Alcatrazz, se scappi ti sposo

Ho sempre considerato Graham Bonnet il più americano degli inglesi. Questo perché, a differenza della compassata e sobria politica dell’”understatement”, per il quale con garbato sarcasmo e cinico distacco, si possono dire e fare anche le peggiori cose, mantenendo una formale sobrietà pubblica. (fino al venerdì alle 17), lui è sempre stato sopra le righe, assomigliando ai più caciaroni, ruspanti e grezzi cugini statunitensi. Camicie improbabili, capelli platinati, esuberanza oltre misura, istrionico, il cantante mi è sempre parso “la persona sbagliata al momento giusto”.

Tipo da “one shot one kill”, ha affiancato i più grandi nel loro periodo di radiante splendore: Blackmore nei Rainbow (per un solo album), Michael Schenker (per un solo album), Malmsteen e Steve vai (ognuno per un solo album a testa). Ha cantato con le leggende, ma non ha mai, e dico mai, mantenuto una stabilità artistica coerente e duratura. Carattere? Il suo “mandare a puttane tutto” per il vizio dell’alcolismo? Determinante, ma non unico fattore. Solo chi lo conosce umanamente potrebbe spiegare perché è così bravo a rovinare la situazione o a farsi abbandonare dopo il “primo appuntamento”, senza scopare ma solo limonando mezz’ora la tipa.

Ordunque dopo due dischi straordinari con gli Alcatrazz, diversissimi ma entrambi di caratura superiore, Malmsteen abbandona per intraprendere la sua carriera solista, e Steve vai viene convocato alla corte di David Lee Roth. Interessante è ascoltare qualche live con Vai che risuona le canzoni e gli assoli di Malmsteen perfettamente ma mettendoci il suo tocco, trasformando tutto in qualcosa di spettacolare e unico.

A parti inverse credo che lo svedese non sia in grado di fare la stessa cosa, e questo la dice lunga su quanto Steve sia davvero un colosso della chitarra, inarrivabile. Con il cerino in mano il buon Graham deve rifondare la dinastia, e cercarsi un altro valido collaboratore. Arriva Danny Johnson, uno che ha un curriculum da spavento. Alice Cooper, Rick Derringer, Axis, Rod Stewart e non ultimo essere stato scelto dagli Aerosmith per sostituire Joe Perry, cosa poi non accaduta. Il suo stile e la sua tecnica sono derivanti dal blues, dal rock e dall’hard rock, non certo un virtuoso alla Vai e alla Malmsteen, e questo presupponeva che entrando nella band avrebbe inciso un disco completamente diverso dai già diversi tra loro primi due.

Nel 1986 esce Dangerous Games.

Intanto per uno strano motivo, istintivo e irrazionale, guardando la copertina degli Alcatrazz mi viene in mente quella di Drama degli Yes, come se fossero collegate, una sorta di “interno notte esterno giorno” cinematografico dello stesso paesaggio territoriale, e guardando dentro vedi il gattone, e dalla stanza guardando fuori rivedi altri felini.

Fateci caso…

Sulla chiamata alle armi Danny Johnson ricorda: “ero a casa in Louisiana e ricevetti una telefonata da un amico di Los Angeles che mi disse che Wendy Dio voleva che tornassi a Los Angeles per unirmi agli Alcatrazz, una band che aveva appena iniziato a rappresentare. Ho chiesto alla band “Siete sicuri che sia il vostro uomo?”. Mi hanno risposto: “Sì”. Avevo appena visto il film Crossroads, e Vai interpretava il chitarrista del diavolo. Sapevo che sarebbe stato difficile entrare in quei panni, precedentemente occupati anche da Yngwie Malmsteen.

Sembrava che alla Capitol Records fossero stanchi di lanciare carriere di virtuosi della chitarra e volessero un disco di successo; ecco perché in “Dangerous Games” non c’è tanta chitarra. Il bassista, Gary Shea, mi disse di appesantire il suono e farlo più corposo. Non gli ho dato retta. Aveva ragione, ma era troppo tardi. Il tour è stato un po’ difficile. Voglio dire, ero un rocker blues che cercava di copiare Vai, laureato alla Berklee, e il dio della chitarra neoclassica Malmsteen, quindi la fiducia in me stesso venne meno.

Ricordo che una sera il pubblico voleva più velocità e shredding, così ho preso un boccale di birra, me lo sono versato addosso e ho iniziato a saltare, a girare e a suonare il più velocemente possibile, senza nemmeno andare a tempo con la musica, e il pubblico è impazzito. Dopo lo spettacolo Wendy viene da me e mi dice: “È stato fantastico!”. Le ho detto che l’avevo fatto per scherzo e lei mi ha risposto che voleva che lo facessi ogni sera. Gran parte dell’hard rock degli anni Ottanta era molto fumo negli occhi. Purtroppo gli Alcatrazz erano il mio gruppo preferito di quell’epoca e ho contribuito al suo scioglimento”.

La Capitol Records aveva molte speranze sul nuovo lavoro, sulla scia delle consorelle di etichetta Heart, e puntava su un suono patinato, accattivante e “commerciale”, ponendo come “conditio sine qua non” l’affiancamento di scrittori esterni, per confezionare un disco “a tavolino”.

La label impose almeno due cover, e Bonnet acconsentì, ma come collaboratori esterni impose di avere solo la moglie Jo Eime per i testi. E così fu. La prima traccia scelta funziona sorprendentemente bene e apre l’album. Una rielaborazione di It’s My Life del gruppo beat anni ’60 The Animals è quasi irriconoscibile dalla versione originale ed è un bel rifacimento nonostante non sia esattamente ciò che la Capital Records aveva in mente.

La seconda traccia scelta è stata una canzone originariamente eseguita da un giovanissimo Bonnet con i Marbles, Only One Woman, rivisitata in modo più moderno e patinato. L’album ha un andamento regolare, senza picchi negativi o positivi, con canzoni come Undercover e il tributo al Giappone con Ohayo Tokyo che sono i punti salienti dell’album. Un bell’esempio di “arena rock” con cori gustosi, melodie coinvolgenti e suoni luminosi, ma senza troppi fronzoli.

Dangerous Games sarebbe stata la perfetta colonna sonora di Miami Vice, o Magum PI, con le sue atmosfere edonistiche e sornione, il sole estivo e le palme della costa piena di turisti, spacciatori e poliziotti corrotti, per le highways sferzate da auto cabriolet, puttane, magnaccia e cocktail colorati.

Tutto è levigato, lucidato a specchio, i suoni, l’attitudine, la produzione, i testi. Nonostante le tracce siano di facile presa, soprattutto per il pubblico americano, paga l’assenza di veri highlights e l’assenza di genialità compositiva e tecnica di Vai e Malmsteen; all’epoca infatti scontentò in particolare i fan dei virtuosi guitar hero, che si rivolsero altrove.

Dangerous Games non entra nelle classifiche e la Capitol, delusa dal flop, scarica gli Alcatrazz. Qualche show, poi la chiamata di Eddie Van Halen a Gary Shea (basso) e Jimmy Waldo (tastiere) per una band alternativa che voleva creare, progetto fallito subito, porta i restanti Bonnet a incidere dei demo con altri collaboratori, ma non ritenendosi soddisfatto scioglie la baracca e dice stop.

Io ritengo Dangerous Games un lavoro piacevolissimo, che va assolutamente riscoperto, perché ben suonato, ben interpretato e con canzoni che oggi, riascoltate dopo quasi quarant’anni, mantengono un appeal e un’efficacia più che buoni. Sicuramente migliore di altri dischi incisi da Bonnet o dagli “altri” Alcatrazz negli ultimi anni, che per me non sfiorano né la classe né il pathos di questo lavoro. Ridategli una possibilità, ne vale la pena.

Marco Grosso

https://youtu.be/s0jOA9ff68Y?si=tgm6nNTRueu7kwSG