Il ritorno dei Rockets – The Final Frontier (aka Tu vo’ fa’ l’americano)

Prima di cominciare ad analizzare questo disco mi sento di dover fare numerose premesse.

1 – sono un grandissimo fan del gruppo da tempo immemore (li ho vissuti in “diretta” ma comunque nella maniera in cui un bambino di 8 anni può farlo, comprando successivamente dischi come Another Future al day one e ovviamente recuperandomi tutto il resto della discografia quando ancora andavo alle medie!!

2 – non sono un talebano del periodo Silver per quanto rimanga ovviamente quello il termine di paragone principale per qualsiasi uscita successiva.

3 – ho acquistato la versione in vinile ma ho proceduto a più ascolti del disco in streaming su Apple Music dato che sull’LP mancano dei pezzi presenti però nel digitale e in CD

4 – non ho volutamente letto CHI ha composto COSA proprio per non farmi influenzare dal discorso “questa suona o non suona da Rockets perché l’ha scritta tizio invece che Caio”

Direi che come premesse bastano!!

Detto questo….The Final Frontier è davvero il miglior disco dei Rockets dopo Galaxy come affermato dal Mastermind Fabrice Quagliotti?!

Ma partiamo un attimo proprio da Galaxy, la vetta “commerciale” dei ns argentati (a mio parere non compositiva dato che io comunque preferisco Plasteroid ma è una lotta tra due masterpiece, per cui…).

Dopo il grande riscontro avuto, la band torna in studio per registrare il nuovo disco e se lo vede respingere dall’etichetta che (in un delirio di onnipotenza) dice ai Rockets cosa devono fare a livello stilistico giudicando il materiale non adeguato al mercato. Da lì in poi qualcosa si “spezza” sia perché il nuovo disco, che uscirà con il titolo di Pigreco 3,14, viene in pratica lasciato in mano ad altri musicisti e compositori, con un risultato che a mio parere è scarsissimo, sia perché la tensione generata dalla situazione non gioverà ai rapporti interni alla band. Ci sarà tempo per un altro buon disco in versione Silver (Atomic) e una svolta netta stilistica e d’immagine e di line-up con Imperception, poi negli anni tutto muterà tra lavori più o meno buoni e defezioni varie…

Oggi la band è saldamente guidata dal tastierista Quagliotti, affiancato da validi musicisti italiani e non (da citare il grande bassista Rosaire Riccobono)

Tutta sta filippica non è fine a se stessa in realtà perché, per tornare alla valutazione di The Final Frontier rispetto a Galaxy, aldilà dell’ovvio, visto che sono passati decenni e la formazione è diversa, a MIO parere è diverso totalmente l’approccio. E non potrebbe essere altrimenti, ma dato che il nome impresso sulla copertina è ROCKETS un po’ ne devo tenere conto.

Il disco si apre con Ride The Sky il cui agile riff mi ricorda molto Don’t Believe a Word dei Thin Lizzy, così come l’approccio ritmico.
Una bella partenza, tutto suona piuttosto carico ma arriva un primo “alert” che ritroverò successivamente in quasi ogni canzone. La voce di Kiarelli. Sono scelte stilistiche e io non le discuto in quanto tali ma a fronte di una base con un certo sound generale, la voce risulta “fuori”, troppo “ cruda” e davanti, in più mi sembra sempre che non spinga veramente fin dove potrebbe arrivare. Fantastici invece i cori del ritornello dal flavour molto anni 70.

Un approccio generale più rock con i vari “oh yeah” e “c’mon” che fanno tanto “America” per una canzone piacevole e molto ben arrangiata ma (per me) nulla più.

Si continua con Stand on the World che risulta più interessante e meno standard con un suono di basso superlativo e un cambio di ritmica nel ritornello azzeccato. Rimane il “punto” della voce che però nei registri bassi della strofa rende bene, così come con la doppiatura della voce del ritornello, mentre nel break pre-secondo ritornello, torna “fuori” in una maniera che non mi piace. Bello lo stacco con chitarra acustica e il finale a voce distorta; un classicone “rock” anche questa scelta. Il brano comunque è bello.

Abbiamo poi Flesh & Bones che proprio non reggo perché aldilà dei suoni “spaziali” degli arrangiamenti ha un approccio “alla Bon Jovi” nelle melodie vocali che non mi trasmette niente.

Passiamo oltre e andiamo a All 4 one. L’incipit di batteria e il giro di “simil sitar” mi prendono parecchio ma poi tutto si siede fino al minuto 2.20 in cui su un paio di accordi mi viene da cantare “Jesus christ Superstar”! Così come era cominciato il brano poi finisce senza altri sussulti.

Ballade pour là terre mi ispira sin dal titolo richiamandomi ovviamente Ballade su Mars anche se poi le due canzoni in realtà non c’azzeccano l’una con l’altra. Qui abbiamo un atmosferico strumentale, malinconico e ben fatto, con un solismo non banale ma anzi, realmente cucito su misura per il mood del pezzo.

La chitarra di Break The Silence propone un riff incalzante e il ritmo generale è bello carico. Tutto fila fino al ritornello dove una bella melodia, con una variazione che non ti aspetti, non trova secondo me un gran supporto da Kiarelli che sembra sempre con il freno a mano nell’arrivare a certe note.

Arriviamo a Cosmic Castaway che vede un featuring di Alain Maratrat (il chitarrista originale) e qui molto cambia. Io non so se sia sempre Kiarelli a cantare, la voce non sembra proprio la sua ma non vorrei dire castronerie, e chi abbia composto la canzone a livello musicale e di linea vocale, ma qui CI SIAMO!!! Qui c’è il dramma, qui c’è lo spazio sconfinato in cui i Silver viaggiavano dentro cubi di vetro (ghiaccio) sulla copertina di Plasteroid! Qui ritrovo quella “decadenza”, quello spirito che non è mai stato rock in senso stretto, non è mai stato “allegro” o commercialmente melodico. A mio parere è la vetta del disco e complimenti a chi l’ha scritta, cantata e arrangiata!

Un granitico basso apre Cyber love (o Turbo Lover dei Judas Priest?!) che aldilà di ricordare appunto la canzone che ho citato propone uno dei riff “spezzati” che ho sempre adorato nei nostri (tipo quello di Future Game). Sul ritornello poi ci puoi cantare Relight my Fire dei Take That ma questa è una cosa che probabilmente ho sentito solo io!

Siamo a Death and Resurrection e qui mi cade una lacrimuccia perché ci ritrovo un po’ della song Wake Up (nella strofa) da Another future, il mio primo acquisto dei Rockets, con un richiamo (sicuramente voluto) al riff e al suono della chitarra di Space Rock. Ci sta, un pezzo “moderno” e “Rockets”.

A seguire HD1 che è una strumentale molto “cinematica”. In certi tratti mi riporta a certe cose dei Jethro Tull di Thick As a brick e A (nell’uso del pianoforte). Bella e coinvolgente!

Ripartiamo con Punk From Mars che fortunatamente non è un richiamo a Kids From Mars di Wonderland ma aldilà dei grandi suoni e dell’ arrangiamento ha un’ approccio alla Prozac + (probabilmente voluto, non nello specifico ai Prozac + ma ad un certo pop punk- vedi il titolo) che mi lascia un po’ così..

Si finisce con Epilogue divisa in tre parti di cui la prima cantata. A parte il solito discorso della voce tutto molto bello a livello strumentale, però sono arrivato alla fine un po’ stanco.

Insomma: tirando le somme mi sento di fare delle considerazioni. Il titolo “Tu vo’ fa’ l’americano” non è stato messo casualmente. Come detto, questo è l’album rock dei Rockets ma non lo considero necessariamente un pregio perché ci sento molta “America”, con tutti i limiti di rifarsi a un modello che neppure dalla madre patria dice più molto se non con i soliti grandi nomi.

Mi sta bene il riff, il ritornello che cerca di essere catchy ma è tutto un po’ l’abc del rock e qui con quel marchio sulla copertina dovremmo cercare di volare un po’ “più alti”.

Cosa che tra l’altro la band riesce a fare EGREGIAMENTE in alcuni episodi, ridonando quel pathos che ha sempre avvolto la musica dei Rockets anche quando sfornavano il riff semplice ma efficacissimo di Galactica.

Da grande fan della band (sono uno di quelli che ha pure apprezzato molto l’esperimento di Time Machine ) sono sempre felice quando i Rockets tornano in pista e sarò sicuramente a vederli live a Bologna o Schio, ma per questo The Final Frontier mi sento di esprimere un certo rammarico.

Un’ultima citazione per la copertina veramente bella!

(Demian De Saba)