I Ritmo Tribale e il rock italiano che non fu mai

Quando i Ritmo Tribale uscirono per una major con il disco Mantra (PolyGram), molti scommisero su di loro per il futuro del rock italiano. Era il 1994 e io li conobbi grazie al videoclip di Sogna, che scopro solo ora essere stato girato a Cuba. Mi piaceva il mistone di hard rock, punk, metal e rock italiano che il gruppo infilava nella propria zuppa, perché anche per gli aspetti più “pesi”, avvertivo che ci sapevano fare davvero. Non si sentivano, con certe sonorità più vicine alla musica heavy, a disagio come pivellini ad armeggiare con i bazooka. C’era qualcuno lì in mezzo che sapeva bene chi fossero i Testament o i Metallica e avrebbe saputo masticare bene il genere quanto gli Extrema di allora.

Sicuramente non tutti amavano le cose pesanti all’interno della band. I Ritmo Tribale, anche se partirono negli anni 80 con l’hardcore, o almeno così ho letto, raggiunsero la notorietà, con alcuni smottamenti di formazione, a metà anni 90, in un contesto in cui l’heavy metal si era disintegrato in tanti pezzetti, che come tante schegge di cioccolato, era andato a condire le più svariate impastatrici di biscotti.

Tené, chi ve la tira fuori una metafora dolciaria sull’evoluzione del genere?

E loro, i “tribali”, erano come le tante band fenomenali che arrivavano dall’America in quel periodo. Sì, d’accordo. Avevamo già i Litfiba thrash metal di Terremoto (sono ironico); i meno catalogabili Timoria; i rockerz Negrita; il Vasco Rossi alt-rock di Gli spari sopra (che è un discone assoluto per il povero contesto nostrano); e poi gli Afterhours di Germi, album che sarebbe uscito di lì a poco più vari altri movimenti sospetti nel sottobosco alternativo; ma i Ritmo Tribale erano la traduzione più accettabile di ciò che stava accadendo all’estero e anche io speravo che fossero l’inizio di un nuovo livello generale.

Loro trasmettevano, nella musica e nelle liriche, un mix di speranza e di rabbia, talvolta un po’ ermetico ma sempre molto pugnace nelle interpretazioni di quel folle di Edda, frontman ormai dimenticato, se non dal pubblico de Le invasioni barbariche o di Verissimo (il muratore che una volta era un rocker famoso!!!”!21!).

Riascoltare oggi Mantra mi suscita emozioni contrastanti. Da una parte mi lascio cadere in una fossa di rimpianti e di luoghi comuni sul rock italiano; dall’altra mi accorgo che, per quanto fossero in gamba, derivavano da un modello straniero e da lì non scappavano. C’erano dei baluginii del cantautorato: il rifacimento di Il cielo è sempre più blu basta e avanza ad ammettere un debito con il passato nazionale e mostra una gran capacità di reinvenzione e adattamento alle moderne angosce generazionali dei vecchi exploit creativi di una controcultura ribollita nei centri sociali.

E poi in Mantra c’è una foga ribelle che rimanda agli Area, a Finardi e anche alle traveggole esotiche dei Litfiba prima maniera. Il resto però è una comune di stili e influenze che in quel periodo in fondo andava di moda coniugare. Era il momento in cui le cose andavano così, più in USA che da noi. C’era la smania di essere funk e psycheloidi, di evadere e di rinascere  a se stessi, per quello che può voler dire. I Ritmo si muovevano alla grande in un contesto mortifero, dominato dalle schitarrate di Eros Ramazzotti, la crescita poetica di Jovanotti, paragonato da Fernanda Pivano a Kerouac o giù di lì; non dimentichiamo poi le trasposizioni scolastiche di Fiorello (Carducci in salsa dance mi uccideva dentro ogni giorno). Cobain si sarebbe sparato anche per questa roba, se l’avesse saputo. Forse non è un caso che tentò il suicidio proprio a Roma, la volta che lo recuperano in extremis.

I Ritmo Tribale ebbero la capacità di giocare alla pari col rock di Seattle, almeno durante il primo tempo. Sogna è ancora oggi la parte eccellente di Mantra. Quel brano, relegato dalla critica a un buon adattamento italiano dei Red Hot Chili Peppers e dei Pearl Jam, è una gran bella canzone e punto, funziona pure se non ci vengono in mente i modelli “scopiazzati”. Ha un ritornello rock italiano meraviglioso.

Graditissima inoltre la citazione di Requiem dei Killing Joke all’inizio di Antimateria.