Non credo abbia senso lamentarsi per i Maneskin. Sono rock, sono pop, sono merda? Se ne può parlare, ma chi pensa che attaccarli e screditarli aiuti la vera causa del rock e metta in crisi il sistema economico che ha sempre creato fenomeni come questo, non mi trova d’accordo.
Non si può deprecare i Maneskin e tenere l’apparato riproduttivo da cui è fuoriuscito l’intero rock, sperando che le critiche e il biasimo argomentato possano lenirne gli effetti più spudorati ed esuberanti. O si butta a mare tutto l’impianto o lo si accetta e lo si tollera quando spudoratamente sborra “big thing” sulle nostre scarpe di puristi.
Io auspicherei un reset completo, ma temo che questo causerebbe anche la fine del rock, definito morto e rimorto da decenni, salvo poi salutarne l’ennesimo Lazzaro appena Greta Van Fleet o i Maneskin si affacciano sulle classifiche che contano.
Ma quali classifiche oggi contano davvero? Quelle dello streaming? Ok, ma il rock non fa ancora parte di quella dimensione. Il rock sarebbe stato già liberato dall’onore del fare tendenza, del raggiungimento del successo planetario. Non esiste più una band giovane che sogni di essere i nuovi Metallica, poiché hanno capito pure i sassi che molti di noi hanno al posto del cervello, che non esiste più il mondo intorno che ha congiurato per crearli.
Oggi il rock è morto, come Mattia Pascal e in quanto tale, può ripartire con una nuova identità, fregandosene di tutta la gran sbatta di folle oceaniche da conquistare, di doppi vinili art-attack, di MTV e di Live Aid.
Trovo sia una buona notizia.
Purtroppo il rock non è come la musica sinfonica. Non si è adattato come genere musicale al cammino tecnologico, passando dalle esibizioni irripetibili all’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Il rock nasce, cresce e matura di pari passo con i vinili. Sopporta il passaggio al formato digitale ingoiando false promesse di alta fedeltà eternata, ma senza polvere e attenzione ai graffi, e dopo il tradimento dell’mp3, sta riconvertendo se stesso al vecchio formato a 33 giri, sperando di fare ancora in tempo a tornare nella propria dimensione.
E purtroppo non ce la fa. Non siamo su ritorno al futuro, qui. Non ancora.
Per fortuna.
Il rock non ce la fa a evolversi in streaming, per lui è peggio che morire. Ha bisogno della materia per continuare a riprodursi. E cosa più triste, ha bisogno del vecchio sistema economico per mantenere uno scopo che lo conduca da qualche parte.
Chiaro che non esisteranno più dei nuovi Kiss, ecco perché i vecchi si concedono la scommessa degli ologrammi, tanto nessuno li rimpiazzerebbe mai.
Chiaro che non ci sarà più una cosa come Woodstock o Altamont, che dir si doglia. Ma il punto è che nonostante sia ormai sganciato dal bisogno di vendersi, il rock continua a pensarsi in album. Non può farne a meno. E una volta prodotto un album, si lagna che nessuno glielo compra.
Le band, anziché provare a ridefinirsi da capo, restano tutte lì al palo, ormai impossibilitate a evolversi (tradirsi) verso le posizioni più alte delle classifiche o combattendo in nome dell’indie-pendenza, le grosse etichette cattive, salvo poi vendere il culo alla migliore offerente, che sarà sempre la Big Dick Records, ovvio.
I gruppetti si mascherano da classici, perché ormai la sola forma di rock che tiene sul mercato è quella vetusta, andata, mitica.
Il rock che scopa sperma gelato sulle ginocchia del proprio stesso mito, direbbe Lester Gang.
Io invece dico che è ora che la pianti di fingersi morto, il rock, e che si alzi e inizi a farsi il culo verso una nuova vita.