Skate The Razor e le riesumazioni del lunedì

Nella mia vita, per alcuni anni ho lavorato con un’agenzia di pompe funebri. Una volta mi toccò riesumare delle vecchie bare, controllare che dentro, i morti fossero diventati ossa e polvere e ripulire i loculi per nuovi ospiti. Beh, rimasi sorpreso. Nonostante fossero passati 40 anni dall’inumazione, molti di quei cadaveri erano ancora quasi intatti. Al punto che non si poté trasferirli nell’ossario, ma consegnarli al crematorio, con il permesso dei parenti, che avrebbero dovuto pagare qualche centinaio d’euro per quello smaltimento extra. Talvolta quando ripesco un disco dal passato è un po’ la stessa cosa. Gli Skate The Razor non se li ricorda nessuno, vero? Dal 1994 sono sottoterra ma a vederli non sembrano proprio defunti. Io non li avevo mai sentiti prima. Leggendo vecchie recensioni su un Thunder del 1994, ho notato il loro nome e mi è suonato qualcosa nel cranio. Ding, Ding, Ding.

Avevano beccato pure un bel voto su quella rivista, l’unica che ne scrisse. Metal Shock e Metal Hammer non li cagarono. Per quanto, a leggere il giudizio del critico, quel disco non pareva granché. Era un tempo in cui sembrava accadere qualcosa di rivoluzionario ogni mese, quindi un album che faceva solo del “sano hard rock” era giusto per gli alienati. La gente seguiva a precipizio tutte le novità: Angra, Stone Temple Pilots, Blind Guardian con l’orchestra vera, Nine Inch Nails, Ministry, Rammstain, le recensioni erano sempre più vaghe elegie sonore da cui era difficile capire come suonasse questo o quel gruppo. Oggi basta scrivere vicking-vegetarian-black metal e uno sa che la produzione farà schifo, che sarà un uomo solo dietro l’intero progetto e suonerà lui, male, tutti gli strumenti, ,e sarà sempre la solita sbobba underground di malsani principi. Ma cazzo, nel 1995, come facevi a dire a uno che non li aveva mai sentiti prima, come suonassero gli Smashing Pumpkins? Era dura. Certe penne diedero il meglio in termini di fantozzismo. Sembravano l’equivalente del ragioniere, quando spiegava cosa fossero la prostata o il Kibbutz.

Un bel disco di hard rock nel 1994 era come oggi la pasta al sugo della zia Masina in un contesto di cucina etnica e gourmet. Per dire, Gordon Ramsey è riuscito a impiegare 45 minuti per spiegare a un uditorio inebetito come si fanno le uova strapazzate. Figuratevi. Allora il rock era diventato un po’ la stessa questione. Negli anni tra il 1992 e il 1997 era tutto talmente cervellotico e chernobyliare, che pure un gruppo dichiarato di rock duro classico, non riusciva a esserlo completamente!

E poi era così romantico. In quel periodo solo i veri perdenti destinati al macero, facevano un disco heavy melodico alla faccia delle ubicue correnti commerciali.

Sia chiaro, allora c’erano i soldi e le possibilità del successo vero,  si poteva imbastire una carriera, quindi un gruppo che non volesse approfittare di scorciatoie, che se ne sbatteva delle pressioni da parte delle etichette, che faceva semplicemente ciò in cui credeva, non vendeva un cazzo e moriva felice, non era così frequente. Lo erano di più quelli che si prostituivano fino al culo, non vendevano un cazzo e morivano male.

Gli Skate The Razor erano senza scampo, ma fecero un album onesto. Ci misero due anni, praticamente un millennio. Pensate a quante cose accaddero tra il 92 e il 94. Il triplo di quello che è successo da quindici anni. E quando uscirono il mercato si era spostato in un altro continente.

Avevano lavorato sodo e con i tempi di una volta, facendosi aiutare da Victor Deyglio (ingegnere del suono di Psychotic Supper dei Tesla). Non erano solo hard rock, avevano anche i loro momenti più pesanti, minacciosi, quando gli sale il cattivo umore, per esempio in Judgment Day o Firing Lane, con quei bei riffoni cupi, gli assoli smargiassi e un po’ burini di Mike Moran, le ritmiche pastose e arrembanti di Matt Ellis, che non lesina il doppio pedale, con risultati un po’ pasticcioni in quell’abito sonoro da Arena rock. Il disco infatti rende al massimo nei momenti più soft, romantici: It Rains sembra un fiammeggiante brano class metal dei primi anni 80, una cosa alla Coney Hatch o alla Axe, fuori dal concept commerciale poi definito spregiativamente hair metal.

Ormai, noi che scriviamo di musica, siamo abituati a trovare tutto in rete, bastano un paio di click e abbiamo i dati, le recensioni, qualche intervista retrospettiva. Ci sono album e gruppi però che sono sfuggiti a questa immatricolazione e che ancora aspettano qualcuno come ‘sto coglione nostalgico, che li infili in un archivio virtuale. Degli Skate The Razor non si trova nulla sul web. C’è un blog ufficiale su cui qualcuno di loro annuncia l’uscita di Coda, una raccolta di inediti post-mortem della band. E basta. Non ci sono notizie, info, niente. Non è facile reperire questo secondo disco e probabilmente neanche mi interessa farlo. Il loro primo però mi sta tenendo compagnia da un po’ e va ancora che è una bellezza. Su Spotify potete assaggiarlo senza problemi, lì c’è. A proposito, si intitola Trancefactor.

Non vi dico che valga la pena riscoprirlo, ma è, parafrasando Sciascia, un cadavere eccellente, ben conservato. Praticamente dal 1994 che è nato, non è vissuto. Non mi va di mandarlo al crematorio della rimozione perché, per dire, ci sono pezzi notevoli: Stranger è una gran canzone sull’alienazione. in cui Brad Cooper, che pare Steve Perry con due metri di raucedine, dice come si sente a vivere con un estraneo dentro di sé, uno sconosciuto che vede solo quando si specchia la mattina e che però sente ogni minuto della sua vita fatta di azioni, emozioni e scelte che non riconosce completamente come sue. Il pezzo è composto da tre melodie, una più buona dell’altra e dopo un paio di volte che le sentite, le canterete e vi verrà un groppo in gola, perché tutti, voi e me, ci sentiamo esattamente così, Strangers, lost in the naaaaight, Straaaaangeeeeeerz! Scommettiamo?