Pallbearer – Tra la noia e le convulsioni, come sempre.

Non mi pare che i Pallbearer abbiano perso interesse per il metal. Se perdere interesse significa muoversi in qualche direzione, anziché inondare il pubblico con distorsioni e urla ogni due anni, per circa un’oretta, ripetendo sempre la stessa formula, allora viva la perdita d’interesse per il metal. Se invece una band, partendo dal metal, a un certo punto abbandona la ciambella e si fa una nuotata dove non tocca, direi che sta solo tentando di non sentirsi una cazzo di boa, no?

I Pallbearer (se non ne sapete molto, qui potete trovare un mio specialone su di loro) sono una delle poche band venute fuori dopo gli anni diesci (leggi con la voce di Alessandro Borghese) ad avere una propria identità, un suono, uno stile, qualcosa da dire. Se siano sempre elettrizzanti, fighi, impeccabili si può discutere. Per quanto mi riguarda l’idea di affrontare un loro nuovo disco mi sfinisce già al pensiero, un po’ come con gli Ahab. Li apprezzo tantissimo entrambi, ma due palle. E tuttavia non si può davvero negare che abbiano una loro precisa essenza e che siano tra le vere grandi band di ultima generazione. I Pallbearer sono espandibili. Nel senso, è ancora possibile veder crescere dei giganti, nel metal, e non solo i nani che fanno il nido sopra le carcasse di quelli morenti.

Sono un gruppo che tanto offre e tanto chiede. Una volta che accetto di calarmi nella loro dimensione, posso rimanerci un mese. Le canzoni mi avvolgono, mi rivestono, mi nutrono e mi producono dentro una cieca triboleìa. Potete ritrovarmi in lacrime, con delle tracce di vomito sul mento, davanti a un tramonto e non sapere cosa mi sia successo, neanche se me lo chiedete vent’anni. La musica dei Pallbearer ha il potere allucinante di un travelgum con la coca-cola. Ogni loro disco ha questo potere di trasporto e di stravolgimento. E ci vuole il fisico. Bisogna essere dotati di una certa sensibilità. Non so se penso di avere l’equipaggiamento per andare al largo con loro, non annegare, tornare vivo e felicemente spento con un secchiello pieno di pesci amarissimi e ancora boccheggianti accuse contro di me.

Anche l’ultimo Mind Burns Alive ha questo gran potere. Ogni pezzo è un ascensore verso le viscere del dio rimorso, è una catarsi di luci, un delirio emotivo eccetera eccetera. Ci sono pezzi che vogano la nostra barchetta acustica verso i laghi demoniaci delle pitture ottocentesche, le isole dei morti di Hitler, i crepuscoli squagliati di Van Gogh. Attracchiamo insieme a Virgilio ai piedi di una galleria di ossa giurassiche. Penso a Endless Place, con Brett Campbell che a momenti, non so bene la ragione, mi ha fatto a pensare al Geoff Tate di Promised Land, quello sperso in mezzo a una tormenta che fa a gara di bestemmie con un sassofono. E anche qui a un certo punto, bang, ecco il sassofono.

Mi va di citare la tikketetrakkete, o Where The Lights Fades. Non so come gli riesce sempre sta cosa. Partono con un accordo di chitarra e lo allunga quel mezzo secondo in più che la mente non è abituata a seguirlo, poi passano al successivo, ne mettono un altro, un altro e un altro e io sto lì, circondato. Le combinazioni di note sembrano chiazze di lana budellina intrecciata e poi per magia ecco che assemblano tutto con l’ago e il filo di una melodia lunghissima, piena di curve. Poi con una spinta ci allontanano da lì e allora siamo in grado di vedere il disegno intero e tutto ci torna, cazzo, è perfetto. Siamo aggrappati alle pieghe di un orribile maglione arlecchinesco, indossato da un titano che dorme e sogna di bambini divorati dai genitori o qualcosa del genere.

Certo, non sempre la formula funziona. Ci sono dei momenti in cui verrebbe voglia di ascoltare altro. I Pallbearer sono un po’ bloccati in queste loro grandi architetture emotive. Non sanno fare altro. Appena attaccano a suonare gli si apre in due il cielo e vengono giù gli angeli con le trombe a rompere il cazzo. Anche nei brani più scarnificati e minimi di questo disco “lontano dal metal”, tipo Signals o Daybreak, c’è sempre e comunque il tono grandeurista del martire tutto o niente, in cui ogni due o tre minuti viene giù un muro o si sbriciola una montagna. Alla lunga, non so voi, ma per me è un po’ stressante. Addirittura noioso.

Sì, in Mind Burns Alive, i Pallbearer diventano un cicinino noiosi e di maniera, ma cazzo, questa è sempre stata la loro sfida. Arrancare sul ciglio di un burrone, organizzare feste da ballo in un palazzo di prossima demolizione, leggervi ad alta voce in una sola seduta Guerra e Pace e non farvi pentire di essergli andati appresso. Di solito gli va bene e siete rifocillati e scoppiate di lacrime. Questo li rende davvero grandi. A volte i diavoletti del genio staccano la comunicazione e nelle molochiane impalcature delle loro canzoncielle non avviene alcuna vera e propria immolazione; insomma, non succede granché. Riapriamo gli occhi e la polvere è sempre rimasta al proprio posto, gli uccellini cinguettano e le nuvole si sono allontanate dopo qualche rimbrotto sommesso.

Dopo l’esordio dall’allegrissimo titolo Sorrow And Ecxtinction, Mind Burns Alive è l’album dalla durata più breve: una cinquantina di minuti abbondanti per sei tracce. Non è così corto, ma la mia impressione è che finisca prima di quanto richiederebbe un’apocalisse ben mantecata. Comunque spero che i Pallbearer si allontanino ancora più dal metal e continuino a trasformarsi in loro stessi. Alla faccia del doom, di Angry Metal Guy e di chi non vorrebbe degli artisti, ma dei faccendieri del genere.