Non conoscete gli Ebonylake? Credo sia giusto così. Loro vorrebbero questo. Personalmente li sentii nominare tanti anni fa in un’intervista ai Bal-Sagoth. Parlando della scena metal britannica di fine millennio, citarono tra i vari Cradle Of Filth, Paradise Lost e My Dying Bride, anche questi Ebonylake. Uscirono con la Cacophonous, che molti di voi conosceranno sia perché pubblicarono band che poi sarebbero diventate celebri (Cradle Of Filth, Dimmu Borgir, Primordial, Bal-Sagoth) sia per le gravi ingiustizie che questi gruppi subirono in termini di gestione da parte dell’etichetta. Va beh, non crediate che la Noise sia stata meglio. Avete letto l’articolo di Marco Grosso sul libro che racconta la storia della label tedesca? Ecco.
Gli Ebonylake pubblicarono questo album, intitolato (prendo fiato) On the Eve of the Grimly Inventive, dopo un demo che aveva fatto parlare parecchio gli appassionati di metal estremo malati di tape-trading (As Ghosts We Dance in Thrashing Seas) e ricevettero poca attenzione sia da parte del pubblico che delle riviste di allora. C’è da capirlo, girava tanta di quella roba sensazionale nel 1997-99 che ci poteva stare di perdersi un bel disco come questo.
Inoltre non esisteva ancora neanche la dicitura “Avant-gard Metal”, quindi i recensori di allora, poveretti, si trovarono molto a disagio perché le tracce create da Matthew “Mass” Firth e Ophelius (suonate con un esercito di cantanti e strumentisti al seguito) parevano fare a “chiapparello” con l’etichettatrice dei recensori. Un momento sembravano suonare death in stile Morbid Angel, un momento dopo partiva uno sfregolo di blast-beat black, poi ecco l’orchestra sinfonica, ancora rumorismo puro, e per chiudere ecco un pianoforte goticheggiante. L’ascolto non era facile, non lo è nemmeno oggi, però è innegabile che dietro tutto il montaggio in apparenza schizoide di pesantezza e malinconia, quei due sapevano, pur non sapendo dove andassero a parare, vi si dirigevano sicuri.
Misero in giro la storia che quella musica era stata composta dentro una casa stregata, ispirata da presenze inquietanti eccetera eccetera. Ovviamente era una cazzata per suggestionare l’ascoltatore e metterlo nella giusta dimensione ricettiva, ma in fin dei conti è proprio ciò che sembra, ascoltando The Author of the Burning Flock o The Wanderings of Ophelia Through the Untamed Countryside (i titoli lunghi andavano parecchio in Inghilterra, a quei tempi). A sentirle è come se degli spettri indiavolati disturbino le esecuzioni, farcendo le strutture di imprecazioni, sussurri, invettive, confessioni bofonchiate da un sotto-scala mentre la luce della luna piena entra e rivela ombre prigioniere di vecchi muri.
Il pezzo più rappresentativo in tal senso è A Voice In The Piano (secondo me il momento massimo). Suonando i tasti, ecco che insieme ai suoni esce il pianto di qualcuno. Dopo deflagrano la rabbia, il dolore, una storia di perdita terribile incastrati sotto i catenacci d’avorio di quel vecchio schiacciacorde, lasciato in un angolo della casa diroccata a fare da tomba a qualcosa di depresso e lamentoso. Sul pavimento sono entrate le foglie di qualche autunno fa, ancora crocchiano sotto i vostri piedi.
Non so se sia il caso di parlare di insuccesso. Se si realizza un disco così difficile, averlo pubblicato, probabilmente a spese della stessa band, raccogliendo pochi estimatori nell’arco di vent’anni è esattamente quello che ci si dovrebbe aspettare e che si auspichi. Gli Ebonylake probabilmente sono soddisfatti così. E infatti, dopo dodici anni (nel 2011), quando pubblicarono il loro secondo album, In Swathes of Brooding Light, fecero qualcosa di ancor più intrippato e caotico. I tipi di Metalitalia alzarono le mani e dissero che era solo quello che sembrava, un gran casino suonato molto bene. Oggi che nel giro del metal chic e hipster, gruppi ancora più indigesti e ieratici come gli Imperial Triumphant o prima di loro i Portal, ottengono rispetto e stima, per lo più sulla fiducia, fa pensare che gli Ebonylake dovrebbero riemergere come i padrini di questo avamposto particolarmente introverso dell’estremo.
Tanto più che tra le influenze citate da Firth e Ophelius c’è non solo Trey Azagtoth ma pure Krzysztof Penderecki e Sergej Sergeevič Prokof’ev. La cosa sorprese molti in quegli anni, ma a pensarci bene, il metal estremo fin dall’inizio traspone nella propria lingua, molti compositori di musica contemporanea. Come per il power e il metal classico i riferimenti furono Paganini, Bach e Beethoven, il death, il grind e il black attinsero da Bartok, Ligeti, Orff e Schoenberg. Ovviamente la maggior parte di loro, escludendo Tom G. Warrior, non aveva i dischi di questi grandi indigeribili in casa, ma attraverso le colonne sonore dei film horror di LoDuca, Herrmann o Kubrick, che gente come Schuldiner, Amott, Nicke Andersson studiarono per realizzare riff dall’atmosfera mortifera e minacciosa (Evil Dead, Shining, Psycho) e arrivarono comunque a quei compositori aristocratici.
Gli Ebonylake andarono semplicemente alle fonti originarie, cosa che oggi si fa con molta più frequenza rispetto agli anni 88-91 in ambito estremo. Gli Imperial per esempio citano Duke Ellington, Penderecki e Ghershwin insieme a Zorn, e i Deicide di Legion.
Tornando a On the Eve of the Grimly Inventive, se non l’avete provato mai, fatelo. Probabilmente oggi lo troverete molto meno sconvolgente che nel 1999, ma affrontatelo così: spegnete le luci in casa, sedetevi, chiudete gli occhi e spingete play sforzandovi, qualsiasi cosa avvertiate intorno a voi durante l’ascolto dell’intero disco, di non riaprirli e non muovervi fino a quando un piano in dissolvenza vi cingerà in un abbraccio di infettante mestizia e poi svanirà oltre i muri della vostra piccola e infestatissima abitazione. Amen.