Esiste più la cultura del moshpit?

Sono sempre stato affascinato dalle situazioni in cui una grande folla si trasforma in una specie di moloch terribile, pronto a distruggere tutto quanto. Dentro di essa potrebbero esserci le persone più buone e innocue di questo mondo, ma le dinamiche all’interno di una calca, come ha fatto notare nel suo voluminoso saggio Elias Canetti, Massa e potere, svuotano l’identità di un individuo e lo rendono massa insieme agli altri. Ciò che fa la massa è imprevedibile e spesso disastroso. Avete mai visto il finale del film Il giorno della locusta? Vi ricordate la scena finale di Mother di Aronofsky o lo stupro di Tra-la-là nel romanzo Ultima fermata Brooklin dello scrittore Hubert Shelby Jr? Ecco, questo tipo di situazione mi coinvolgono moltissimo e mi fanno pensare parecchio, tanto più che io non amo partecipare ai grossi eventi, non mi piace quando c’è parecchia gente intorno a me. Che siano concerti, partite di calcio o avventi da centro commerciale in periodi clou del dio-consumo, ho cercato istintivamente di evitare più che o potuto la fottutissima massa. Ma da fuori, al sicuro nel mio pertugio non mi perdo un episodio in cui tu diventi loro e loro sono Godzilla infuriato.

Potrei parlare del G8 di Genova o il massacro del concerto dei Pearl Jam, in tutti i casi c’è qualcosa di mostruoso e di ingiustificabile che lascia un segno profondo in chi l’ha vissuto e in chi l’ha visto succedere. Moshpit, il libro della Tsunami, la loro prima pubblicazione in assoluto, uscita nel 2008, parte proprio da questo; dalle nefandezze di Woodstock ’99. C’è un bellissimo documentario su Netflix che riporta fedelmente quanto accaduto e ve lo consiglio. Ricordo che avrei voluto scrivere un articolo proprio su di esso e per immergermi un po’ meglio nell’argomento, comprai il libro di Joe Ambrose.

Invece eccomi qui a scrivere del saggio sul Moshpit e non sul documentario. Va beh.

Il testo è inevitabilmente datato. Le cose sono un po’ cambiate dagli inizi del millennio. Il rock che nel 2001 aveva rialzato la testa, recuperando posizioni di classifica rilevanti grazie a Limp Bizkit, Korn, Deftones o Kid Rock, oggi sembra nuovamente in letargo o definitivamente abbattuto e lasciato a seppellirsi da solo in un vecchio cimitero di memorie.

Questi gruppi avevano una connessione profonda con la pratica del mosh nel pit. Ambrose riflette e analizza il fenomeno a tanti livelli. Parla della filosofia del pit, dell’epica, dell’idiozia e della sociologia del pit. Analizza i vari fenomeni, dalla violenza ai rapporti sessuali che, lo crediate o meno, avvengono nel cazzo di pit. Lui l’ha praticato per anni il moshing, è un veterano, ma lascia spazio nel libro a chi ci si è votato completamente, trasformandolo in una specie di stile esistenziale, almeno finché il fisico riesce a reggerne gli urti e lo stress.

Bisogna allenarsi parecchio e giocare d’astuzia se si vuole uscire vittoriosi dalla mischia carnivora. Il libro offre parecchi consigli su come affrontarla e su cosa non fare una volta lì in mezzo. Presenta personaggi curiosi, tragici, folli dediti a questa pratica e racconta i vari tipi di mosh correlati a determinate band. Prende in esame i concerti dei Sepultura prima e dopo l’uscita dal gruppo di Cavalera: il mosh gestito da Fred Durst dei Limp Bizkit come fosse un bazooka in mano a un ragazzino disfunzionale; e persino il moshing all’acqua di rose dei piccoli punk a un concerto dei Linkin Park.

Ambrose esprime giudizi che sono come entrate da wrestler sulle band che non gli piacciono e cerca di convincere il lettore dell’importanza che possono riguadagnare gruppi in apparenza trascurabili, se li si valuta solo sul piano della discografia in studio, ma che diventano molto importanti dall’ottica di chi vive il moshing come parte integrante della musica e il concerto dal vivo come la sola incarnazione possibile che si possa davvero condividere sulla pelle. Per esempio dedica interi campitoli agli inglesi One Minute Silence o agli irlandesi Dropkick Murphy e liquida i Pantera o i Metallica in poche righe e per nulla positive.

Il libro è piacevole e interessante. Quando finisce però è come se cessasse di esserci anche il fenomeno esaminato e raccontato in tutte le sue sfaccettature. Non ho idea se esista ancora il moshing e in quali contesti si sia sviluppato ultimamente, magari ai concerti K-pop lo fanno in qualche modo. Di sicuro i più grandi direttori d’orchestra del moshpit come Durst o Cavalera, sembrano essere caduti un po’ troppo in disgrazia per poter ancora provocare qualche carnaio ai festival. Ci vorrebbe un nuovo saggio che ci aggiorni sulla faccenda, perché almeno per me, se non fosse Ambrose a raccontarmela, non sarebbe mai neanche esistita.