Il termine greco “ypocritès” significa “attore”, ovvero colui che è sottoposto al giudizio del pubblico. Per estensione, l’ipocrita è colui che agisce non secondo libero arbitrio, ma per acquiescenza verso il giudizio dominante.
Ebbene, posto che dopo 3 anni di affondo tecno-sanitario il regime è riuscito a travolgere ogni residuo argine di autodeterminazione creativa, impregnando con la sua cancrena woke ogni ganglio manovratore addetto ai tornelli discografici ed editoriali, a noi dissidenti è rimasta come unica scelta quella di darci alla macchia. Una scelta comunque suicida: perché se da un lato ci consente di guardarci allo specchio la sera, dall’altro ci condanna irreversibilmente all’ostracismo e alla marginalità.
Sic transit gloria mundi.
Ma ecco che dalle boscose alture ove siamo asserragliati per continuare a campare come cazzo ci pare, scorgiamo incamminarsi verso la Canossa del politicamente corretto, quatti quatti, i “nuovi democristiani della musica estrema”, i pettinatoni del finto radicalismo, gli aristocratici terzisti della pagnotta.
Insomma, quei parrucconi che in ogni epoca hanno veleggiato fra le divisività in atto senza mai sbucciarsi un ginocchio, ma anzi cercando di togliersi dalla mischia per poi troneggiare sullo strazio di sudore e sangue altrui con gli abiti lindi e pinti.
La loro strategia è tanto basica in dignità quanto sofisticata nell’applicazione: mostrarsi sì blandamente insofferenti al diktat woke, ma facendolo con quella tipica pacatezza spocchiosa e diplomatica che li tenga al contempo lontani dalle manganellate.
Come? Offuscando i propri album più spinosi ed espungendone da eventuali ristampe i contenuti più scomodi; edulcorando le produzioni future sino a renderle accettabili dalla critica; la quale “critica” (perché qua ce n’è davvero per tutti) ha a sua volta pensionato le penne libere, mantenendo arruolate solo quelle scodinzolatrici.
E, dulcis in fundo, disconoscendo in quanto “infrequentabili” tutti quegli artisti ex-sodali che, semplicemente, non hanno dato il culo.
Quando quest’articolo vedrà la luce, il progetto ReDvci, ideato e fondato assieme al mio amico e sodale, il compianto Yorga (ex Aborym, Boslide), sarà stato comunicato urbi et orbi come una corazzata espressiva “soya-free”, ideata proprio col messianico intento di setacciare un trentennale panorama musicale sedicente estremo, sovente rivelatosi trentennalmente cagone.
E posso testimoniare che, nonostante le premesse fondative di ReDvci siano state sin dall’inizio chiarissime (bastava leggerne il comunicato stampa, se non fossero bastate le livree dei suoi due fondatori), persino la gestazione di un progetto così schierato, durata oltre un anno, non ha risparmiato supercazzole dell’ultimo minuto da parte di mammolette che volevano intingere il biscottino nel piatto dei duri&puri, ma senza sporcarsi la fedina penale e, soprattutto, senza rinunciare ad un posto in piccionaia del nuovo “underground” rivisitato e corretto.
Superfluo aggiungere – ma lo faccio – che la stampa blasonata (salvo un paio d’eccezioni) ha ignorato il comunicato stampa con la tipica ipocrita pudicizia di quelle suore che si coprono la bocca con la mano mentre mangiano una banana.
Il dramma è che questa gente, indebitamente mitizzata da un pubblico del tutto ignaro di codeste penose dinamiche interne alle conventicole artistiche, continua a millantare “dotazioni” elefantiache; peccato per loro che sia mia goduriosissima prerogativa quella di scendere in campo aperto sempre a cazzo all’aria: e a quel punto, chi vuole competere, rischia di farsi cadere l’ovatta dalle mutande.
La mia soavità, G/Ab Volgar (voce e leader dei Deviate Damaen).