I Botanist sono una concept band, vale a dire un gruppo/progetto che ruota intorno a un solo, specifico tema. Ce ne sono parecchi così, i 1914, gli Hooded Menace… Nel loro caso si parla di piante e per quanto siano sempre più diffuse forme ideologiche d’alimentazione erbivora, nel giro metal, nessuno ha mai dedicato undici dischi a questo argomento. Undici dischi e questo, Paleobotany è il dodicesimo in appena tredici anni.
Non posso evitare di soffermarmi ancora una volta su questo dato. Una band dopo undici dischi dovrebbe aver cambiato il mondo o per lo meno se stessa. I Metallica, i Tool, i Death, dopo quattro dischi erano diventati gli zii di se stessi, mentre negli ultimi due decenni capita che un gruppo/progetto produca una quantità notevole di musica e resti più o meno allo stesso punto, e così il mondo è uguale a prima.
Ok, non è più tempo di cambiare le cose con la musica, sono solo canzonette eccetera, però la faccenda mi sembra alla lunga davvero poco entusiasmante. Se non si pensa in grande, difficilmente succederà qualcosa di grande. I Botanist io li conosco da circa un mese. Questo è il primo disco che sento e ammetto la mia ignoranza, certo, però è pure un po’ colpa loro se dopo tredici anni (l’età di questo blog) e tutti quegli album su fiori e piante, non si siano mai fatti notare da questi cavalli. Eppure abbiamo tenuto a bada la scena con molta attenzione, quasi incessantemente.
Dove cacchio erano, sti qui? E come suonano?
C’è chi li segue da tanto e assicura che Paleobotany è il disco più accessibile e allo stesso tempo il più maturo dell’intera produzione del gruppo (Non ricordo se Angry Metal Guy o Metal Sucks). C’è anche chi invece (Metalitalia) sostiene che la band/progetto solista, dato che si alternano uscite come gruppo ad altre in cui suona solo il leader Otrebor, sia sempre di livello molto alto, ma queste altitudini ormai rappresentano da almeno tre o quattro album, una piacevole routine e quindi, ok, è solo un altro bel disco dei Botanist.
La formula della band è interessante. Già l’uso dell’Hammer Dulcimer al posto delle chitarre è un bell’atto di coraggio. Fare black metal con una tavola di corde che si suonano percuotendole e non pizzicandole (da qui la parola martello) è coraggioso. Il suono in fondo è una via di mezzo tra l’arpa, lo xilofono e una chitarra con la distorsione anni 60, ma non essendo una vera chitarra, offre progressioni, arpeggi, un po’ meno scontati, nonostante il genere di riferimento. E poi il basso, la batteria e le tastiere impastano tutto in un insieme abbastanza aggressivo, anche se la mia impressione è che, pure nei pezzi più brutallari, l’universo musicale dei Botanist sia così levigato e leggiadro (tra gli Opeth e i Bal-Sagoth) da non produrre un vero e proprio cambiamento rispetto ai momenti più melodici ed eterei.
Di Paleobotany mi piacciono le parti pulite, i cori intrecciati come madrigali cristici (When Forest Turn To Coal o Sigillaria) e soprattutto ho gradito l’intermezzo acustico The Impact That Built The Amazon, con il Dulcimer che, quando comincia il cantato vero e proprio, esita e indietreggia come un passante circospetto su un tenero lago di ghiaccio.
Peccato che tutta questa meraviglia armonica sia poi incanalata nelle solite strutture ritmiche del black metal, così monotone e omogeneizzanti. Deframmentano canzoni che avrebbero le melodie giuste per commuovere un meteorite e deviarlo dalla Terra.
Mi fa paura esplorare l’intera discografia dei Botanist, ma non escludo di provarci.