Nel 1993 i Candlemass erano in piena decadenza. Pubblicavano un aborto sonoro senza capo né coda come Sjunger Sigge Fürst, un EP di pezzi demenziali, tra l’acustico e il folk, cantati in svedese suscitando solo grande perplessità? Perché fare una cosa del genere? Ancora nessuno se lo sa spiegare. Avevano anche da un anno nei negozi Chapter VI, con Thomas Vikström al posto di Messiah Marcolin, un disco anonimo, non brutto, ma distante anni luce da quello che la gente voleva dalla band, un passo fuori dal doom che avevano contribuito a rilanciare e in cui sono i padrini dell’ondata ottantiana. Eravamo tutti orfani di QUEI Candlemass dei primi quattro lavori e non nutrivamo speranze nel proseguo di carriera, tanto che alcuni che frequentavo nei circoli metallici avevano azzardato a dire che si sarebbero sciolti da li a poco.
Analogamente a quanto capitato con Helloween/Gamma Ray, ovvero che una delle due parti in rotta riprendesse il vecchio stile, ecco che la seconda venuta del Messiah con un nuovo progetto, aveva scosso in positivo gli animi, e fatto ben sperare. Desideri e sogni si materializzarono con entusiasmo (il mio), quando tra le mani ebbi il CD di Rhymes Of Lunacy dei Memento Mori, la nuova band di Marcolin.
E che band signori! Alla chitarra sua maestà Mike Wead (tutti ben sapete chi è e cosa ha fatto, giusto?); Snowy Shaw alla batteria; Marty Marteen, ex bassista degli Hexenhaus; e uno sconosciuto, Nikkey Argento, che dimostrò sul campo tutto il suo valore affiancando degnamente Wead alla sei corde.
Già la splendida copertina che vira di rosa fluo su sfondo viola, con la foto della band e il logo gotico, facevano venire nelle mutande a tutti noi orfani di Nightfall. Se tanto dava tanto, dentro chissà che meraviglia! E così fu. In undici tracce il distillato del meglio del doom della band madre si fondeva con certe suggestioni innovative aggiunte a manciate. Un forte senso di suspance e tensione nei riff e nelle atmosfere, con quel malcelato “soffio di vento” tetro e sinistro che presagiva la visita di dannati all’uscio di casa.
C’è tanto dei primi Mercyful Fate, con in più le tastiere ultra epiche e maligne, un po’ di metal classico ottantiano, e poi quella voce, bella e impossibile! Tutto il disco è un tripudio di buio orfico, di baccanali delle tenebre, di insanità catartica, di sprofondamento disperato nei meandri di una mente che sta abbandonando la lucidità.
Un vero gioiello, che a tratti è migliore rispetto a parte dei primi Candlemass, sicuramente quelli di Ancient Dreams e di Tales Of Creation, dischi belli ma non irresistibili. Rhymes Of Lunacy è per me uno dei vertici del “nero metallo maligno” degli anni 90, un disco meraviglioso, mai troppo osannato o rimpianto.
Bisseranno con un buon secondo Life, Death And Another Morbid Tales e si perderanno come i cugini Candlemass con altri due dischi abbastanza trascurabili. Se Paganini non ripete, i Memento Mori pure; non riusciranno mai a toccare di nuovo tali vette, tanto che si potrebbe pensare a un caso, alla botta di culo, perché non ci si spiega come abbiamo perso quella sublime ispirazione iniziale per il manierismo con cui si spensero pochi anni dopo. Il resto è solo cronaca di ritorni, abbandoni e nuove ripartenze in toni più dimessi, nelle lande fredde e malsane della Svezia.
Marco Grosso