Non è un mistero che negli anni Novanta, il panorama musicale globale stava affrontando un significativo cambiamento. Il grunge e l’alternative rock avevano preso il sopravvento nei gusti mainstream, mentre il pop dominava le classifiche. Questo mutamento segnò un periodo di crisi per molte band di heavy metal classico, in particolare quelle sorte negli anni Ottanta, che si videro improvvisamente costrette a confrontarsi con un pubblico sempre meno interessato al loro genere musicale.
Se l’Eldorado che aveva loro creato l’establishment pareva eterno e inamovibile, in cui anche realtà minori erano riuscite a ritagliarsi un piccolo posto al sole, che poi il tempo decretò effimero e molto volatile, la storia aveva altri piani per certi gruppi.
La nuova decade portò con sé una rivoluzione nel gusto musicale del pubblico. Gli stilemi più tradizionali che avevano caratterizzato gli anni Ottanta cedettero il passo a suoni più grezzi e minimali, tipici del grunge. Allo stesso tempo, l’indie rock e l’alternative music acquisirono maggiore rilevanza.
Così come successe per la frattura a fine anni Settanta che impose il punk annichilendo il successo del Prog, le band di heavy metal, anche quelle che avevano goduto di enormi successi e che avevano milioni di fan, iniziarono a vedere calare drasticamente le vendite dei loro album e la partecipazione ai loro concerti Motley Crue, Poison, Dokken e molti altri da un anno all’altro passarono dalle arene e dagli stadi ai piccoli club semivuoti.
Molti gruppi furono abbandonati dalle loro etichette discografiche occidentali. Queste infatti optarono nell’investire su artisti emergenti o nei generi considerati più redditizi. La crisi del settore mise in ginocchio gruppi che, fino a pochi anni prima, erano considerati pilastri del genere. In pochi sopravvissero a tale tsunami, soprattutto i super big che avevano consolidato la loro fama in modo inossidabile (Metallica, Iron Maiden) e chi era meno strutturato fu spazzato via.
Tralasciando chi cambiò genere per sopravvivere, adattandosi a evoluzioni e rivoluzioni sonore (spesso poi rinnegate), molti si ritrovarono letteralmente a piedi, senza sapere che cosa fare per continuare a suonare e incidere ciò che sapevano e volevano continuare a praticare, ovvero il sano e classico heavy metal, con le declinazioni attigue (power metal, thrash, ecc).
Fu in questo contesto che le etichette discografiche giapponesi giocarono un ruolo cruciale nel salvare e sostenere numerosi gruppi vecchio stile che rischiavano l’oblio.
In questo difficile scenario, i “musi gialli” emersero come un faro di speranza per molte band. Il Giappone ha sempre avuto un rapporto particolare con la cultura occidentale, integrando spesso elementi stranieri nella propria scena artistica e musicale. Negli anni Ottanta, l’heavy metal aveva già trovato una solida base di fan nel paese, con le band locali che spesso traevano ispirazione dai gruppi occidentali.
Non a caso è proprio in Giappone che nacquero tra le altre cose i vari “cloni” di Accept, Judas Priest, Malmsteen, Iron Maiden, che in qualche modo, scimmiottando stile e immaginario, contribuirono a non fare morire un genere che, in quei primi anni Novanta, per molti si dava per spacciato e destinato a sparire.
Inoltre le nuove istanze alternative e grunge, nonché death e black non avevano mai attecchito in Giappone, mentre lo stile neoclassico alla Malmsteen, il power degli Helloween e le melodie armonizzate alla Maiden erano molto dentro il DNA musicale ed emozionale dei metallari giapponesi, per affinità e sensibilità.
Le etichette giapponesi si mostrarono lungimiranti e intravidero l’opportunità di capitalizzare il successo delle band di heavy metal classico, anche quando queste stavano perdendo terreno in Occidente. Pensarono che, se questi gruppi avevano ancora un seguito sostanziale di ammiratori, meritavano una seconda chance, giocando sul fatto che la “fame” di power metal, epic metal e traditional metal non si era placata, poiché i nostalgici degli anni Ottanta erano abbastanza numerosi e non pochi rifiutavano i nuovi suoni, annaspando furiosamente ovunque per perpetrare la “disperata continuità” in ogni modo.
Etichette come la Nippon Columbia, la Victor Entertainment e la Pony Canyon iniziarono a firmare contratti con band heavy metal occidentali, offrendo loro opportunità di registrazione, tour e promozione che non potevano più ottenere nei loro paesi d’origine. Nomi come Firehouse, Malmsteen e Accept trovarono una nuova casa in Giappone, e così poterono continuare a produrre musica e a rimanere attivi sulla scena internazionale, di fatto salvandosi da morte musicale certa.
Un caso emblematico fu quello dei Judas Priest. Negli anni Novanta, la band britannica attraversava un momento difficile dopo l’uscita di Rob Halford. Nonostante ciò, la riconoscenza del pubblico giapponese li portò a produrre album sotto etichette giapponesi, dove trovarono nuovo entusiasmo e una base di fan dedicata che li aiutò a mantenere la loro rilevanza.
Parallelamente in Europa a metà anni Novanta pochissime e sparute label stavano facendo lo stesso, come la tedesca Rising Sun, che salvò letteralmente il culo a Riot, Vicious Rumors e Metal Church, ma era proprio il Giappone a restare il baluardo dell’heavy classico, fino almeno al riscoperto interesse dei primi Duemila e la rinascita filologica e revivalista degli Ottanta, che oggi alimenta i vecchi dinosauri ultra cinquantenni, collezionisti e integralisti.
Altro elemento che metteva il Giappone in prima linea era di natura tecnologica; dismesso il formato vinile, che negli anni Novanata era pressoché snobbato da quasi tutti, con l’avvento del CD, le edizioni giapponesi erano davvero qualcosa di molto ambito. Titoli introvabili in Europa, importati e venduti a caro prezzo, con una qualità sonora superiore a quella occidentale; libretti più ricchi, grafiche più accattivanti e in particolare bonus track esclusive per il mercato nipponico, ne facevano ambititi oggetti, sia per il collezionista che per l’amante del metal classico, che non poteva avere le sue band preferite se non in quel modo.
Il mercato del classic metal a livello economico quindi si spostò semplicemente dagli USA ed Europa al Giappone, che di riflesso pagò gli artisti, li fece incidere e suonare in concerti sempre affollati e con parecchi sold out.
DVD e CD live a Tokyo et similia alimentarono quindi un’ulteriore fetta di mercato. I Novanta per questo genere devono dire grazie alla cultura giappa, che non aveva cancellato il passato abbracciando il presente, anomalia che ha poi portato attraverso i cicli e ricicli, a riconciliarsi con power, epic ed heavy metal tradizionale, fino ai giorni nostri.
Questo dimostra come, nel bene e nel male, il mondo dell’heavy metal è sempre fedele a sé stesso, e non ama i cambiamenti a lungo termine.
Marco Grosso