Si dice che alcuni quadri creati da un intelligenza artificiale, siano stati inseriti in una gara di pittura e abbiano vinto. Ovviamente la giuria non sapeva che erano state realizzate da una macchina. Bene, ma questo cosa ci dimostrerebbe? Bisognerebbe chiedersi non tanto se l’intelligenza artificiale sia in grado di creare un dipinto, una canzone o un romanzo, e quindi eventualmente gareggiare o addirittura sostituire la creatività umana, un giorno neanche troppo lontano, quanto se la giuria avrebbe comunque premiato quei quadri sapendo che non ci fosse un uomo con la sua storia e le sue pene, dietro di essi.
Credo di no, ma non perché i giurati siano vittime del pregiudizio verso il futuro minaccioso e terribile rappresentato dai prodigiosi avanzamenti dell’A.I. ma per la ragione che, in una qualsiasi gara tra artisti umani, i parametri di giudizio sono esclusivamente basati sull’essere umani, quindi fallibili, doloranti, sfortunati, originali, innovativi, viscerali in confronto non solo alla propria sfera culturale, ma anche al retaggio naturale dell’essere uomini in un mondo che è dolore, amore, morte e bisogno di sublimare ogni sentimento in qualcosa che sì, lo codifichi in una storia o in un’immagine, ma racchiudendo al suo interno un vissuto autentico. In un progetto algoritmico lasciato a combinarsi da solo, tutto questo mancherebbe.
Una gara tra macchine avrebbe altri parametri e probabilmente sarebbe giusto farla giudicare dalle macchine stesse. Lo scenario alla Blade Runner è per il momento fuori discussione. Magari un domani sarà possibile, ma siamo ancora lontani.
L’uomo è imprescindibile dall’opera che si realizza? Secondo me sì. O almeno in questo mondo si ha bisogno di uomini dietro le opere creative. Ma non parlo di una serie netflix su degli spacciatori colombiani in fuga col malloppo o un film sugli Avengers. Io sto pensando a film come Berlinguer Ti voglio bene o La grande abbuffata, Taxi Driver o Solaris. Non parlo de Le nuove avventure di Harry Potter o Me contro te vs il coccodrillo vegano, ma E Johnny prese il fucile e La vita agra.
Questo è fondamentale nella nostra cultura di carne e polvere. Abbiamo bisogno dell’uomo dietro l’opera. Senza l’uomo, l’opera non ci interessa se non come curioso esperimento fantascientifico che muore lì. Prendiamo il caso di JT LeRoy, Ve lo ricordate? Lui aveva scritto dei romanzi ed era diventato famoso grazie a essi, ma non era lui ad averli realizzati. Non era LeRoy la ragazzina che si faceva fotografare con Asia Argento a una festa alcolica in qualche sobborgo losangelino. Lei lo rappresentava. Lo scrittore, la sua storia travagliata, nulla di tutto quello che c’era attorno e nei libri firmati J.T. LeRoy era reale.
Il suo percorso biografico, che nella serie di romanzi aveva sublimato romanzi estremi e realistici, era stato ideato dalla “reale” autrice, una donna, e dall’editore che aveva investito sul fenomeno LeRoy.
E tutto quanto è caduto nel vuoto dopo che un giornalista ha rivelato la truffa. I libri dovrebbero restare in piedi, no? Cosa importa chi li ha scritti, se sono buoni?
Eppure la storia di Leroy è stata rimossa e i suoi romanzi sono ora dimenticati. Li ho trovati in qualche casa e chi li possedeva ha mostrato un certo imbarazzo ad averli ancora sullo scaffale della propria libreria.
Quindi oggi, un romanzo scritto da una macchina, anche se fosse un bel romanzo, probabilmente riuscirebbe a creare delle reazioni interessanti solo se il pubblico non sapesse che dietro c’è una macchina e non una persona vera.
Pensate a Cent’anni di solitudine senza un uomo di come Marquez. Pensate a un posto come la Colombia e un secolo come il Novecento in Sud-America sostituiti da un banco dati che elabora e concepisce la storia di Macondo. Sarebbe la stessa cosa?
Certo, chi sa nulla dell’autore di Cappuccetto Rosso? Eppure la gente pensa ai Grimm che l’hanno raccolta e tramandata per iscritto. In ogni caso è una storia con un fondo di verità ed è stata tramandata da gente vera, davanti al fuoco, le notti in cui il lupo era tanta roba.
Omero non esiste ma il mondo parla di lui immaginando uno o più uomini che nell’antica Grecia vivevano quelle storie, dialogavano con gli dei e gli dei esistevano davvero per loro. Per essi creavano, lottavano e talvolta li sfidavano. Pensate alla tragedia greca senza un mondo di persone convinte che oltre la morte non ci fosse nulla. Come realizzerebbe le proprie storie una macchina progettata su una visione atea della vita e della morte? Questo sarebbe interessante, no?
Con cosa si misura un computer e perché scrive romanzi, per scoprire cosa? Per dirci che cosa? l’uomo ha bisogno di dialogare con gli altri uomini”. Non dico che dal lavoro di un sistema algoritmico sia esclusa qualche rivelazione divina. Tutto può essere, ma la misera vicenda umana, fatta di gente che ama, soffre, abbandona, tradisce, è roba a cui le macchine non dovrebbero mai abbassarsi.
La creatività dell’A.I. potrebbe essere utile per l’iniziale scopo dell’immaginazione: risolvere problemi e permetterci di sopravvivere. Un’A.I. potrebbe ideare una via d’uscita alternativa e geniale al problema del riscaldamento globale e la decrescita coatta e molto infelice.
Ma raccontarvi come Elisa spezzò il mio cuore e quale percorso mi toccò fare per riconquistare la forza di amare, lasciate che sia io a mostrarvelo.
Ieri ho visto una conferenza sull’A.I. e il futuro della creatività umana, in cui una decina di “esperti” facevano dei monologhi di quindici minuti da vari punti di vista: c’era il prete, il manager, il rappresentante di IBM, l’economista, il filosofo, il sociologo, l’avvocato, il semiologo e il garante sugli abusi compiuti usando l’A.I.
Tutti questi signori valutavano aspetti importanti del cambiamento in atto e su come le macchine creative “impatteranno” (quanto va questa parola nei video dove si discute di A.I.) sulla vita lavorativa dei cosiddetti artisti.
Purtroppo non c’era un artista tra i conferenzieri. Questo mi ha permesso di notare quanto tutti gli altri presenti parlassero di creatività in modo assai superficiale, come il frutto di una rielaborazione di dati.
Ci credo che per loro, le macchine sono creative.
Un artista però gli avrebbe potuto spiegare che la creatività non è quella. O meglio, può esserlo come fonte di intrattenimento, ma non si tratta solo di ciò. La creatività è la Cappella Sistina; L’Ulisse; Deserto rosso. Ciò che l’A.I. produce, almeno in termini di creazione narrativa, è combinare intrecci e definire personaggi incastrando una serie di elementi fissi.
Immagino sia tutto dovuto alla serie di dati che sono stati forniti alle macchine per scrivere storie, vale a dire migliaia di manuali di scrittura creativa, realizzati da sceneggiatori celebri, romanzieri di best-seller e così via.
In effetti un corso che ci insegni come si fa un romanzo, riduce tutto a una combinazione di elementi, a schemi, punti A, B, C. Ma la creatività non è solo questo. Solo la pelle esterna o magari la struttura ossea sono costruibili usando sistemi. Il cuore, il buio che aleggia dietro la carcassa è una cosa diversa. E non esistono manuali che le macchine possano ingerire a riguardo, perché Joyce, Proust, Musil, Shakespeare (che non si sa bene chi sia stato ma si sa che è stato un uomo), Dante non ne hanno mai scritti
E i grandi autori non scrivono manuali non perché credono sia giusto tenere segrete certe leggi dietro i loro capolavori, ma perché non hanno la più pallida idea di come siano riusciti a realizzarli. E questo mistero non lo scioglierà nessun algoritmo, temo e in fondo spero.