Bogdan Makarov – Oltre il discreto (dati i tempi) accontentiamoci

Devo ringraziare mio nipote Alan: nel 2014 ero in visita a casa di suo padre (mio figlio) e il “piccolo” (anche se era già alto) era entusiasta di farmi vedere un videogioco per motivi musicali: “Nonno, questo potrebbe piacerti…!”
Mi fece vedere qualcosa d’impressionante: un videogioco d’azione, lui lo definì in un modo che posso tradurre “sparatutto in prima persona ambientato in un mondo aperto”…
e nel quale in primo piano c’era il braccio del video di Turn it up the radio dei mitici Autograph immerso in un’atmosfera che saccheggiava allegramente da gran parte del cinema di fantascienza del periodo 1981-1994, un sogno a occhi aperti in salsa retrofuturista che prendeva a pugni la pseudoestetica attuale.

Come al solito, il mio contentissimo nipote (ogni volta che riesce a impressionarmi) s’esaltò quando dissi che la colonna sonora non era niente male e ne avrei acquistato il disco. Fu così che avvenne il mio primo impatto con la Synthwave, in quel caso i Power Glove, un duo australiano.

Esplorai in lungo e in largo la scena, che proprio allora toccava il suo apice dopo una partenza in sordina nel 2008, ad opera di Mitch Malloy. Vicenda strana quella di questa variante del Synthpop: come accade negli ultimi decenni, c’è una miriade sconsiderata di progetti con una globale scarsa qualità, in cui sono nascoste delle gemme, dalle origini colorate dell’immaginario della grafica pubblicitaria del decennio maledetto.

Questa introduzione segnala altre cose: si tratta di una musica che ha finito per influenzare il suo stesso ispiratore, il grande John Carpenter, cosa notevole;
si presta (con parsimonia) a commistioni con l’AOR, in cui finora il miglior risultato è il disco d’esordio dei LeBrock, recensito su AORArchivia da Giuseppe De Felice in modo ficcante; e infine, può avere rapporti interessanti col Metal. E per dimostrare ciò, bisogna fare un salto in Russia.

Bogdan Makarov è musicista e produttore che arriva dal Black Metal, genere da me poco bazzicato ma non sconosciuto: per i puristi, ritengo apici della prima ondata Hammer horror dei Warfare e per la seconda At the heart of winter degli Immortal, oltre alle trame più particolari sviluppate in seguito dai Borknagar; partendo da ciò, la mia conoscenza della miriade di gruppi non è superficiale, ma sviluppata con ascolti mirati suggeriti da conoscitori del genere durante i decenni.

Vedendo le direzioni della terza ondata, ardite alcune ma banali la gran parte, le possibilità di rintracciare qualcosa di valido è difficile. Il nostro artista in questione non si discosta da questa linea generale: ha esordito nel 2011 e fra pseudonimi, partecipazioni e militanze varie, ha prodotto troppa musica. Entusiasmo?

Prolificità incontrollata?

Calcolo cinico?

Quella di incidere una miriade di dischi e pubblicarla, era una cosa che già ai tempi geni come Edgar Froese, Frank Zappa, Klaus Schulze o Miles Davis facevano e non era sempre sinonimo di grande qualità, figuriamoci dopo cinquant’anni, come si fa notare sulle nostre pagine;
tant’è che il nostro Makarov ha da offrire un sacco di spunti, mancando però la qualità sonora d’una produzione adeguata, come spesso succede oggi a chi deve fare di necessità virtù.

Con l’arrivo del nuovo decennio la sua esplosività è diminuita e ha consegnato alle stampe due buoni dischi che rappresentano lo stato dell’arte del suo Metallo sì nero, ma vivificato da luci d’intensa originalità. Punto di svolta è il disco del progetto Skyforest, A new dawn (titolo quantomeno appropriato), che pubblicò nel 2020: aiutato da due musicisti inglesi, Michael Rumple e Clare Webster, Makarov suona e produce un black melodico, arioso ed efficace, dalle sottili diramazioni in direzione dei Cocteau twins mediate dai più nordici Bel canto, ma privo della componente danzereccia dei norvegesi.

Un disco che molti definiscono bucolico e pastorale, ma che ha un sincero slancio verso la Natura, un afflato misticheggiante che traspare già da una copertina molto evocativa della musica. Il nostro non è monotematico: come rovescio della medaglia ha nel 2023 la migliore uscita del suo progetto Black-Synthwave, Abstract void.

Partita nel 2017, la stuzzicante fusione di quel mondo retrofuturista con il black non era stata accompagnata da risultati altrettanto degni, ma in questo Forever del 2023, in cui Makarov suona, canta, programma, registra e produce, ottiene risultati altrettanto buoni della controparte “neovirgiliana” Skyforest.

Qui il discorso si fa più strutturato: un progetto dalla maggiore irruenza ma con linee melodiche geniali e accattivanti, che cerca di dare nuova vita ad un Black che appare in deciso affanno.

Sicuramente una sezione ritmica vera avrebbe giovato, perché il lavoro di chitarre e sintetizzatori va oltre il notevole, dove Makarov eccelle. Il suono fa meraviglie con i pochi mezzi a disposizione, si può facilmente immaginare cos’avrebbe ottenuto con i soldi dell’industria.

I titoli del disco sono veramente coerenti con la musica, segno di lungo pensiero e immedesimazione, oltre che autoanalisi musicale. In the dawn comincia con una sequenza di sfavillanti suoni synth pop su cui s’innesta un’interessante ritmica Black mediata dal Doom, mentre lo scream diventa un’altra linea d’accompagnamento, in sordina per non comprimere l’armonia di tastiere e chitarre.

Il tono di questo breve disco è così: forse non geniale ma efficace, cosparso d’una scienza del melodismo da far invidia ai Pet shop boys. Forever prende invece la strada della velocità, sempre con un suono melodico e sottilmente malinconico.

Lost in the night sky ha un inizio quasi dance finché crea un ipotetico ponte fra il progetto morto troppo presto degli I e una dimensione elettronica dai suoni epici e coinvolgenti. Broken oscilla fra mid e uptempo quasi danzando, Artificial emotions traccia un cupo e suggestivo dialogo fra più sonorità:
domina l’influenza dei Fear factory, la seconda parte si segnala per dimensioni che accorpano l’ambient alla velocità del black e il tutto termina in un rallentamento che nobilita del Metalcore. Recolection of loss prende il freddo a ridondante AOR scandinavo e lo innesta con efficacia nel linguaggio fin qui mostrato.

Artista da seguire con attenzione, Bogdan Makarov ha ancora molto spazio per migliorare.
La sua proposta è accattivante ma non attrae un gran seguito, chissà che il futuro porti un raffinamento e un’evoluzione degna di essere inserita negli annali del Metal. Per ora, il risultato è oltre il discreto, accontentiamoci.

(Tony Paul Bevan Rossi)