In un’epoca in cui gli smartphone sono diventati appendici carnali dell’essere umano più del proprio cazzo e i social media i luoghi virtuali dove consumare, occasionalmente, scadenti pasti emozionali, è nata una nuova razza di persone. I Condividisti. Questa specie, abilissima nell’arte dell’autopromozione narcisistica irrisoria, trova il suo habitat naturale nelle sezioni commenti sotto i post altrui, specialmente quelli riguardanti concerti heavy metal e collezioni di dischi vecchi come il concetto di modestia.
Si comincia innocuamente: un umile ma fiero appassionato di musica pesante decide di condividere sulla sua bacheca di Facebook la foto di un disco o il ricordo di un concerto appena vissuto, illuminando la sua giornata con una piccola gioia personale. Ma attenzione, il pericolo incombe. Prima che possa realizzare l’enormità del gesto compiuto, il suo spazio virtuale viene invaso dagli “anche io”, che offuscano l’autore, il quale andrebbe ascoltato e non soffocato.
Con la velocità di un riff di chitarra in un brano speed metal polacco, affiorano commenti del tipo:
“Ah, ce l’ho anche io quel disco! Edizione limitata, numero 7 su 500, autografato da tutti i membri della band, compreso il bassista sostitutivo che ha suonato solo in quell’album perché l’originale si stava riprendendo da un’influenza. Gran pezzo di storia, eh?”.
E così, un post che era iniziato come un semplice momento di condivisione diventa un’asta di rarità musicali dove si vince non portandosi a casa nulla, se non l’ipotetico titolo di “narcisista nevrotico dell’anno”. Senza dimenticare la tragicomica esistenza del fenomeno, ormai consolidato, della “Pinoteca”, “Ginoteca” o “Minchioteca”, dove con cadenza ferrea vengono postati dischi ben allineati e incasellati nella libreria Ikea, zeppa di bei viniloni o file di CD. Il postatore gode e mostra la sua presunta superiorità ad altri esattamente uguali a lui che rilanciano con la loro “Cazzoteca”.
E non mancano mai i commenti inutili all’evento: “Oh, c’ero anch’io a quel concerto! Ero proprio lì, sotto il palco, a sinistra, accanto al ragazzo che ha perso una scarpa nel pogo. Sì, ho anche preso il plettro lanciato dal chitarrista. Peccato che tu non mi abbia visto, eravamo praticamente vicini di sudore!”.
Questi individui, spinti da un inspiegabile bisogno di riconoscimento sociale, sembrano non realizzare che la loro presenza al concerto, se così grande fosse per loro, ha probabilmente lasciato nello spazio e nel tempo un’impressione tanto marcata quanto una scoreggia in un tornado.
La questione solleva interrogativi fondamentali sulla natura umana e sull’evoluzione della socialità nell’era digitale. È forse un sintomo del crescente narcisismo alimentato dai social? Un’innata tendenza a competere tra chi ha la collezione di memorabilia più polverosa? O semplicemente l’incontenibile desiderio di gridare al mondo digitale “c’ero anch’ io” per sentirsi parte di qualcosa, anche quando nessuno ha chiesto conferma?
La verità è che, in questo mare magnum di condividismo compulsivo, quello che veramente si perde è l’autenticità del vivere e condividere esperienze per quel che sono: momenti personali di crescita, divertimento, emozione. La musica, e in particolare quella heavy metal con la sua storia, dovrebbe ricordarci l’importanza di vivere al di là dello schermo, in un mondo dove essere “anche io” non necessita di approvazione esterna, ma solo del vero godimento personale dell’esperienza.
Alla fine viviamo in tempi in cui l’esposizione pubblica e la competizione per il “ci sono stato anch’io” hanno preso il sopravvento sulla genuina condivisione di passione e interesse. Forse, la prossima volta che sentiamo il bisogno irrefrenabile di digitare “ce l’ho anche io” o “c’ero anche io”, potremmo fare un respiro profondo, mettere da parte il nostro smartphone e semplicemente goderci il disco o il ricordo del concerto, felici nella consapevolezza che, a volte, il vero piacere sta nel saper apprezzare le cose in silenzio, senza rompere i coglioni nelle bacheche altrui.
Marco Grosso