk e il post-punk erano già finiti. Il gruppo sembrava guardare a quei due cadaveri, all’art rock anni 70 e alla psichedelia anni 60, sia nel primo album (che poi sarebbe un EP d’esordio del 1983, Desperate Expression) sia in parte nel primo vero album completo, Out Here.
Quando Out Here uscì era 1987, il metal stava diventando una roba sempre più grossa, anche se al suo interno c’erano recinti e faide ridicole; roba tipo glamster contro thrasher. E a ridosso della saturazione mercantile tra il 1989 e il 1991, il fenomeno Crossover guadagnò sempre più credito, soprattutto nel circuito della critica, sulle riviste e in parte anche tra il pubblico più giovane.
Faith No More, Soundgarden e Jane’s Addiction, emersi proprio nello stesso periodo dei MO4 (che degli ultimi nominati erano pure compagni d’etichetta) mostrarono che il futuro del rock era proprio nel rimescolare le carte, ma senza mollare l’obiettivo che già al tempo di Crue e di Metallica era ben chiaro: scrivere delle grandi canzoni.
E mentre i primi gruppi di Seattle si aggiunsero al carrozzame delle novità (Mudhoney) il mercato sembrò davvero muoversi nella direzione della contaminazione. Il funk diventò un inspiegabile ospite fisso in molti lavori delle band metal, con dispiacere profondo dei defenders e sempre maggiore curiosità di chi si era tenuto alla larga dal giro pesante pensando che fosse solo violenza, borchie e draghi sputafiabe.
Sembrava il momento giusto per un gruppo come i MO4, che già dal nome chiariva l’intento di creare qualcosa che rispettasse le singole individualità di chi era coinvolto. Quattro menti con le proprie influenze, visioni e idee. Il senso era cercare un modo di unirle in un unico sogno, sogno, urlo, ma ci voleva una strada per incontrarsi, attraverso la stessa matrice che apparentemente divideva ogni elemento: la musica.
Ecco quindi che Spike Xavier, vocalist in fissa con i Melvins e l’hardcore, urlava le proprie invettive su un calesse di riff progressivi e fraseggi jazzati di Mike Jensen e Ritch Castillo, fissati con Rush e Voivod. Il chitarrista, Mike tra l’altro era innamorato dello stile di Mike Stern, chitarrista di Miles Davies e Blood Sweat & Tears e talvolta ci infilava dei passaggi jazzati. Il batterista, Mark Fullerton aveva altri suoi totem a cui inviare le proprie preghiere, tipo i Queen.
Ma cosa venne fuori dalla fusione di questi quattro ele-menti? Cinque dischi molto diversi l’uno dall’altro. Si sente che sono sempre gli stessi ragazzi a suonare, ma non c’è un vero e proprio genere a cui mantenersi fedele. È una ricerca che spinge verso muri di rovi e di frasche traverse, sbattendosene delle vie battute. Tutto a dispetto delle possibilità commerciali che via via erano offerte al gruppo e alla faccia di un mercato che sembrava premiare proprio l’alternativo al metal normale. Il metallone vero, quello che aveva traghettato i Metallica e i Guns in cima all’olimpo del Rock, ma che adesso se ne stava lì, spiaggiato, senza più un briciolo da offrire a nessuno.
E così il pachiderma metallico divenne il banco di un festino di nuovi pesci che sono andati a “scorpacciarlo”, prendendo ognuno un pezzo e portandolo altrove.
CAPITOLO 4 – JEFF WAGNER AMA I MIND OVER FOUR
Facciamo una pausa e scambiamo due parole con il critico musicale Jeff Wagner, che potete ammirare in questa foto mentre lavora sodo al suo nuovo libro e che i lettori dei libri Tsunami dovrebbero già conoscere per due titoli imperdibili il già citato Prog Metal e Soul On Fire, la bio su Peter Steele.
Jeff, perché secondo te i Mind Over Four non ce la fecero?
Il motivo per cui una band ce la fa o non ce la fa dipende da tanti fattori, molti dei quali hanno a che fare con la fortuna e il tempismo. Considerando l’era in cui i MO4 erano attivi, penseresti che sarebbero stati apprezzati dai fan del metal e dell’hard rock che si sono attaccati a Jane’s Addiction, Faith No More, Life of Agony, Melvins, ecc. Ma, come per tanti dei miei gruppi preferiti, forse erano solo un po’ troppo strani da assimilare, anche per quel tipo di ascoltatori avventurosi. Ricordo quando la loro etichetta all’epoca (Caroline Records) spingeva The Goddess, e io pensavo: “This is gonna be huge” . Ma non lo era. Probabilmente non ha aiutato nemmeno il fatto che non abbiano mai avuto un contratto discografico a lungo termine con un’etichetta di qualità. Ognuno dei loro dischi è finito su un’etichetta diversa. Ciò non può aiutare con la promozione/il marketing/lo slancio.
Pensi che Spike meritasse un po’ più di tempo nello studio di registrazione? Ho l’impressione, ascoltando i dischi del gruppo, che lui a volte non sia riuscito a dare proprio il massimo.
Questa è un’osservazione interessante. (È anche probabilmente il jolly che ha impedito ad alcune persone di apprezzare i MO4. Il suo stile vocale è piuttosto selvaggio e del tutto singolare. Lo ami o no.) Per quanto riguarda la questione del più tempo in studio, forse hai ragione. Penso che i suoi album più forti, dal punto di vista della performance, siano l’omonimo e The Goddess. Parti di Out Here e Half Way Down sembrano come se Spike fosse totalmente sconvolto e improvvisasse, agitandosi selvaggiamente quasi lasciato a se stesso. E sì, forse se avesse affinato le sue idee su quegli album, magari sarebbe stato anche meglio. Oppure gli sarebbe mancata la sua inimitabile personalità, chissà. Sarei curioso di sapere maggiori dettagli sul motivo per cui hai posto questa domanda. Hai esempi specifici di lui che non ha dato il massimo?
Sono partito proprio da una risposta che diede a te nella sola intervista che è disponibile in rete, pubblicata e realizzata proprio da te, Jeff. Lui ti parlava del tempo e dei modi di registrazione degli album in studio. Disse che sia l’omonimo “Mind Over Four” che “The Goddess” furono registrati in 72 ore effettive. “The Goddess” lo finirono in soli cinque giorni. Con “Out Here” ci misero 48 ore di studio. Lavoravano in sessioni di quattro o sei ore al giorno per una settimana al massimo ed è incredibile. Per quanto riguarda la voce, Spike ti confessò che lui ero seduto in studio, quasi sempre da solo. Poteva fare un paio di pezzi al giorno e levarsi di torno. Le cose non migliorarono per Half Way Down, che è probabilmente la migliore esperienza produttiva per la band e il disco più compiuto. Cito dalla tua intervista a Spike: “Per The Goddess mi svegliavano letteralmente alle tre del mattino: okay, vieni qui, devi fare la tua voce, mi dicevano”. Chiaro che in condizioni simili sia stata dura per lui, bisogna tener conto che quello che Spike che aveva in mente, stando ai risultati, era comunque originale, diverso dalla norma. Non si trattava di entrare e fare le cose simili a Tom Araya o Bruce Dickinson. Era tutta una cosa sua. Forse avrebbe avuto bisogno di più assistenza e di più tempo per tirare fuori al meglio quelle linee vocali così espressive e rapsodiche.
Ah, giusto! La mia intervista. Ecco perché mi suonava familiare, ma non riuscivo a capire come mai. Quell’intervista in effetti è stata fatta così tanto tempo fa che avevo dimenticato quel passaggio di cui mi parli ora.
Inoltre, leggendo la biografia ufficiale dei Paradise Lost, “No Celebration”, mi è tornata subito comoda una citazione di Holmes, il quale dice che prima dell’Autotune, non solo per lui, ma per tutti i cantanti in generale, registrare la voce era “un cazzo di calvario e ci voleva un’eternità”. Stiamo parlando di un vocalist che al tempo ebbe a disposizione settimane per registrare dischi come “Draconian Times” e “One Second”, quindi uno che era abituato ai grossi budget e a essere affiancato da produttori davvero in gamba. Figurarsi Spike che doveva incidere le sue parti ogni notte per tre ore e da solo, col fonico dall’altra parte del vetro che gli chiedeva, ti va bene così? Ok, andiamo avanti!”
Un’altra cosa. Un gruppo non scende a compromessi, come i Mind Over Four, ma poi esce di scena deluso. Non capisco, dopotutto hai espresso liberamente la tua creatività in cinque album. Hai fatto tutto il possibile per non avere successo. Ci sei riuscito, quindi sii felice, no? Allora perché “Empty Hands”, l’ultimo lavoro sembra uno sprezzante addio? “Il dito medio verso tutto e tutti, compresi se stessi”, come hai scritto tu?
Sto ancora cercando di capire cosa sia successo con Empty Hands. Mi sembra un suicidio commerciale intenzionale. Sono assolutamente favorevole alle band che si evolvono da un album all’altro, anche drasticamente in alcuni casi, ma i MO4 di “Empty Hands” sembravano divorziare completamente dal loro arco creativo, al punto di suonare come una band diversa. Anche sotto il nome di un’altra band, non mi sarebbe piaciuto gran parte di quell’album. E non c’è proprio continuità con i lavori precedenti. Non avendo mai parlato con nessuno dei membri a proposito di quell’album, posso a malapena azzardare un’ipotesi su cosa stessero pensando mentre lo realizzavano. Terrò sempre la copia del mio CD e lo riascolterò in rare occasioni, a piccole dosi, perché è affascinante in termini di posizione rispetto al resto della loro produzione, ma certamente non è stato il trionfo epico che mi aspettavo dopo “Half Way Down”. Un modo davvero strano di concludere una carriera: un pasticcio stilistico confuso che non piacque a nessuno, da parte di una band che era già ai margini dell’accettazione.
Pensi anche tu che ci sia così poco online sui Mind Over Four? Non credi che gli ex membri della band potrebbero gestire meglio la loro eredità?
Già, probabilmente potrebbero attizzare un po’ il fuoco se lo volessero. Ma non criticherei mai nessuno per il basso profilo online. Probabilmente vivono vite reali, in tempo reale, nel mondo reale, e se non possono prendersi la briga di ricordare alla gente la loro eredità, quella è una pur sempre una scelta e va rispettata. Scommetto che sono molto orgogliosi di quello che hanno fatto, ma quello che hanno fatto è successo molto tempo fa. Andiamo tutti avanti.
Cosa ne pensi dei loro testi? Secondo te, che diavolo è un orgasmo nero?
Mi sono sempre piaciuti molto i loro testi. Erano davvero creativi con tanta licenza poetica, molte idee surreali o impressionistiche. Testi aperti che si adattano bene alla musica, in quanto erano misteriosi come la musica stessa, senza mai essere troppo diretti o espliciti, ma non così astratti da sembrare senza senso. Aperti all’interpretazione, in sostanza. Adoro in particolare le liriche di “The Other With the Other / The Letter”, “The Mile Between the Molecule”, “12 Days of Wind” e “Jack the Throne”. E molti altri, ovviamente. Per quanto riguarda “The Black Orgasm”, mi ha sempre fatto venire in mente la frase francese “la petite mort”, che significa “la piccola morte”, e ciò si riferisce appunto a un orgasmo. Gli orgasmi vengono paragonati a piccole morti. Lo adoro e preferisco pensare che “The Black Orgasm” sia l’adozione di quell’eufemismo da parte dei MO4. Ma poi la lettura del testo non fa altro che offuscare il loro intento con il titolo della canzone: “I bambini cantano melodie elettriche spezzate / Voci da un sistema di frenesia” e altri versi nella canzone non ci danno molte informazioni, giusto?
No, ma è proprio questo che mi appassiona così tanto di un buon testo musicato o di una poesia. Grazie Jeff, ci sentiamo presto!
CAPITOLO 5 – LO SPIRITO CHE SOFFIA
Sebbene Jeff Wagner, abbia trovato un legame metallico anche in Out Here, definendo il brano Pity come una prefigurazione delle evoluzioni garage rock dei Voivod di Angel Rat e riconoscendo in brani come She Beams The Light delle similarità con i Mekong Delta, trovo che fino a quel disco, la formula dei MO4 guardi ancora al post-punk, l’art-rock e allo psych rock anni 70.
L’indurimento che poi ha portato il gruppo momentaneamente nella riserva metallara, comincia con l’omonimo del 1989. Lì c’è un suono più pesante, ma è soprattutto sul terzo album The Goddess che i Mind Over Four concretizzano la versione acida e visionaria del power-metal americano di fine anni 80.
In effetti sembra di ascoltare i primi Crimson Glory trapiantati in una comune hippie devoti al reverendo Jones. Prendete il brano che da’ il titolo al disco e ditemi se non vi fa pensare a un bolero sanguinoso ai piedi della divina Grace Slick. L’influenza dei Jefferson Airplane per me è evidente in quasi tutti i lavori del gruppo; persino in Half Way Down, dove rispondono ai Pantera di Cowboys From Hell (Charged), ma in altri momenti (Faith) sembrano gettare una fune dalle metropoli cyberpunk alle selve fangose di Woodstock. C’è sempre, in ogni disco del gruppo, uno spirito che soffia, evocato principalmente da Xavier e gestito dalla sua possente voce sacrificale.
L’ugola ieratica di Spike è l’ingrediente più interessante. Imprevedibile, a sentirla certi momenti pare non che non riesca a gestirne uno stile chiaro e preciso e che provi egli stesso una specie di sgomento a sentirsela uscir fuori. C’è un sotterraneo timore-tremore, è la cosa più viva e irrequieta che emerga dall’ascolto di The Goddess.
L’ultimo disco, Empty Hands, per me è il saluto pacifico e sardonico di chi ha avuto un enorme lusso: realizzare ciò che voleva e fregarsene di tutto. Secondo me non è un’evoluzione ma un lancio di dadi. Se oggi la band tornasse, probabilmente non ci starebbe a diventare quello che il pubblico si aspetterebbe. Farebbero un altro disco capace di esaltare chi non esiga nulla da loro e farebbero infuriare chi, amando le cose passate, pretenderebbe un lavoro simile ad Half Way Down.
Così come i primi anni 90 si sono rivelati il tempo sbagliato per i Mind Over Four, lo sarebbe di sicuro anche questo periodo qui, fatto di un rock-metal che riesce a vendere se stesso soltanto puntando sulle celebrazioni in stile Circo di Buffalo Bill; uno spettacolo itinerante basato sulle prodezze del passato, rese ormai epiche a colpi di segatura negli occhi della gente.
Dispiace però che la band non sembri interessata a gestire l’eredità della propria discografia. Non c’è nessuno, a parte qualche fan sparso nel vuoto, che recuperi e gestisca i cinque dischi dei Mind Over Four, oltre alle foto e la sfilza di video live che circolano in rete. Quegli album sono grandi, non ho dubbi a riguardo. Ma ora diamo la parola a loro.
Signori, Spike Xavier, Mike Jensen, Mark Fullerton e Ritchie Castillo.
CAPITOLO 6 – INTERVISTA ALLA BAND
#1 La band ha realizzato cinque dischi e non ha mai avuto la stessa etichetta. Mi dite una buona volta come mai?
Mark: Suppongo che fossimo sempre alla ricerca di un accordo migliore. Uno dei nostri obiettivi era di arrivare a un contratto importante con una label.
Mike: Il primo disco che abbiamo pubblicato si chiamava Desperate Expression. È uscito per la nostra etichetta nel 1984. Dopo quello abbiamo pubblicato un paio di demo in cassetta. Il nostro album successivo fu Out Here nel 1987. Noi intendevamo anche quello come un demo, ma la Triple X Records volle pubblicarlo così com’era. Dopo ci spostammo con altre etichette. Sai, a volte era perché si presentava una nuova possibilità interessante e altre volte perché l’etichetta precedente non voleva più pubblicare altri dischi con noi.
Spike: Non siamo mai stati riconfermati dalle etichette perché le vendite non erano mai davvero buone, nella maggior parte dei casi.
#2 Dopo aver realizzato Half Way Down sembra che abbiate rinunciato. Empty Hands per molti dei vostri ammiratori suona come una resa, vero?
Spike: La cosa dei Mind Over Four è iniziata nel 1982. Half Way Down uscì undici anni dopo. Avevamo fatto un bel po’ di tour e non stavamo progredendo oltre. Finanziariamente essere un membro dei Mind Over Four non era più sostenibile, quindi si è trattato di provare a fare qualcos’altro nella vita. Empty Hands è nato circa un anno dopo la nostra decisione di fermarci ed è stata una divertente esperienza in studio, tutto qui. Fortunatamente i Mind Over Four non si sono mai veramente preoccupati di cosa pensassero gli altri al di fuori della band, riguardo la bontà o meno del nostro materiale. Ci siamo semplicemente goduti il processo di scrittura e di registrazione senza pressioni. Sai, andare in tour era divertente ma faticoso sotto molti aspetti.
Richie: Per la verità non ci siamo mai arresi, davvero. Sembrava più che l’industria discografica lo avesse fatto al posto nostro, rinunciando a noi. Se vuoi rinunciammo tutti insieme, ma questa è solo la mia opinione.
Mike: Io non direi “Ci siamo arresi”, piuttosto eravamo arrivati alla fine di quella strada, nel senso che sentivamo di averla percorsa finché avevamo potuto. Erano anni che registravamo dischi e andavamo in tour. Alcuni di noi volevano fare altre cose. Spike suonava il basso con la band di suo fratello, i Doggy Style, e suonò anche con i Mind Funk. Io dopo i Mind Over Four, ho fatto l’audizione per una band chiamata Goldfinger. (Non ho sono mai finito con loro.) Fui accettato e mi fu offerto di unirmi come secondo chitarrista, ma allo stesso tempo una band chiamata KMFDM mi offrì un posto per un tour e lo accettai. Quando registrammo Empty Hands ero tra un tour e l’altro con i KMFDM e Spike stava lavorando con i Mind Funk. Non volevo mandare a quel paese nessuno ma ero convinto che non ci fosse più un pubblico interessato ai Mind Over Four, quindi non avevamo niente da perdere. Per cui Empty Hands fu un po’ un lavoro più casual. Ricordo che Spike disse “Voglio suonare la chitarra” e io ero tipo “Fantastico, io voglio cantare”. Abbiamo messo lo stesso impegno nello scrivere canzoni ma allo stesso tempo sentivamo di poter sperimentare suoni e stili diversi perché, come ho detto, sembrava che nessuno comunque ci stesse ascoltando comunque.
Mark: A dire il vero, ho sempre pensato che Empty Hands fosse più un progetto di Jensen Xavier che un disco degli MO4. Mike e Spike avevano creato dei pezzi molto più diretti e minimali e a me è stato solo chiesto di suonarci in modo non troppo complicato, senza grandi riempimenti o giocando sui tempo dispari. Richie non era su quel disco quindi secondo me mancava una parte importante dell’elemento MO4 (Mike e Spike suonarono entrambi le parti di basso).
#3 Domanda per Ritchie Castillo. Il tuo arrivo nella band coincide con un indurimento della suono e una progressiva crescita verso il metal, è un caso che sia successo con il tuo arrivo nel gruppo?
Richie: Sai, era più come se la gente avesse deciso che noi eravamo metal. Altri pensavano che fossimo punk. Avevamo davvero molte sfaccettature nella nostra musica che si adattavano agli stili punk, rock classico e thrash metal. La nostra musica aveva di tutto. Era un grande “melting pot” di quasi tutti i generi.
Mike: Io ricordo solo che Spike e Mark erano andati a un concerto degli Iron Maiden e ne erano diventati ossessionati. Avevo iniziato con i MOF lasciandomi alle spalle le mie radici rock e adottando una “ideologia punk” (meno strutturata, più individualizzata) a causa dell’esposizione alla scena punk da parte di Spike e del co-fondatore Jeff Keogle, ma sentivo anche quel punk era semplicemente rock con un taglio di capelli diverso. Dopo Out Here, quella era la nostra direzione, un suono più pesante ma con la nostra mentalità “senza regole”.
Spike: Tutto il materiale su cui Rich ha lavorato con noi era già scritto, quindi il suono era progredito prima che Rich si unisse al progetto, infatti penso che a Rich piacessero davvero i demo che gli avevamo fatto sentire, demo che sarebbero diventati il nostro album omonimo e The Goddess.
#4 Ascoltando di nuovo i vostri dischi, io avverto sia l’urgenza creativa che la fretta dovuta al poco tempo che avevate a disposizione per inciderli in studio senza sforare i budget limitati. Nel complesso ho l’impressione che il più penalizzato in questo senso sia stato Xavier. Le sue performance vocali non sono sempre perfette. Volevate che fosse così il suo canto o è dovuto a questa e in genere alle condizioni non ottimali?
Spike: Abbiamo fatto il meglio che potevamo date le circostanze, e avevamo davvero tempo e budget molto limitati. Non sono sicuro che sarebbe stato migliore dal punto di vista vocale se avessi avuto più ore per incidere; tendo a cercare di catturare le sensazioni nel minor numero di take possibile.
Mark: Non abbiamo mai avuto il lusso di prolungare il tempo in studio.
Richie: Matt Hyde, il nostro produttore di Half Way Down, una volta descrisse la voce di Spike come “Flirtare con l’andare troppo forte o andare troppo piatto”, lui flirta con essa e la tiene lì, è semplicemente qualcosa con cui devi imparare a convivere. Per quanto riguarda ciò che Spike stava facendo, oltre ai suoi testi che erano fantastici, io pensavo che la sua voce fosse stupenda. O lo capivi oppure no.
Mike: Abbiamo sempre avuto un budget molto limitato e una scadenza ravvicinata a causa della data di uscita o del tour imminente. Abbiamo sempre pensato che queste registrazioni non catturassero il nostro suono dal vivo e penso che sia vero. Provavamo 6 giorni a settimana in preparazione degli spettacoli e le registrazioni ed eravamo molto serrati, ma di solito avevamo un giorno o due per registrare e mixare i nostri dischi. Ricordo di aver registrato le chitarre e di aver fatto una o due take per le sovraincisioni e poi era tutto, dovevamo andare avanti, avevamo un intero disco da finire in poche ore. Stavamo anche imparando mentre andavamo avanti. Facemmo del nostro meglio, ma molto dipendeva dallo studio, dall’ingegnere, dal mixaggio e dal mastering. Ero (e sono) molto orgoglioso di ciò che abbiamo ottenuto con questi mezzi limitati ma, come ho detto, non corrispondeva all’energia delle nostre esibizioni dal vivo.
#5 Avete avuto l’idea di fondere insieme quattro menti diverse e avete intrapreso quattro diversi percorsi verso una creatività condivisa. Ci sono state molte discussioni quando componevate?
Spike: Bella domanda. Quando abbiamo fondato la band, 40 anni fa, la musica era molto settorializzata. Significava che era metal o punk e quei due stili non andavano d’accordo. Mike e io abbiamo lavorato insieme in un fast food e siamo diventati amici. Io ero un punk rocker e a Mike piacevano il rock/heavy metal e il jazz. Anche il nostro bassista Jeff Koegel era un punk rocker, quindi abbiamo deciso di creare qualcosa di nuovo e fondere gli stili in modo originale. Dato che avevamo tutti background diversi, abbiamo inventato il nome Mind / 4, una frazione con 4 individui divisi in una mente uguale a una banda. Quando abbiamo scritto (soprattutto eravamo io e Mike a creare) è andato tutto liscio, non ricordo di aver mai litigato con gli altri. Discutevamo di arrangiamenti e parti così ma è stato un processo molto collaborativo. Quando condividevamo il nostro materiale con la band, Mark era sempre molto aperto anche nel suo approccio con la batteria.
Mike: Non mancavano mai le canzoni o le idee. Spike ed io, dopo una breve pausa da un tour, entravamo in modalità scrittura, preparandoci per la successiva registrazione in anticipo anticipata. Ci incontravamo e presentavamo le nostre idee l’uno all’altro, poi iniziava il processo di completamento delle canzoni.
Generalmente molti dettagli venivano elaborati durante le prove, con tutti presenti. Il problema più grande era che avevamo così tante idee che a volte era difficile scegliere quale canzone fare.
A volte avevamo idee diverse su come organizzare il brano o su quali parti inserire, ma in quel caso votavamo e la maggioranza vincenva. Quella era la direzione. Ma penso che nel complesso fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.
#6 Spike, puoi dirmi a cosa si riferisce la canzone The Black Orgasm?
Spike: The Black Orgasm parla della morte. Fare i conti con la mortalità e come ogni momento è importante. L’idea è che negli ultimi momenti puoi sentirti come se non avessi potuto o voluto realizzare il tuo destino, come avendo sprecato la tua opportunità di farlo.
#7 Xavier, una volta in un’intervista hai citato il libro del pellerossa John Fire Lame Deer, Seeker Of Visions. La filosofia dei nativi ha influenzato i tuoi testi molto?
Spike: Lame Deer Seeker of Visions è sicuramente un grande libro. Ho letto molti libri e di certo tutti mi influenzavano in qualche modo, ma non direi nello specifico che uno sia stato più influente di un altro.
Mike: Spike mi ha fatto conoscere quel libro, che ho letto e a cui faccio riferimento ancora oggi, ma Spike aveva un legame personale con la “filosofia dei nativi americani” e ne faceva riferimento in alcuni dei suoi testi. Ho scritto anche io diversi testi per la band, ma li ho sempre basati sulle mie esperienze e influenze.
Vero, a tale proposito su Half Way Down ci sono alcuni inserimenti sonori che sembrano arrivare dai rituali dei Lakota. Su Faith c’è una specie di canto corale che sembra un estratto della Danza del sole mentre su Conscience Of A Nation sembra di ritrovarsi nel cuore di una tenda sudatoria.
#8 Che rapporto c’era con il pubblico? Sentivate supporto o poca comprensione?
Mike: I fan del metal pensavano che fossimo troppo strani e i “Punk Rockers” pensavano che fossimo troppo metal, ma quando ci esibivamo dal vivo ogni faccia nella stanza era paralizzata da noi. Penso che Spike fosse un front man molto carismatico e la band era affiatata e piena di energia. Avevamo provato a lungo le canzoni ed eravamo concentrati nel dare una grande prestazione. Le etichette non sapevano cosa farci con noi. Penso che fossimo un ibrido prima che la cosa diventasse popolare. Avevamo dei fan e ancora oggi c’è una minoranza di persone che ci stimano molto. Abbiamo suonato con band diverse come The Vandals, Jane’s Addiction, The Fall e Pantera. Siamo stati inclusi in un libro di Jeff Wagner intitolato Mean Deviation che citava i contributi dati da Mind Over Four alla scena del rock progressivo e siamo stati presenti in un podcast chiamato Radical Research che ha dedicato una puntata alla storia dei Mind Over Four. Ma nel complesso siamo raramente menzionati nella storia della musica, e quando faccio riferimento a Mind Over Four la maggior parte delle persone non ha la minima idea di cosa stia parlando.
Spike: In un certo senso era un rapporto molto personale, intimo, perché avevamo così pochi fan che quando ci presentavamo sotto al palco di solito potevamo parlare con ognuno di loro, soprattutto mentre vendevamo il nostro merchandise. Mi è sembrato di grande aiuto quello scambio con le persone. Non credo che fossimo preoccupati di essere capiti, stavamo provando qualcosa di diverso che ci piaceva, il successo commerciale era un concetto estraneo per noi quindi non ce ne siamo preoccupati fino al punto in cui sembrava non avere senso continuare ancora a fare tour.
#9 L’inizio degli anni ’90 ha visto la nascita di molte band ibride. Sembrava il trend vincente ma col tempo abbiamo scoperto che pochissimi gruppi riuscivano a guadagnare abbastanza per vivere di musica. Molte validissime realtà come voi o i Mind Funk si sono dovute arrendere a mercato che non credeva in loro. Cosa ricordate di tutto questo?
Richie: I primi anni ’90 hanno visto uscire il grunge, i Nirvana, i Soundgarden, gli Alice in Chains. I Nirvana presero d’assalto l’industria discografica e persone di grande talento come i Mind Over Four e altre band, non ottennero il riconoscimento perché ciò che vendeva all’epoca era “quel” suono e i Nirvana. Non c’era nulla da fare, per questo siamo passati rapidamente in secondo piano e sì, è stato molto doloroso.
Mike: Era frustrante quando le persone non riuscivano a capire da dove venivamo. Sapevamo che la vita sarebbe stata più semplice se fossimo riusciti a inserirci in un genere consolidato, ma non è stato così e ci siamo rifiutati di compromettere i nostri ideali. Non siamo mai stati motivati dal fare soldi e non abbiamo mai rinunciato a creare arte. Penso che tu debba essere fedele a te stesso come artista. Non puoi (e non dovresti) cercare di accontentare un certo pubblico. Penso che tu debba scrivere ciò che senti ed essere sincero con la tua stessa natura.
#10 Come ve la passate ragazzi, oggi? È vero che tu Xavier sei diventato consulente informatico e fai video tutorial su You Tube?
Spike: Ho intrapreso una carriera nell’IT dopo aver avviato una società Internet con alcuni amici che vendeva il merchandise della band ai fan. Nel corso degli anni ho scritto diversi corsi di informatica e ne ho registrati alcuni per diverse aziende, tuttavia non ho pubblicato personalmente alcun video di formazione su You Tube.
Mike: Posso parlare solo per me stesso, ma ho continuato a dedicarmi alla musica. Ancora oggi sento che la musica è il motivo per cui sono vivo e sono fortunato di poterlo fare, continuare ad andare avanti e ad avere ispirazione e idee, ed essere in grado di scrivere e registrare musica originale.
Mark: Ho lavorato nell’industria cinematografica a Los Angeles per 15 anni, poi mi sono trasferito nello Utah. Continuo a suonare con alcuni gruppi locali.
Richie: Ho pubblicato un album mp3 su CDBABY.COM chiamato THIS WAY, è disponibile online.
#11 Come ricordate di aver vissuto il periodo subito dopo la fine dei Mind Over Four?
Mike: Era triste pensare che la mia ragione di esistere in quel momento e la mia dedizione all’avventura conosciuta come Mind Over Four stessero finendo, ma la band poteva andare avanti solo con tutti i suoi membri, quindi quando il primo membro se ne andò per perseguire la propria passione, sapevo che doveva finire. Ho continuato ad andare in tournée con altre band per diversi anni, scrivendo musica e cercando di trovare me stesso artisticamente e di sviluppare la mia firma come artista discografico. 10 anni fa ho iniziato a pubblicare musica da solista, sotto il nome di Micheal Fordays.
# 12 Domanda inevitabile. Avete mai pensato a una reunion?
Mike: Stavamo pensando di fare qualcosa del genere. Avremmo voluto ri-registrare le canzoni migliori e pubblicare un album su cui avremmo avuto il controllo (e forse fare di nuovo qualche concerto insieme) ma non tutti i membri sono stati interessati a provare in quella direzione, quindi, ancora una volta, senza la partecipazione di tutti la cosa è stata messa da parte.
Mark: Diversi anni fa è stata presa in considerazione una riunione, ma non è mai stata realizzata
a causa dei rispettivi impegni e per la distanza, ormai viviamo tutti in stati diversi. Personalmente mi piacerebbe fare qualche concerto insieme agli altri.
Spike: Ne abbiamo discusso. Ho pensato che sarebbe stato divertente registrare di nuovo il nostro materiale così da poterlo pubblicare e poter raccogliere un po’ di royalties che ne fossero derivate, per i nostri figli e nipoti.
#13 Non siete presenti su Spotify, i vostri dischi sono in streaming su YouTube, per fortuna e ancora disponibiliti su eBay. Pensate che esista oggi un pubblico in grado di comprendervi?
Mike: Mi piacerebbe presentare la nostra musica ad un pubblico più vasto, ma i vari problemi di proprietà da parte di tutte le etichette complicano davvero le cose. Ecco perché ri-registrare le nostre canzoni e pubblicarle era così attraente per me. Credo che ci sia un pubblico che apprezzerebbe il nostro stile e il nostro approccio nel fare musica. (Il posto migliore per acquistare i vecchi dischi di Mind Over Four è www.discogs.com)
Richie: Il mio disco solista, Richie Castillo This Way è su Spotify, e sì, penso che oggi ci sia un mercato per la nostra musica. Penso che sia giunto il momento!
#14 Trovo la vostra musica davvero originale. Ho ascoltato metal e progressive per 30 anni e non mi sono mai imbattuto in qualcosa come Gemini o The Goddess. All’inizio ho faticato un po’ ma ora vi amo. Pensate davvero che il pubblico di oggi sia capace di sforzarsi a questo modo per raggiungervi?
Richie: Sì, eravamo molto originali e non c’era altra musica come la nostra e ci vuole un po’ di tempo per abituarsi a capire cosa si sta ascoltando, ma penso che oggi la gente potrebbe divertirsi molto con noi.
Spike: Grazie comunque, ma come ho detto prima, è praticamente un gusto acquisito. Non riascolto spesso le nostre cose, ma quando lo faccio, mi riporta indietro ricordi di scrittura, prove e registrazione, che era la mia parte preferita del tutto.
Mike: Penso che la nostra musica fosse e sia completamente originale. So che non stavamo cercando di assomigliare a qualcuno. Abbiamo sempre resistito internamente a regole e formati. Abbiamo sempre cercato di espandere e migliorare le nostre idee sull’arte, attraverso l’applicazione e l’espressione della musica. Avevamo qualcosa da dire e volevamo dirlo in modo originale. Penso che ci sia un pubblico per questo. Penso che in generale, e sto citando qualcuno qui, “la musica rock sia la nuova musica di culto, come lo era una volta la musica jazz”, e in questa mentalità l’arte dei Mind Over Four si adatta perfettamente.
Mark: Grazie mille per il complimento. Lo trovo il massimo. La musica gratificante è il tipo che all’inizio potresti non comprendere appieno. Va ascoltata. Personalmente mi piace la musica che mi mette alla prova come ascoltatore e credo davvero che i MO4 fossero una di quelle band che richiedevano diversi ascolti per entrarci dentro completamente.
#15 Quale produttore vi ha aiutato di più a crescere come band e come professionisti?
Mark: Matt Hyde.
Richie: Eric Garten e Matt Hyde. Matt era il produttore dei Porno for Pyros.
Spike: Matt Hyde.
Mike: Penso che uno dei migliori album, per quanto riguarda la produzione, sia stato Half Way Down del 1993 e questo è dovuto alla produzione di Matt Hyde. Generalmente con i Mind Over Four è stata tutta una grande esperienza di apprendimento. Abbiamo dovuto imparare man mano che andavamo avanti, per lo più arrangiandoci da soli. Siamo cresciuti insieme, per necessità.
#16 Musicalmente eravate molto bravi ma questo non è mai stato il fulcro centrale della vostra musica, credo. Si sentiva che tecnicamente potevate fare di tutto ma non ci sono momenti in cui la band smetteva di concentrarsi sulle canzoni per mostrare i muscoli, se capite cosa intendo. Per la verità, e la cosa mi piace, pur essendo tendenti al progressive, inteso come ricerca di se stessi e di evoluzione, non c’è quasi nulla che vi apparenti al classico repertorio prog dei Genesis, Yes, o King Crimson.
Mike: Non ricordo che qualcuno di noi ascoltasse “musica progressive”. Avevamo tutti le nostre influenze individuali, ma non ricordo che il prog fosse una di queste. Le nostre influenze principali erano il punk, il jazz e l’heavy rock.
Mark: Non abbiamo mai deciso di essere una band prog e certamente non una band prog-metal. In effetti, non penso nemmeno che a Spike piaccia la musica proggy. Abbiamo coniato un termine per la nostra musica come Experi-Metal. Penso che questo lo descriva abbastanza bene.
Richie: Ci è stato detto più e più volte. Non sono mai riusciti a capirlo in quale categoria musicale rientravamo… finirono per chiamarla alternative.
Spike: Mike è ed è sempre stato un musicista incredibile. Io non lo ero. Le parti che ho scritto le ho sentite nella mia testa e le abbiamo trasformate in canzoni, penso che ci sia una certa crudezza in questo. Non mi piaceva affatto la musica progressive o metal, ma ora che sono più grande riesco a capirla un po’ di più. In genere oggi ascolto i vecchi dischi dei Black Flag e 7 pollici punk rock, lol.
# 17 Molti menzionano un altro gruppo non molto noto quando vi paragonano alle altre band, i Die Kreuzen. Era un’influenza consapevole? So che Spike li amava, ma gli altri cosa ne pensavano di loro?
Spike: Sì, a me piacevano i Die Kreuzen, ma non ricordo se c’era qualcun altro che li apprezzasse, nel gruppo.
Mark: Non li conoscevo molto e sicuramente non ne sono stato influenzato.
Mike: Li abbiamo visti una volta dal vivo, ma eravamo già immersi nel nostro sound e non cerco mai di somigliare a qualcuno. Eravamo immersi fino al collo nelle nostre vibrazioni.
#18 La storia di Mind Over Four sembra un gigantesco, estenuante, interminabile apprendistato, fatto di sonni scomodi per terra, tour difficili. Eravate stanchi di questi disagi? La vita in tour era così dura e ingrata che ha contribuito a spingervi a mollare tutto?
Mike: Dormivamo spesso in un furgone, dormivamo accovacciati, sul pavimento, in motel economici ecc. Lunghi viaggi, caricare, scaricare la nostra attrezzatura, vendere le magliette, correre a fare il soundcheck nel prossimo stato o paese, mangiare qualunque cosa potessimo permetterci di pagare. Ma eravamo ispirati da un obiettivo comune e ci sentivamo fortunati di poter fare il prossimo tour, registrare il prossimo disco e in generale continuare la ricerca della nostra musica. Ricordo un tour che abbiamo fatto, aprendo per una band chiamata Paw. C’era poca partecipazione e Spike mi ha confessato che si sentiva come un “Boxer che aveva superato il suo apice”. Penso che sia stato uno degli ultimi tour che abbiamo fatto. Alcuni membri stavano perdendo entusiasmo ed era difficile andare avanti. Non abbiamo mai guadagnato soldi e oltre a dedicare tutte le nostre risorse ed energie ai tour e alle registrazioni, spesso pagavamo le cose di tasca nostra, tasche che all’inizio erano sempre vuote.
Mark: La mia più grande frustrazione con i MO4 è stata di non riuscire a partecipare ai grandi tour e
festival, anche se abbiamo suonato con molte band leggendarie e siamo stati in giro con Prong e Pantera. Inoltre, le nostre vendite e i nostri ricavi dai dischi non tenevano il passo con il costo della vita. Penso che questo sia ciò che alla fine ci ha spinto a chiuderla lì. Gli altri ragazzi però potrebbero avere un’opinione diversa.
#19 Riconoscete la vostra eredità in qualche nuovo gruppo?
Spike: No, credo che nessun nuovo gruppo ascolti i Mind Over Four.
Mike: Alcune persone mi hanno detto che “questa band o quella band erano influenzate dai Mind Over Four”, ma queste non l’hanno mai dichiarato pubblicamente quindi è difficile dirlo. Sento la responsabilità di andare avanti con la nostra eredità nella mia musica e ho portato avanti alcuni degli ideali e dei principi delle mie esperienze con la band.
#20 Ritchie, dopo Mind Over Four, un musicista eccezionale non ricevesti offerte da altri gruppi?
Richie: Mi è stato offerto un lavoro come bassista degli Alice in Chains, ma le cose non hanno mai funzionato davvero. Probabilmente è meglio così perché almeno sono ancora vivo.
#21 Che mi dite di Phil Anselmo e della maglietta MO4 che indossava sulla foto nel libretto di Vulgar Display Of Power?
Spike: Avevamo fatto un tour con loro ed eravamo diventati amici e Phil poi indossò una delle magliette che gli avevamo regalato. È stato davvero carino da parte sua farlo, in realtà.
Mike: Sì, dopo che abbiamo aperto per i Pantera nel loro tour di Cowboys From Hell, Phil ha indossato la nostra maglietta per una foto che è apparsa sul retro dell’album Vulgar Display Of Power. Sentivo che non solo avevamo avuto l’opportunità di suonare davanti al vasto pubblico venuto a vedere i Pantera, ma che avevamo stretto un legame e stretto amicizia con i membri della band. Ho visto Phil una volta mentre ero in tournée con i KMFDM diversi anni dopo, al famoso Phoenix Hotel di San Francisco mentre camminavo attraverso il cortile. Io andavo in camera mia e mi ha salutato con un abbraccio e un amichevole “Come stai?”, ed è stato caloroso e accogliente. Ma uno dei miei momenti più imbarazzanti è arrivato dopo la morte di Dimebag Darrell. All’epoca lavoravo in un negozio Mega Music a Hollywood e il negozio stava facendo un tributo a Dimebag. Erano presenti molte celebrità, incluso il bassista dei Pantera Rex Brown. Avevo fatto notare ad alcuni dipendenti che la mia band era stata in tour con i Pantera e che Phil aveva indossato la nostra maglietta sull’album. Uno di quei dipendenti conoscevano Rex e dissero “Ehi, Rex è nella stanza sul retro, torna indietro e salutalo visto che lo conosci”. Sono tornato e mi sono ripresentato, ho spiegato brevemente la nostra connessione e ho allungato la mano per stringergli la mano. Rex rispose: “Non ho mai sentito parlare di te e non ho mai sentito parlare della tua band”. Inutile dire che è stata un’esperienza umiliante.
#21 Peccato chiudere con una storia così squallida. Rex ci fa proprio una figuraccia. Vi ringrazio tanto ragazzi, sono felice che vi siate prestati per questa intervista su Sdangher.com
Mark: Grazie a te per l’interesse per i Mind Over Four. È sempre bello sentire che qualcuno si ricorda di noi.
Se volete leggere la versione originale (e integrale) dell’intervista, cliccate qui.
Ringrazio Jeff Wagner e George Ketigenis per la loro disponibilità a condividere idee e materiali.