I Glassing e la fragile arte della recensione

Non sto mai abbastanza attento quando leggo le recensioni. Dovevo capirlo che le parole shoegaze, sludge e post-black, erano un avvertimento per me. Stai alla larga. E invece mi sono lasciato fregare da frasi tipo “come i Glassing non c’è nessuno” oppure “ennesimo tassello di un cammino evolutivo avvincente…” Mi è costato caro, sapete? Ho sofferto un’intera mattinata a sentire e risentire e risentire From The Other Side Of The Mirror, fracassandomi i coglioni e incazzandomi pure parecchio. La tentazione è di non scriverne, lasciarmi alle spalle ‘sto disco, come la massa di gruppi post qualcosa che ho sentito e di cui ho dovuto scrivere in passato, e continuare la mia esistenza fregandomene. Ma qualcosa mi dice che è sbagliato allontanarsi da ciò che non si capisce.

Un critico, e in questo momento io mi ci sento fino al buco del cuore, ha il dovere di cimentarsi con qualsiasi cosa, anche fuori dalla sua zona di comfort, come si dice di questi tempi. Dovrei avere una competenza specifica, vero? Non posso scrivere di post-black metal senza conoscere a fondo questo particolare sotto-filone, ma io mi ribello al concetto. Troppo comodo essere analizzati solo dai competenti, dagli esperti. So abbastanza di metal da poter affrontare chiunque, cazzo.

Allora, il nuovo album dei Glassing è un mix di tre specifici sotto-generi estremi, come detto sopra: sludge, post-black e shoegaze.

Cosa sono?

Lo Sludge è doom con le urla.

Il doom è suonare piano, più piano, ancora più piano i riff dei Black Sabbath, da annientare l’anima di chi ascolta.

Il post-black è sempre black ma senza le facce pitturate di bianco.

Lo Shoegaze è percuotere e seviziare la chitarra attaccandola a una caterva di effetti. Non è necessario saperla suonare per realizzare cose shoegaze.

In questi tre stretti e battutissimi sentieri, i Glassing saltellano come virulenti caprioli. Prima c’è un po’ di blast-beat con la voce screamo (post-black perché la voce è screamo) poi c’è un riffone stile Sepultura/Korn/Meshuggah e un cantato un po’ più gutturale (Sludge) e infine ci sono le chitarre che si sospendono su qualche arpeggio effettatissimo (Shoegaze).

Dov’è la canzone in mezzo a tutto questo? Boh…

Ma ehi, non importa! So che non si possono pretendere dei ritornelli in ogni sotto-filone del metallo. Nel caso dello Shoegaze/Sludge/Post Black e quindi nel caso dei Glassing, non usa proprio.

Un’altra cosa che non si fa, che non sta bene, è tentare seriamente di scrivere un riff. Se ne possono e devono usare ma pescando dal repertorio minore dei Lamb Of Gods. Questo perché secondo l’estetica sludge/post/shoegaze, il riffing fa parte della struttura ma non deve attirare specificamente l’attenzione. Quindi non stai lì a pensare a cosa fa la chitarra. La chitarra fa qualcosa in fondo al tuo orecchio, una roba che sembra un riff e quindi ok.

Il mio problema con questo tipo di album Shoegaze/Post-Black/Sludge metal… core, è che mentre tento di ascoltarli, mi sfuggono. Sono lì che inizio la prima canzone e dopo un po’ mi ritrovo alla quinta. Cosa sia successo nel mezzo non lo so. Mi accorgo e ammetto di aver pensato ad altro. Mi sono distratto io o il gruppo ha finto di suonare cinque canzoni e invece ne ha realizzate effettivamente solo due?

No, no. Ce ne sono cinque. Ma mi distraggo e mi sfuggono.

Ora, se davanti alla musica di qualcuno, io mi distraggo spesso, anche con tutte le forze dell’attenzione e della buona volontà di comprendere e di ascoltare, la colpa di chi sarebbe? Mia o di chi ha fatto quella musica sfuggente?

Eh, ma si vede che il genere non fa per te, direte voi.

Non esiste qualcosa che non faccia per me. Io sono un uomo, la musica è nata dall’uomo per l’uomo. Se qualcosa non arriva al mio cuore, forse non è un fallimento da addebitare a qualcuno da solo, ma secondo me lo è in generale, sia per chi ascolta che per chi l’ha creata, quella cazzo di musica. Bisogna che qualcuno si prenda la responsabilità del tempo sprecato, della noia, la fatica, l’inutilità. Tutti quanti ne hanno colpe.

Ci sarà qualcuno che gode profondo a sentire From The Other Side Of The Mirror, obietterete. Può essere. Per dire, io ho letto nove recensioni sul web, tutte in Inglese, di questo album. Sono positive, dalla prima all’ultima. Talmente che ho quasi pensato di non dargli una possibilità. Leggendole poi ho notato due cose. La prima è che tutti gli autori delle recensioni usano un fracco di etichette per definire la band. E uno si distrae se non capisce le parole che si usano. Addirittura c’è chi ha infilato “speako”. Poi, tutti, dal primo all’ultimo, nel 2024, al tempo dello stream e del tubo, sono passati al track by track! Un aggettivo ricorrente nel definire i brani è stato “liminale”. Chissà che vuol dire…

Tutte le recensioni sono entusiaste, se possiamo dire così. Entusiaste come potrebbe esserlo un entomologo specializzato in processionarie, che ne trova una con un pelo bianco. A leggere questi “espertissimi” sembra tutto far parte, album e recensioni, di un mondo che ti sei perso.  Eppure ascolti metal da trent’anni, hai seguito le tendenze, hai ascoltato tutti i gruppi importanti, conosci ogni classico. A leggere dei Glassing ti accorgi che qualcosa è successo in un universo di cui non hai mai fatto davvero parte: quello che fonde lo sludge, il post-black e lo shoegaze. Persino le band citate per spiegare cosa suonano i Glassing, i modelli di riferimento, tu non le conosci!?

E poi ascolti l’album dei Glassing, e la cosa continua a non entrarti dentro. I brani ti attraversano, praticamente. Forse sei vecchio… magari questa roba la capisce la nuova generazione, pensi. Ma se sono vent’anni che esiste ‘sto genere!

Ti domandi se il problema siano i pezzi. O se non si tratti della produzione. In effetti, i brani sono abbastanza innocui. Sembrano esprimere un’epifania emotivamente molto densa, come la Nutella nel congelatore, che avviene in un microcosmo ristrettissimo. Lo so, drammi e tragedie immense possono avvenire in una scatola di pulci. Per intenderle bisogna farsi pulci ed entrare.

Se però prendiamo la produzione, anche quella magari è causa dei miei sbadigli, delle mie distrazioni.

Per iniziare, il basso. Rispetto agli altri suoni è per lo più enorme. Posso darvi un’idea del suono del basso dei Glassing in questo disco, facendovi un esempio. Immaginate di essere molto stanchi di qualcosa, esasperati. Come me che ascolto i Glassing per la quinta volta e non riesco a ricordarmi nulla di quello che sento. Vi scappa di soffiare aria fuori e lo fate gonfiando le guance, giusto? Provate a dire la lettera V mentre soffiate. Ecco che uscirà un sound molto gonfio che vi farà vibrare la faccia, producendo prurito alla punta del naso. Questo è il basso e a me, mette sonno.

La batteria, rispetto al basso, è più piccola, scialba. Viene dal black metal, quindi è un po’ barattolosa, più naturale e a tratti quasi sparisce. Il basso se la mangia. Si mangia tutto.

Si mangia le chitarre, che sono iper-sature quando fanno i riff distorti, e diventano piene di eco e di reverbero nei momenti più melodici, quasi ad aggiungere un effetto ipnotico al soporifero woooooo del basso.

Per finire la voce. Si tratta di un urlo quasi costante ma molto levigato. Non graffia, né irrita. Il tipo urla quasi tutte parole, convertendo ogni vocale in A, ma sembra lontano, in una stanza chiusa a chiave. A momenti le urla appaiono più come dei soffi felini mescolati al verso di un grosso serpente incazzato.

Tutto questo insieme, in aggiunta a brani piuttosto segmentati, nel senso che passano da un blast a un riff-sludge a un arpeggio shoegaze quasi di continuo, senza che ogni trancio di canzone, abbia davvero qualcosa in comune con il successivo o il precedente, tutto questo, dico, finisce per diventare un tale piattume, che pur rappresentando per gli “esperti di settore” quello dei Glassing un grande album, pur essendo quasi certamente un passo avanti nell’evoluzione avvincente di questo gruppo che “suona come nessuno” (dei quattro cani che sente chi ne ha scritto) a me me pare una piallata sui coglioni tutta la vita. Amen.