Leggendo un articolo/intervista a Jus Oborn, leader degli Electric Wizard, sono rimasto colpito da una cosa in particolare. Nel pezzo lo scribacchino sottopagato gli chiedeva di parlare, non di musica, ma dei film da lui più amati, stilando una top 15 o giù di lì. Jus elencò una serie di titoli e ne spiegò le ragioni. Sono tutti film riconosciuti collettivamente dalla critica, sia quella ufficiale che quella underground, come dei lavori di merda. E non poteva essere altrimenti, conoscendo Jus. I suoi Electric Wizard hanno tratto ispirazione dal cinema spazzatura con i bikers satanisti, le streghe dell’autostrada, i mostri che divorano la nonna trascinandola nel sotto-scala e poi si tirano sul divano, afferrano il telecomando e guardano Febbre d’amore. Quindi, ok, l’elenco era il rimesto nel fondo più scoraggiante dei cataloghi grindhouse anni 60/70 e via così, tarantinando.
Non è una novità, ma la cosa non smette di affascinarmi. L’arte per me dovrebbe trarre ispirazione dalla realtà, ma nel corso dei secoli e mai come ora, sembra succhiare come una sanguisuga ispirazione da se stessa. Il metal e il rock, così come il cinema horror, sono gli scorci da cui noto questa tendenza. Sovente è accaduto che nuove forme creative siano nate e abbiano raggiunto risultati eccellenti, partendo da forme artistiche sciatte, bieche e disprezzate dal gusto comune.
Dostoevskij era un patito di romanzacci neri e scrisse Delitto e castigo. Jodorowsky ha da molti anni una collezione sterminata di Spaghetti western e gialli all’Italiana e ha realizzato El Topo e Santa Sangre, due capolavori del cinema alternativo, i Cathedral, partendo dal catalogo minore della Vertigo e i film più truci dell’horror anni 70, hanno ridefinito il doom con The Carnival Bizarre. Non c’è bisogno di citare Tarantino, giusto?
Beh, gli Electric Wizard, a modo loro, partendo dagli outtake di Sabbath Bloody Sabbath, la segheria sotto-casa, montagne d’erba fumata, i film di Roger Corman, sono riusciti a pasticciare un gigantesco pupazzo di melma e convincerci del suo fascino. I loro dischi sono torture per l’ascoltatore con un preciso gusto estetico. All’inizio erano stroncati senza appello dalla critica, mentre Lee Dorrian che li produceva, elogiava il loro operato in ogni intervista. Col tempo dimostrò di aver ragione lui?
Non lo so, ma non è questo il momento di rispondere all’enigma Electric Wizard. Scriverò di Jus e i suoi amici un’altra volta. Per ora voglio discutere dei film citati da Oborn nell’articolo di Bloody Disgusting; in particolare uno. The Dunwich Horror.
Negli anni 90, quando ero un adolescente in fissa con l’horror e l’heavy metal e uscivo pochissimo, se non per andarmene a scuola, al cimitero o nel bosco dietro casa con dei manufatti rituali, una raccolta di racconti di Lovecraft e gli Overkill in cuffia, mi capitava di notare, sul palinsesto Mediaset delle profondità notturne, ‘sto film.
Stiamo parlando di uno dei titoli più possenti e rappresentativi dei miti di Chtulhu, quindi sarei stato molto interessato a vederlo. Allora però compravo e seguivo religiosamente i consigli di Film TV. Se i film erano giudicati buoni, ottimi, li registravo e rivedevo; se erano pessimi a maggior ragione non me li perdevo. Nel cinema pessimo e in quello ottimo, secondo me, si raggiungono ugualmente le vette del sublime… qualsiasi cosa io voglia davvero dire usando la parola subliiiiime.
Ma se leggevo su Film TV film “mediocre”, allora giravo alla larga. La mediocrità è la morte della creatività. Non c’è niente che possa salvarsi in un prodotto considerato medio-cretino. E quindi The Dunwich Horror me lo lasciai passare davanti fino a pochi mesi fa, dopo aver letto l’articolo-intervista a Jus.
La cosa interessante della top ten di Oborn è che, sì, sono tutti film bruttissimi, ma lui insiste a far notare le grandi colonne sonore che li accompagnano. E in effetti è una cosa che bisogna considerare, se non l’avete fatto mai. O meglio, se è Jus a dirvi che le musiche sono belle e conoscete i dischi degli Electric Wizard, sapete quanto il concetto di bellezza e di musica bella sia opinabile, ma sicuramente Oborn sa rendere le cose che gli piacciono interessanti.
Di solito si tende a prediligere le soundtrack dei film più riusciti. In ambito horror ce ne sono alcune indubbiamente grandissime (L’Esorcista, Suspiria, La casa di Mary, Buio Omega) e ce ne sono altre abbastanza ordinarie, salvate dalla fama e dal successo dei film di cui fanno parte. Raramente ci accorgiamo di come un brutto film suoni, anche perché spesso la sua mediocrità è confermata dall’uso prevedibile o sbagliato dei suoni e delle musiche.
Eppure, molti dei film citati da Jus nella sua lista, hanno queste colonne sonore strane, curiose e sicuramente potenti, che accostate a film orribili e di una volgarità surreale, rendono l’esperienza visiva e uditiva straniante e in un certo modo suggestiva allo spettatore avventuroso.
The Dunwich Horror è un film del cazzo, diciamo la verità. Se ci si sballa prima di vederlo può divenire un’avventura degna delle cronache di Les Claypool ai vecchi tempi dei Primus, ma da lucidi è davvero una roba da lanciare il televisore fuori dalla finestra. Da dove comincio? Gli attori? Dan Stockwell, che io amo perché sono un fissato con la serie In viaggio nel tempo, è imbarazzante. Guardatelo:
Quando fissa la camera strizzando lo sguardo per dare l’impressione di esprimere un imperioso magnetismo sulla bella di turno, è impossibile non ridere. Pure quei baffi e i capelli scarmigliati lo rendono così posticcio che sembra uno dei protagonisti del video Sabotage dei Beastie Boys.
Il make-up è roba da recita elementare: attori con i capelli imbiancati col borotalco, robe così. Solo Destroyer della Kusama ha fatto di peggio.
Il racconto di Lovecraft, il secondo tentativo (dopo La città dei Mostri di Corman) di trasposizione al cinema dei miti di Chtulhu, è un pasticcio che vorrebbe declinare l’universo del solengo di Providence, nel 1970 ancora poco noti al grande pubblico, con le bivaccherie sataniche un po’ hippie della Hammer di fine 60 e le spacconerie mediatiche del vecchio Crowley. Stockwell a un certo punto mette le mani nella stessa posizione che la bestia teneva in una delle sue foto ritualistiche più celebri.
Certo, ci sono delle cose che negli anni, proprio per questa contorsione perversa del gusto comune, si sono trasformate da camp e trash a bellissime: i titoli di testa disegnati, le scenografie da Famiglia Addams della casa e il cortile Whateley oggi hanno frotte di estimatori nell’internetto. Io al più mi sentirei di salvare la rappresenttazione della cosa-cosa-che-non-si-può-descrivere dietro la-porta-che-non-si-deve-aprire. Essendo il figlio di Yog Sototh, fin da allora, Haller, Corman e il curatore degli effetti speciali Roger George, hanno optato per una rappresentazione dell’irrappresentabile, usando inquadrature veloci e confuse, un mocho per pavimenti, un ventilatore e un pesce-banana morto da cinque giorni. Il risultato è, dato l’anno e tutte le attenuanti di un mondo culturalmente impreparato a Lovecraft, sorprendentemente buono. Aug!
Il film poi è prodotto da Roger Corman. Pace all’anima sua, a proposito. Oggi lui è un dio del cinema di genere, d’accordo, ma ciò che lo coinvolse al tempo, ormai ha subito un rialzo generale nella revisione. The Dunwich Horror, lui non amava ricordarlo. Non funzionò. Il suo uomo di fiducia e scenografo Daniel Haller, fece cose decisamente migliori. Lo sceneggiatore, Curtis Hanson, poi regista di 8 Mile, L.A. Confidential e il delizioso Wonder Boys, pure. Ma Les Baxter è sempre andato orgoglioso della colonna sonora che scrisse per questo film.
E in effetti vi consiglierei di ascoltarla perché, sebbene non abbia una ceppa da offrire alle atmosfere Lovecraftiane, è una serrata girandola intorno a un tema particolarmente insistito, somigliante alle musiche della serie Jurassik Park (e di molta altra roba, visto che è un pattern barocco ben preciso). Il punto pregevole non è infatti la melodia centrale, ma tutto il contorno di ritmiche africane e arrangiamenti forsennati con cui Baxter ha impartito all’orchestra l’uso di quasi tutto l’armamentario anni 70 degli score d’ambiente: c’è il moog, il theremin, synth di ogni genere, violini, violoncelli, spinette, chitarre jazz…
La colonna sonora è così chiassosa e veemente che distrae dal film quasi di continuo. Non che sia difficile distogliere l’attenzione dalla trama e dai pasticciati duetti interpretativi in scena, ma non c’entrando quasi nulla con la vicenda, compie il più peccaminoso reato delle musiche da film, almeno considerato tale fino al 1970: distrarre lo spettatore e non infognarlo ancora di più nell’universo immaginario coordinato del regista.
Nello stesso anno di The Dunwich Horror, Dario Argento, seguendo l’esempio di Leone, andò proprio nella direzione proibita, trasformando le sue colonne sonore in concerti rock abbacinanti, che però erano porte massicce alle spalle del pubblico, non gli permettevano di evadere dall’universo dei suoi film. Ma Les Baxter e Daniel Haller lì non stavano andando nella stessa direzione trascendentale. Erano solo due professionisti assemblati dalla borsa stretta di Corman. Roger era abituato a fare di necessità virtù e, aiutato da una gigantesca fortuna metafisica, con due soldi, riusciva a fare miracoli. Certo, magari aveva un giovanissimo Scorsese al montaggio, Nick Roeg fotografo e Jack Nicholson interprete principale su un set già usato per tre film e sfruttato per un quarto con una settimana di tempo prima dello smantellamento. Non mi riferisco a un film esistente, è per dire come la Factory cormaniana agiva al tempo. Merito di Corman, certo, sapeva scegliere e dar fiducia alla gente giusta, ma aveva anche un gran culo a imbattersi in certi ragazzi meravigliosi, come ribadirebbe Curtis Hanson.
Qui il lavoro di Baxter, che di Lovecraft non sapeva nulla e poco gli importava, e la scarsa lucidità di Haller, svogliato e contingente regista di maniera, trasformarono Le vergini di Dunwich, titolo italiano pruderesco, in un banale e molto un rumoristico esoteric-movie anni 70. Eppure posso garantirvi che le musiche di Les Baxter, ascoltate separatamente dalle immagini, raggiungono risultati davvero alti, almeno nella mente baccellosa di Jus Oborn, il quale ha il genio di costruire intorno al proprio discutibile operato, un phanteon di esempi audio-visivi con cui realizzare non un album, ma una intera Lore estetica, esattamente come hanno fatto Tarantino, Euronymous dei Mayhem o Jack White dei White Stripes.
La sola parte del film in cui suono e immagini ottengono un risultato che susciti un senso di angoscia efficace è nel finale, quando la natura, turbata da potere occulto degli antichi, scatenato nella città di Dunwich (un gran vento prodotto da un elicottero non inquadrato che si muove a bassa quota in un paesaggio boschivo) è accompagnato dal battito di un cuore sommesso e nient’altro. Quello mi ha causato un brivido. Ma nel disco di Baxter non c’è.