È davvero necessario parlare dei Morbus Chron. Sono durati poco, dal 2007 al 2015: un demo, due EP e due album prima di maledire il mondo e sparire dentro una fossa, ma hanno lasciato qualcosa di significativo per chi pensi ancora che la morte (intesa come genere musicale) sia solo l’inizio e non la reiterata stagione finale datata 1991.
Partiamo da capo. Il demo, Splendour Of Desiese, realizzato durante l’estate del 2009 e uscito nel 2010. Mixato in parte da Nicke Andersson e in parte da Fred Estby. Direte, cacchio che lusso, ma il motivo è piuttosto semplice. Il chitarrista Edvin Aftonfalk è il fratellastro del papà di Entombed e Hellacopters.
Raccomandati sì, strada spianata sin dall’inizio, ma i consanguinei d’arte in generale non se la passano troppo bene; il più delle volte vengono sopportati e giudicati in quanto parenti di… e non ne escono mai bene, al di là della loro effettiva capacità di creare qualcosa che sia significativo per gli altri.
Edvin è uno dei due compositori dei Morbus Chron ma delle due menti che hanno edificato il percorso del gruppo è quello che alla fine ha ceduto all’ansia di essersi allontanato troppo dal porto natio, mentre Robert Andersson, il frontman della band, ha saputo seguire con coraggio i flutti della propria fantasia, anche rinunciando a un partner fondamentale come Aftonfalk.
Partendo dal death “vecchia scuola scorreggiona” e trascinandone il pesante e disgustoso cadavere su un terreno mai esplorato prima, i Morbus Chron prima e gli Sweven poi, l’hanno adagiato sotto la luna, affumicandone gli occhi craterici con gli effluvi della marcescenza sonora. Di questi tempi, almeno una decina d’anni, è cosa rara.
Anche i Morbus Chron all’inizio non fanno eccezione al revivalismo becero di questi ultimi lustri(ni). Pure loro decidono di emulare una band storica (gli Autopsy), e non guardare oltre.
I tre brani più intro di Splendour Of Desiese e l’EP successivo, Creepy Creeping Creeps, uscito per Me Saco Un Ojo Records, usano un alfabeto espressivo che dalla A arriva fino alla Y, oscillando tra virus fantasiosi e morbosità sperimentale, necrofilia tetanica e mostri lovecraftiani sotto al letto.
E tutto va bene.
Il mefitico underground, smascellante nostalgia e vecchi tempi, si accorge e plaude alla dedizione della giovane band per le origini cimiteriali del genere, sospingendo di bocca cariata in bocca cariata, l’infezione chronica fino alla firma di un contratto con la Pulverised Records per il disco d’esordio.
Sleepers In The Rift
Il gruppo non disattende le aspettative e raccoglie tutte le suggestioni autoptiche in un vero e brutallico tributo al genio di Chris Reifert.
Tossendo in un..
Tossendo in un..
Tossendo in una..
Tossendo in una bara.. ( Coughing in a Coffin)
Ok, i Morbus Chron a questo punto sono e resteranno fino alla fine: Robert Andersson voce e chitarra, Adam Lindmark alla batteria, Dag Landin al basso ed Edvin Aftofalk ai soli.
Il disco esce nel 2011 e la dichiarazione di lancio della band è la seguente.
“Ehi, non aspettarti riff esplosivi o disumani. Quello che portiamo in tavola non è una novità. Solo il buon vecchio death metal. Ti consigliamo di intossicarti con tutto ciò che hai a disposizione. Eseguire rituali, fumare carote, sacrificare capre. Sai, il genere di cose che miglioreranno l’esperienza con i Morbus Chron!”
Prodotto, registrato, mixato e ingegnerizzato da fratellino Nicke. Sleepers In The Rift ha davvero un contenuto e una copertina coerenti con le visioni infami dei vecchi Autopsy. C’è però già un brano che in realtà esprime qualcosa di più, trasformando il gruppo da tribute album senza pretese di Severed Survival, a spericolato e sofisticato crocchio di visioni oniriche e poetismo esistenziale.
“Avremmo potuto continuare a incidere dischi come il primo, parafrasando gli anni più suggestivi della parabola degli Autopsy, ma non riesco a immaginare una carriera votata a questo. Già durante la realizzazione di Sleepers In The Rift c’è stato un brano che ci ha aperto una porta verso un mondo nuovo e noi l’abbiamo imboccata, ignorando le urla e i suoni allarmanti che provenivano da dentro le fauci di quel buio sentiero” – Robert Andersson
Andersson si riferisce alla terza traccia: Hymns To A Stiff. Parla di un essere celeste che sta viaggiando sulla terra per resuscitare i morti e riportarli al suo luogo di origine. Già il tema è strano, ma oltre a quello c’è una musica che strutturalmente può anche apparire più semplice e diretta rispetto al resto dell’album, però, ammette Rob, “è nata senza pensare a niente di preciso. Non ci siamo chiesti se fosse o meno Autopsy come stile. Non ce ne è fregato nulla. Per il lavoro successivo siamo partiti da lì”
Nel 2012 esce un EP di tre brani: A Saunter Through The Shroud. E lì le novità sono due. Prima cosa i Morbus Chron passano alla Century Media e secondo, nei contenuti di questa nuova prova siamo già molto lontani dalle sborosità necro-maniache di Sleepers…
I testi sono più oscuri e inquietanti, sanno quasi di poesia malaticcia, senza le becere infantilità alla Reifert. Per quanto riguarda la musica è evidente che il gruppo stia allargando a spallate lo scompartimento in cui si era infilato.
Ma nonostante la buona qualità del disco, A Saunter… è snobbato dal pubblico.
“A Saunter Through The Shroud è una roba strana. Quando ogni tanto lo riascolto resto sorpreso e divertito dall’enorme quantità di riff e idee che abbiamo messo in ogni canzone. “Channeling The Numinous” si distingue probabilmente come la più frenetica e instabile delle tre tracce. Volevo dimostrare a me stesso che potevamo stare sulle nostre gambe e non solo copiare e incollare i riff degli Autopsy. Oggi potrei pensare di essere andato un po’ troppo oltre su alcuni arrangiamenti, ma allo stesso tempo, questo è il motivo per cui mi piace ancora. I testi sono cambiati parecchio. Dal naso puntato tra le tombe in cerca di un badile siamo passati a fissare il cielo notturno, desiderando di essere portati via da una forza sconosciuta. Un sacco di domande esistenziali nascono al tempo di quell’EP e deflagrano nel nostro secondo e ultimo album, Sweven” – Robert Andersson
Ed eccoci arrivati al dunque. Se parliamo ancora e con entusiasmo dei Morbus Chron è da qui in poi.
SWEVEN
Due anni di lavorazione. Prodotto, come l’EP che l’ha preceduto, da Fred Estby dei Dismember, Sweven è come un calcio nelle palle alla svilente retorica dell’old school. Giovani band nascono già schiacciate sotto il peso del passato, e della storia da rispettare e onorare ma è attraverso il tradimento dei padri che si può sperare di scoprire se stessi. Per riuscirci occorre molto coraggio perché il rischio è di perdere tutto in un colpo solo, esattamente come è accaduto ai Morbus Chron.
“Allora, diciamo prima di tutto che il titolo “Sweven” non ha nulla a che fare con la Svezia, come sembra pensare la maggior parte delle persone. Si tratta di un termine che ha a che fare con sogni e visioni. La traccia di apertura dell’album “Berceuse” (che tecnicamente è una parola che significa tipo ninna nanna) è stata concepita per invitare al sonno. Questo non significa che sia noiosa o soporifera, tutt’altro. Però descrive la discesa dalla veglia al sogno del personaggio narrante, il quale compie un viaggio astrale tra alberi infuocati e stelle morte, fino ad ascendere al soffitto/pavimento della realtà” – Robert Andresson
Non vi immaginate un lavoro “avanguardesco”, siamo sempre aggrappati alle logore palle del vecchio death metal, ma con il cuore che sale e scende lungo le transenne melodiche di un’epica introspettiva. C’è la ricerca con tutte le incognite del caso. Non siamo solo noi a chiederci dove ci portino i Morbus Chron, se lo domandano anche loro dove cacchio stiano andando, ma senza farne un dramma. Non piagnucolano di essersi persi, affrontano il viaggio con la curiosità infantile e insaziabile dei grandi artisti.
“Sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stato diverso, ma non esattamente in che modo. Sleepers in the Rift è un buon album, ma è stato scritto con regole rigide. Non tutto era “permesso”. Sai, qualunque cosa scrivevamo doveva passare attraverso il filtro degli Autopsy. Con Sweven, l’unica regola era che non ci sarebbero state regole. Avevamo le mani libere. Due mentalità molto diverse che hanno portato a due lavori molto diversi. Nonostante le apparenze voglio ancora citare come influenza di base gli Autopsy. Certo, il sound è cambiato, però le influenze in realtà no. Non è che abbiamo trovato una nuova band da cui traiamo ispirazione. Autopsy e Death sono ancora molto presenti nel nostro mix. Abbiamo solo cercato di piegare quelle influenze a cose più strane che ci venivano in mente” – Robert Andresson
La magia di Sweven è che a sentirlo capisci subito di trovarti in un posto che non sarà lo stesso alla fine dell’ascolto, ma non puoi negarti che sia comunque un album death metal.
“Il motivo per cui il disco suona in quel modo è il risultato di uno sforzo consapevole per cercare un suono moderno che sapesse comunque di vecchia scuola. E nessuna delle persone coinvolte capiva come fare per ottenerlo. Abbiamo registrato su strumenti vecchi, usando tecniche più antiche e, con Fred Estby al timone, le cose sono andate in una certa direzione. Alla fine ho deciso di mixare io l’album e non pensiate che sapessi cosa fare. Forse Fred sì ma io non potrei spiegarlo. Forse il segreto dell’originalità è essere completamente incompetenti per gli standard moderni” – Robert Andersson
I nostri passi divennero silenziosi quando ci fermammo
Intorno a noi le foglie si unirono in un arioso valzer
Fui sospinto da qualcosa e così ondeggiai in avantiE all’improvviso un albero si stagliò su di me, alto
Prima uno, poi tanti, le foglie cominciarono a cadere
E quello che aveva brillato, nascosto
ora bruciava chiaramente (The Perennial Link)
Sweven è un lavoro che richiede tempo e ascolti ripetuti, cosa già abbastanza inusuale in questi ultimi anni. Si passa da un album all’altro mormorando qualche parola incomprensibile, ma molti dei dischi che escono ci ripetono cose che abbiamo assimilato da parecchio e non necessitiamo di tempo per capire.
“Ah, ok, un po’ di Voivod, di Mercyful Fate e di Watchtower, più una spruzzatina di Manilla Road, ecco cosa fanno”
Nel caso dei Morbus Chron bisogna fermarsi un momento e attivare il cervello, scardinare il lucchetto al proprio cuore e lasciare piano piano che vi coli dentro il loro freschissimo succo di salamoia.
“È un album diversificato che sicuramente può richiedere svariati ascolti, ma penso che questa sia una buona cosa. Ognuno ha degli album un po’ speciali e molte volte sono anche quelli che hanno chiesto prima di dare all’ascoltatore. Per me personalmente, molti dei miei album preferiti non sono stati per niente amore a prima vista. Ci è voluto un po’ per entrarci dentro. Ho la sensazione che le persone stiano peggiorando. Del resto, se si vuole riportare la gente al vero ascolto devono essere proprio i musicisti a offrire qualcosa di più impegnativo dei soliti quattro riff in croce” – Robert Andersson
Cazzo, ma avete letto bene cosa ha detto? Io adoro questo ragazzo.
DAI MORBUS AGLI SWEVEN
C’è qualcuno che ha paragonato la definitiva svolta di Sweven con il famoso desiderio di Chuck Schuldiner di porre fine ai Death e provandoci ha finito per realizzare un altro disco dei Death, l’ultimo, The Sound Of Perseverance. Non sappiamo cosa sarebbe successo a Chuck, se fosse sopravvissuto al tumore, ma nel caso dei Morbus Chron, Sweven è stata davvero la fine della band, causando una frattura netta tra i due principali compositori: Robert Andersson ed Edvin Aftonfalk.
“I disaccordi non riguardavano l’album in sé. So che anche lui è orgoglioso di Sweven. Il problema riguardava piuttosto dove saremmo andati dopo. Io volevo continuare a esplorare, probabilmente facendo qualcosa che assomigliasse ancor meno alla band che eravamo una volta, mentre lui aveva raggiunto il limite di ciò che potevamo fare e chiamava ancora il gruppo Morbus Chron con l’espressione seria” – Robert Andersson
Robert Andersson ed Edwin Aftonfalk sono stati coinvolti nella reunion degli Entombed di Clandestine del 2013, ma a parte questo le loro strade non si sono più intrecciate. Il secondo fa parte di una revival band speed metal chiamata Tøronto, con un demo e due EP realizzati, mentre Robert è ripartito dall’ultimo disco dei Morbus Chron e da lì ha continuato il viaggio in una direzione ancora più sorprendente e imprevedibile.
Il progetto si chiama proprio Sweven e oltre ad Andersson, comprende altri due elementi: Isak Koskinen Rosemarin, già chitarra live nelle ultime esibizioni dei Chron e poi Jesper Nyrelius alla batteria. Al resto, composizioni, registrazioni, mix, voci, basso e chitarre pensa il solito Andersson.
L’album si intitola The Eternal Resonance, esce nel 2020 per Ván Records ed è tra i lavori più audaci e particolari del metal estremo di questi ultimi anni.
Poteva essere il terzo capitolo del progetto Morbus Chron, ma come dice Robert con un ghigno di cortesia: “non potevamo continuare un percorso così vario ed emotivamente espressivo e chiamarci ancora con il nome di un virus che fa uscire il sangue dal culo”.