Negli anni ’80 del secolo scorso, il cosiddetto hair metal significava dollaroni sonanti, successo, eccessi e cotillon. Potevi anche chiamarlo street, sleazy, glam, hard ma sempre di rock (e a volte proprio di metal) si trattava. Sfrontato, ammiccante, colorato e melodico, come piaceva a noi. In seguito all’esplosione di gruppi come Mötley Crüe, Poison, Bon Jovi, Europe, Guns n’Roses e chi più ne ha più ne metta, spuntò ovviamente una vagonata di emuli più o meno fortunati, quasi tutti concentrati nell’area di Los Angeles. La Sunset Strip di Hollywood era l’El Dorado, il sogno proibito di plotoni di ragazzi che volevano farsi strada a colpi di chitarra elettrica e capelli al vento.
Fu proprio da quelle parti che, intorno al 1986, si ritrovò Vicki James Wright, un giovane cantante emigrato dalla natia Inghilterra. Remembering Johnny Crash…
Pur essendo appena ventenne, non era già più un novellino: era infatti l’ex frontman dei britannici Tokyo Blade, con cui aveva registrato due album e partecipato a tour europei piuttosto importanti. Lo scioglimento forzato della band e la conseguente delusione lo indussero a cercare fortuna in California, dove iniziò subito a farsi conoscere e a ricevere offerte da diversi gruppi della zona.
Fra le altre cose, Wright perse per un soffio l’occasione di unirsi agli allora esordienti L.A. Guns.
Tuttavia, Tracii Guns lo tenne in considerazione e lo presentò al chitarrista Christopher Stewart, che stava mettendo in piedi un gruppo insieme al collega August Worchell.
Nacquero così i Johnny Crash, in seguito completati dal bassista Andy Rogers e dal batterista Stephen “Punkee” Adamo.
Subito messi sotto contratto dalla WTG (sussidiaria della Epic) i Johnny Crash avevano perfino l’appoggio del noto produttore Andy Johns: per intenderci, uno che aveva messo le mani su dischi di “gentaglia” come Rolling Stones, Led Zeppelin, Free e tanti altri. Mica male, per una band esordiente!
Per varie vicissitudini, comunque, Johns finì per non partecipare alle registrazioni. L’album di debutto venne quindi affidato a Tony Platt, anch’egli tutt’altro che sprovveduto, essendo stretto collaboratore di un certo Mutt Lange e avendo diverse esperienze di altissimo profilo.
Insomma, la storia di questi cinque giovanotti sembrava iniziare con il piede non giusto ma giustissimo.
Però si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi…
L’album Neighbourhood Threat fu pubblicato nel 1990 e la band venne spedita in tour insieme a Bonham, Pretty Maids e Mötley Crüe, fra Europa e Stati Uniti. Il pubblico c’era, il talento e la voglia pure ma la casa discografica aveva commesso l’errore clamoroso di stampare meno copie del necessario. Risultato: chi vedeva i Johnny Crash dal vivo, non aveva poi la possibilità di comprare il loro disco perché era introvabile.
Si trattava di un peccato capitale perché il disco, signori miei, è un grandissimo disco!
Forte di una produzione killer, proprio grazie al lavoro di Tony Platt, “Neighbourhood Threat” è un concentrato adrenalinico di hard rock grintoso e sornione, con forti richiami al blues ed una totale assenza di orpelli o sovraincisioni. Lontane dalle superproduzioni dell’epoca, le canzoni sono asciutte, essenziali e molto più vicine allo stile grezzo ed irruento degli AC/DC che non a quello patinato dei Poison, per dirne una.
Chitarre graffianti, sezione ritmica diretta e potente, cori incisivi e soprattutto, la prestazione vocale maiuscola di Vick Wright, perfettamente a suo agio sia sulle parti più urlate che su quelle più bluesy.
Hey Kid, Axe To The Wax, Sink Or Swim, Crack Of Dawn e Halfway To Heaven sono tutti esempi di hard rock della migliore qualità, mentre la melodia di Freedom Road e il blues sporcaccione di Baby’s Like A Piano completano un album che, a mio modesto parere, è fra i migliori di sempre nel suo genere.
Un esordio di questo calibro avrebbe dovuto spianare facilmente la strada del successo ai Johnny Crash. Ahimè, la band non resse, vittima di decisioni sbagliate sia interne che esterne.
Le tensioni interne arrivarono presto, portando all’allontanamento di August Worchell e Stephen Adamo, nonché alla tragica morte per overdose di Andy Rogers, che pose effettivamente fine alla storia nel 1992.
In realtà, la band aveva anche registrato un secondo album, con la partecipazione di nientepopodimenoché Matt Sorum e Dizzy Reed (futuri membri dei Guns n’Roses). La prematura scomparsa di Rogers alla fine delle registrazioni e l’incapacità dei superstiti di prendere una decisione chiara sull’immediato futuro, fecero però decidere alla WTG di scaricare il gruppo ed archiviare l’album, rimasto inedito addirittura fino al 2008.
Ognuno prese la propria strada e dopo appena un paio d’anni dal debutto, dei Johnny Crash non era rimasto più nulla.
Il rammarico è quello di aver perso troppo presto una band dal grande potenziale, che avrebbe potuto e dovuto proseguire la propria carriera ma a cui, come a tanti altri, la dea bendata non ha riservato un destino più roseo.
“Neighbourhood Threat” mi è molto caro, perché è incredibilmente stato uno dei primi album ad accompagnarmi nella mia formazione musicale: avevo 13 anni quando, per puro caso, vidi il video di “Hey Kid” sulla compianta Videomusic e mi misi a cercare l’album in ogni negozio di dischi di Milano.
Rammento quasi con tenerezza la difficoltà di spiegare che stavo cercando un gruppo chiamato Johnny cRash, non il ben più celebre countryman di nero vestito e con una R in meno nel nome!
Alla fine, lo trovai da Ricordi, l’ultimo posto in cui mi sarei aspettato di trovarlo. Da allora è rimasto stabilmente uno dei miei dischi preferiti in assoluto.
A tutti gli amanti del rock stradaiolo di quei tempi, suggerisco senza alcun indugio di ascoltare sia “Neighbourhood Threat” che il suo successore Unfinished Business: credetemi, lo sbattimento della capoccia e dei piedoni saranno garantiti!