Cercando di scoprire qualcosa sui misteriosi e dimenticati Honcho Overload, ho saputo molto sui The Hum perché due membri erano in entrambe le band. Nonostante i video sul tubo non mi incoraggiassero ad approfondire, c’era qualcosa nel sound e nell’attitudine di questi ex giovinastri problematici che mi diceva di provare a sentire un disco intero. E così ho scelto. non quello più celebre, You’d Prefer An Astronaut, ma il precedente, Electra 2000. Non so di preciso come abbia deciso di attaccare a morderli da lì, ma l’istinto mi ha premiato.
Electra 2000 è uno di quei dischi che negli anni 90, se l’avessi comprato e ascoltato, mi avrebbe fatto inorridire. E’ una roba talmente immersa in quel mood grunge-alt-shoagaze-pop rock + metal, che se lo prendete da un punto qualsiasi, il mondo si ricoprirà di quella lattescenza d cinema d’autore indie con uomini che ingoiano sperma e gay che parlano per ore davanti a uno specchio sull’essere gay. Nei primi anni 90 io amavo il metal anni 80, quindi immaginate come vivessi la heavy rotation di MTV.
Ero a dir poco insofferente davanti a cose come gli Smashing Pumpkin’ o gli Stone Temple Pilots. Non mi piacevano, erano brutti, sporchi e tecnicamente poco convincenti. Figurarsi The Hum, con quell’aria da supplenti fuori sede; io li avrei odiati per principio, considerandoli feccia modaiola da due soldi.
The Hum però non erano degli ambiziosi bricconi. Non lo sono mai stati. Vero, iniziarono con il punk e nei primi anni 90, dopo l’esplosione di Seattle, appesantirono e rallentarono il proprio stile, ma le cose da lì, iniziarono a crescere, anziché appiattirsi e morire. La band ha solo vissuto a pieno il proprio tempo, cosa che quasi nessun gruppo di oggi fa, proiettato all’indietro su questo o quel sotto-sotto-sotto-niente del genere.
Ogni brano è certamente una finestrella della stessa navetta, da cui sbirciare un mondo lontano, defunto, scoprendo di averlo ancora lì, a vista, ma senza l’intenzione di attraccarci di nuovo, perché pieno di zombi divoranti della nostalgia putridoria.
Electra 2000 sta agli anni 90 come Midnight Dynamte dei Kix sta agli 80. Non sono capolavori, ma nemmeno delle robe scadenti. Hanno tutt’ora un proprio perché e rappresentano capsule temporali molto potenti, almeno su di me. Il disco di cui vi parlo è del 1993. La band avrebbe poi avuto la sua momentanea fase di celebrità nel ’85, grazie a un brano, Stars, realizzato senza il minimo sospetto che fosse più speciale degli altri.
Howard Stern, il dj protagonista del film Private Parts (film che vi consiglio di recuperare) si invaghì del pezzo al punto da mandarlo in onda ripetutamente nella sua trasmissione radio. Gli piaceva in particolare l’inizio, quando voce e chitarra sono soli in un oceano di stelle dimenticate e sussurrano qualcosa all’orecchio divino, nella speranza che in quel grande silenzio spaziale, almeno lui “possa sentirli urlare”, come diceva la locandina di Alien.
La cotta di Stern per i The Hum fu uno dei tanti eventi che tra il 1994 e il 1995 aprirono progressivamente le porte della band al mainstream e al successo commerciale. Per farvela breve, i media come MTV, le radio nazionali e talk show notturni molto seguiti come quello di Conan, facevano una grande differenza sulla popolarità o l’insuccesso di qualcuno. Capirete che loro, nel giro di un anno, passarono dal vendere ventimila copie al venderne duecentocinquanta mila.
Ma proprio quando le cose si stavano facendo così interessanti per la RCA che li aveva sotto contratto, il gruppo preferì interrompere la propria ascesa commerciale, dedicarsi al riposo, alla famiglia e stare. Tornarono in scena con un nuovo album, quattro anni più tardi ma non riuscirono a piazzare un singolo in classifica, niente nuovo miracolo tipo Stars. Da lì, le cose rientrarono definitivamente nella buona routine autoriale di Electra 2000 e oggi dei The Hum non si ricorda quasi più nessuno.
Io vi ho detto che non li ho mai sentiti nominare. Probabilmente diranno poco anche a voi. Non stiamo parlando dei Counting Crows, gli Spin Doctor o i Babylon Zoo, con le loro sputtanatissime meteoritiche hit di successo sopravvissute al nome delle band che le incisero. The Hum restano The Hum, con o senza Stars e vi assicuro che il mistone rock, un po’ depresso e con lo sguardo sprofondato nelle tasche vuote della propria anima, può oggi risultare tutto sommato confortante e piacevole.
Se non altro perché c’è una buona qualità di scrittura, almeno quattro o cinque riff interessanti e sovente un bel tiro. Prendete Soundress o Winder, con quel groviglio di note sincopate che sembrano una ressa di corpi sudati che si schiantano l’uno sull’altro; oppure c’è qualche bel momento drammatico, tipo Shovel, con questi bei riffoni alla Deftones almeno tre anni prima dei Deftones. Ci ho trovato un po’ di Cure, Sonic Youth e tante altre grandi band da lunedì mattina piovoso di fine autunno.
Il mio pezzo preferito è senza dubbio Pewter, con questi arpeggi che arrancano su una lunga salita, la voce che borbotta strani propositi di conquista della realtà, ma poi arrivano le chitarre elettriche e come un vento sabbioso ci sospingono indietro, mandandoci gli occhi all’inferno e mozzandoci il fiato. In questa, come in molte altre canzoni dei The Hum, c’è una specie di resistenza, una battaglia interiore. Le parti distorte pesano, schiacciano. Non elevano lo spirito, planano sui nostri corpi come pesanti coperte zuppe di sangue. Oh merda…
So che le tematiche spesso più ricorrenti dei The Hum, riguardano lo spazio, le stelle, i pianeti, gli asteroidi, gli astronauti e cose così. Quando qualcuno l’ha domandato a Matt Talbott perché torni spesso a questi argomenti da NASA, lui ha risposto che era solo il suo modo di definire in parole un’atmosfera “spaziale” suggeritagli dalle melodie, dagli accordoni di chitarra e dall’incedere senza gravità di certe parti delle canzoni, come un cadavere che gira su se stesso in una vecchia nave spaziale russa alla deriva.
Potremmo parlare di Space Rock se questa definizione non riguardasse esclusivamente un genere sviluppatosi molti anni fa e incentrato quasi completamente su un gruppo come gli Hawkwind, con un certo stile di rock anni 70 morto e sepolto ma glacializzato nello spazio di cui tentarono e tentano ancora il canto.