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Salto nel vuoto – Il finale industrial degli Shotgun Messiah

Gli Shotgun Messiah sono stati guardati con sospetto già dal secondo disco. Prima erano una simpatica swedish rock band di nome Easy Action. In America si calarono in un contesto glam già abbastanza confacente al loro stile, però ritennero poco efficace il nome e lo cambiarono. La musica rimase la stessa: Welcome To Bop City, uscito in patria con il vecchio nome, fu ripubblicato paro paro con Shotgun Messiah a far da nome e da titolo.

Dal glam metal europeo presto si convertirono allo sleaze stile Guns N Roses, anche perché il monicker adesso era più carico di “malintenzione”, di aggressività e di inquietudine. Second Coming risultò quindi più duro e cattivo, ma ancora nei parametri accettabili del glam metal, che stava tutto un po’ diventando più oscuro nei primi anni 90. Le cose divennero decisamente “inaccettabili” con l’industrial alla Ministry di Violent New Breed.

Al pubblico amante delle cose heavy, questo saltabeccare da un sotto-filone all’altro puzza sempre di opportunismo. Non si considerano i risultati o le esigenze creative; solo la “coerenza”. E nel caso della band svedese si trattò di tre grandi album troppo differenti tra loro per risultare credibili.

Bisogna riconoscere, e io lo faccio senza sforzo, che agli Shotgun, qualsiasi cosa decidessero di fare gli veniva bene. Presi singolarmente, i tre album suonano ancora ottimi, ma quel pubblico non poteva accettare che appartenessero alla medesima band. Probabilmente è questo passaggio disinvolto attraverso i generi che li rendeva sempre così brillanti nella spudoratezza, ma che ne decretò la morte commerciale. Del resto, in tutti e tre i casi, per le etichette significò ricominciare a venderli da zero perché il loro spostarsi lasciava indietro ogni volta il pubblico di riferimento e bisognava portarli verso qualche altro uditorio consono alle mutazioni.

Non parlo da illuminato. Anche io, dopo aver adorato Second Coming, rimasi molto deluso da Violent New Breed. Le mie orecchie non erano pronte per quel passaggio e non riuscii neanche a comprendere che sotto quella patina modernista c’era gran buona musica. Mi apparì un album rock and roll senza idee, piallato dalla mesa ritmica robotica dei campionatori. Lo reputai un peccato e passai ad altro. Mal sopportai il cambiamento, anche perché era effettivamente diventata una moda quella di sterzare verso generi più “moderni” da parte di molte band heavy melodiche.

Oggi mi è chiarissimo che Violent New Breed non era solo un grande album, ma la continuazione ideale di quanto fatto nel precedente lavoro dal gruppo. Al tempo gli elementi elettronici mi sembravano così alienti e intollerabili in un contesto hard rock e metal. Oggi invece quella superficiale sinteticità robotica si  scioglie come neve, lasciando un mucchio di ossa e pelle mummificata sotto. Gli stessi rottami carnali che trovo in Second Coming.

Come nel mio caso, Violent New Breed fu considerato generalmente come un occasionale tentativo di rimanere a galla sfruttando un trend. Nessuno gli diede una possibilità. Solo il Fuzz se ne invaghì fino al delirio.

E aveva ragione.

Gli Shotgun usarono con genuino slancio le nuove attrezzature elettroniche e lo fecero con autorevolezza, al punto da portarsi molto avanti rispetto a certe nuove mode industrial metal di inizio anni 90, perché sì, la gestione generale del comparto tecnologico avanzato e dei riff cazzuti era già stata ampiamente coordinata da Jurgensen e Barker dei Ministry, ma a calare l’apocalisse in un contesto alla Motley Crue dei primi anni 80 non l’avevano pensata nemmeno i Motley Crue. E infatti anche loro provarono a farlo, ma solo cinque anni dopo, con Generation Swine. Il risultato non regge il confronto con Violent New Breed, per quel che mi riguarda!

Nonostante il disco sia un ottimo esempio delle possibilità che la commistione tra sleaze e industrial potessero produrre, la cosa non ha mai attecchito in ambito metal, probabilmente per la ragione di cui sopra: se inizi con un filone non puoi cambiare più, nemmeno se ti rifai un’identità e crei grande musica in virtù di quel cambiamento, per quanto traumatico.

Gli Shotgun Messiah pensarono pure di cambiare nome, ma non gli sembrava giusto farlo. Si illusero che il pubblico li avrebbe alla fine capiti e seguiti. Andarono dritti per la loro strada, ma quando si voltarono erano soli.

Ricordo un’intervista promozionale su Metal Shock! a Tim Sköld. Era spaparanzato sotto il sole della sempre più assurda e iper-criminale Los Angeles mentre sentenziava al telefono con il solito ragazzetto universitario assediato nel centro di Roma. Gli diceva che il 1994 cominciava secondo i migliori auspici. Tim aveva la classica attitudine alla “vaffanculo tutti e viva la creatività”. Era ormai tipica. Provate a cercare qualcuno oggi nel giro metal che si rivolga con tanta insofferenza al solo pubblico pronto a spendere qualche soldo per lui; qualcuno che cianci di evoluzione e integrità artistica, del nuovo che avanza, a discapito di ciò che è o non è abbastanza metal per poter sopravvivere.

Sorprende questo interesse di un certo numero di glamster storici per l’elettronica, all’inizio dei 90s. Oltre a Nikki Sixx e Tommy Lee, pure Taime Downe dei Faster Pussycat si prese una gran pesta per i campionatori. Tra tutti loro Tim Skold era davvero il più ispirato.