Capricorn – Dare fuoco a questo mondo

Quando mi trovo davanti a un vecchio disco che reputo ancora interessante e del quale non avevo mai sentito parlare, mi domando come mai non ce l’abbia fatta. Parto sempre dal contenuto, è chiaro. Se le canzoni, il sound, lo stile e la potenza ci sono, perché le cose non hanno funzionato? E allora, come un pubblico ministero, metto sotto inchiesta l’etichetta, possibile colpevole di un lavoro inefficace a livello promozionale e distributivo, oppure penso al pubblico del momento, guidato verso altre tendenze rispetto a ciò che quel certo gruppo aveva da offrire. (Capricorn)

Non basta la qualità per avere successo. E non basta il successo per determinare la qualità. Le due cose sovente non vanno a braccetto. Per questo adoro scavare nel passato, perché un bel disco, per ragioni contingenti o semplicemente per una questione di culo, può nascere e morire nell’indifferenza generale, ma paradossalmente non ha bisogno di vantare una vecchia popolarità e tantomeno recensioni scadute in cui veniva esaltato. Si tiene in piedi da solo, meravigliosamente. Riemerge dal tempo con la stessa sardonica superiorità delle statue antiche riparate dalla fame dei secoli. Ed è tutto mio.

Parliamo dei Capricorn. Erano un trio tedesco. Due dei musicisti coinvolti, Stefan Arnold e Adrian Ahan, erano già compagni in un altro gruppo di cui solo ora scopro l’esistenza, i Grinder. Questi uscirono per la Noise con tre album interessanti tra il 1984 e il 1991, di cui il secondo, Dead End, mi è parso il più riuscito. Per chi ha seguito entrambe le band, la nascita dei Capricorn, subito dopo lo scioglimento dei Grinder, con due terzi della stessa formazione, ne decreta una specie di continuità concettuale.

Per fare un paragone, mi vengono in mente i Lion di Doug Aldrich e Kal Swan e i successivi Bad Moon Rising. Se però in questo caso i secondi non sono mai stati all’altezza dei primi, qui i Capricorn brucano in testa ai Grinder.

L’omonimo, uscito nel 1993 è tutto ciò che Arnold e Hahn non sono riusciti a essere con il loro ultimo Nothing Is Sacred. Questo è il solo titolo presente sul catalogo Spotify di entrambe le band e non rappresenta al meglio quasi quindici anni di collaborazione tra i due. Su Encyclopedia Metallum per i Grinder e i Capricorn si parla solo di un cambio di nome che apparentemente separa a metà il percorso, ma che di fatto non scinde il percorso creativo di un solo, fattivo gruppo, tipo i Caught In The Act e i Guild Of Ages.

Non saprei. Sto cercando di combinare un’intervista con Arnold (poi divenuto celebre nei Grave Digger, certo) per saperne di più. Su internet si trova poco e niente sia sui Grinder che i Capricorn e bisogna porre rimedio.

I Grinder erano di casa alla Noise, di cui si dicono molto brutte riguardo la gestione delle loro band. I Capricorn ripartirono da un’altra label non meno allora: la Shark Records.

Gianni Della Cioppa, nella recensione che fece al disco su un Metal Shock dei primi mesi del 1994, non si occupò in modo appropriato del gruppo. Intanto ne parlò come di un progetto nuovo venuto su dal nulla, senza accennare al fatto che dietro vi fosse in massima parte gente in giro da dieci anni sul mercato tedesco, e poi spese buone parole per la copertina (orrida) e l’etichetta, la quale in catalogo aveva sì nomi di qualità come gli Stratovarius e gli Elegy ma che non stava passando un bel periodo.

I Capricorn non convinsero Gianni. “Roba da vecchi defenders” per lui. Elogiò la grande capacità del gruppo nello scrivere riff interessanti ma accusò la pessima gestione di quegli spunti nello sviluppo mediocre in brani annacquati e inconcludenti.

Nessuno vuol fare un processo a Della Cioppa per queste parole, sia chiaro. Ne parlo solo per mostrare quanto sia difficile, con i ritmi assurdi di allora (e di oggi) occuparsi come si deve di tutto. Quel mese lui recensì per la rivista una cosa come dieci album e conoscendo i ritmi lavorativi del Fuzz, probabile che li dovette fare in pochi giorni, basandosi solo su una serie di informazioni stringate in accompagnamento ai promo.

La Shark Records in quel periodo, oltre ai Capricorn, fecero uscire anche i Beyond Belief, i Channel Zero, i N.A.O.P., i Phantom e Life Among The Ruins dei Virgin Steele. Tranne quest’ultimo, resta poco degli altri, nella memoria collettiva, non solo la mia. Dite che non è vero? Dai, bisogna essere cultori sfegatati del metal tedesco, per ricordarsi dei Phantom e pure i Capricorn chi li rammenta o li ha mai sentiti nominare?

I Capricorn mi piacciono tantissimo e mi fanno pensare a ciò che non va oggi in tutti quei gruppi che includiamo nella cosiddetta New Wave Of Traditional Heavy Metal. Questo loro esordio omonimo era un disco di metallone classico, ma influenzato dal contesto di allora. Non si chiudeva alla realtà, ne assorbiva le influenze, ma senza snaturare la materia principale. Il sound prendeva non solo dalle vecchie band inglesi e tedesche, ma pure dal massiccio groove-thrash americano di allora. Questa commistione creava una formula molto interessante che aggiungeva proteine al tipico approccio tedesco al power.

Non c’erano concessioni spudorate al passato. Si ripartiva sì da quello, ma cercando di attualizzare, senza esagerare, l’assalto. Il vocione possente e maschile di Adrian Ahan poi va assolutamente riscoperto. Niente falsetti ridicoli, mai più note di quello che le sue doti gli permettevano di raggiungere senza barare accompagnato a un buon gusto melodico e la capacità di scrivere liriche interessanti e molto centrate sul genere.

Ecco un altro elemento da tenere in considerazione, le parole. I testi dei Capricorn infatti non si limitavano a parlare delle solite cose horror (Mr. Voorhees) o sul problema sociale della criminalità (One Shot From Murder) ma cercavano di tradurre in parole la vera essenza della filosofia metallica.

Sentite qui:

Sono il tuono ruggente, sono il vento che ulula,
Sono il tornado più potente che tu abbia mai visto
Sono di 10 mila piedi e mi dirigo verso la terra
Ballando con il diavolo, cappottando il paradiso
Immergendomi nella follia, mi sento così divino
Ora è il momento di dare fuoco a questo mondo

Si sente divino e brucerà tutto. Cazzo, questo sì che è metal. Esaltazione assurda e fuori controllo e istinto distruttivo/rigenerativo. Non c’è niente di satanico nichilista o di epico-machista. Non è un blackster nerd che gira per i boschi meditando di Hitler, Sauron e i Puffi. Non c’è voglia di uccidere la razza umana con quel “bruciare tutto”. Si tratta di un proposito pieno di vitalità urlato in faccia al mondo dalla voce di un uomo posseduto dal demone metallico e inebriato come un Berserker dalla propria stessa furia.

Farà casino quell’uomo, ma userà la musica, in una metaforica e allegra piromania che nel 1994 suscitò, immagino, solo risatine e sprezzo nelle redazioni delle riviste metal, interessate alle robe esistenziali di Pearl Jam e Soul Asylum o alle vaghe visioni ambient di qualche progetto estremo. Vi posso però garantire che il metal era ed è ancora quello. Un demone che urla dalla bocca di un adolescente: “voglio bruciarti la casa, sto arrivando”

Oggi chi lo canterebbe con tanta convinzione? Oggi il mondo fa il metal, non lo è più, capite?

Non si può esserlo, non sta bene. Bisogna distaccarsi da quel flusso incandescente, altrimenti qualcuno ci prende per dei pazzi. Meglio parlare di qualche divinità con le corna che nel folto dei boschi violenta una suora e poi rilasciare interviste su Skype con occhiali a culo di bottiglia e alle spalle una libreria di fumetti e Cd-rom.

Brani come Mob In The ‘Hood o The Harder They Fall non sono frutto di un compiacimento per la tradizione, rappresentano una resistenza fiera di un genere che ormai era consapevole di rappresentare un’alternativa a se stesso. Allora aveva un senso metterci un punto come facevano i Capricorn e quel punto è ancora fermo lì, tosto, nero e orgoglioso.

Dopo l’esordio, la band fece ancora meglio nel 1995 con Inferno, ma dalla Shark preferirono spostarsi alla T&T Records, divisione della Noise, e affiliata alla Sanctuary, seguendo proprio l’esempio di Elegy e Stratovarius. Il disco avrebbe spazzato via il sorriso dal volto di Gianni Della Cioppa, facendolo innamorare, ma non so abbia mai potuto o voluto ascoltarlo.

Più potenza, più cattiveria ma sempre queste liriche molto schiette, un approccio accattivante in equilibrio tra il passato perduto e gli scampoli successivi alla rivoluzione dei Metallica di Bob Rock. Solo i Rage di Peavy Wagner e i fratelli Efthiamiadis erano in grado, negli anni 90, di realizzare qualcosa di così nerboruto e seducente, classico e fresco, rude ma pieno di sfaccettature.

Recuperate i Capricorn!