The Hum – Inlet è un capolavoro inatteso

Non so voi ma io ho le mie regole. E solo quando mi accorgo di averle smetto immediatamente di seguirle. Le regole sono utili, per carità. Il nostro mondo si basa su di esse per andare avanti. Non facciamo altro che rispettarle o trasgredirle, spendendo gran parte della nostra energia a saltabeccare attorno a questo asse morale. Io diffido da esse perché credo che abbiano un limite enorme. Sono rigide, mentre la realtà che vorremmo affrontare secondo le regole, è mutevole come il mare. Le regole sono la piccola imbarcazione che solca l’oceano, se vogliamo buttarla sul figurato.

Ma le regole sono insite in noi. Ne fabbrichiamo e includiamo di continuo al nostro interno. Se non ce ne rendiamo conto le rispettiamo meglio. Sto introducendo il disco dei The Hum, Inlet con questo discorso sulle regole, perché mi sono accorto di averne avuta una che mi ha impedito di ascoltarlo fin qui. Anzi, io mi sono impedito di ascoltarlo prima di adesso. La regola era che le band con un passato discografico, quando tornano producono solo dischi innocui, spompati e trascurabili. Lo so che è discutibile, ma in profondità io la pensavo così, senza accorgermene. Quindi se un gruppo fa una reunion a dodici o vent’anni dall’ultimo disco, senza nemmeno pensarci, non me ne interesso mai.

Vietato ascoltare i dischi reunion che distino troppo dal cuore storico della creatività di una band. Ecco la regola.

Non pensavo di averla e di rispettarla, ma così è stato per anni. Ed è stupida, come tutte le regole. Potrete farmi dozzine di esempi che dimostrino quanto sia scema. Persino io potrei.

Lo è anche se non mi sciorinate titoli favolosi di gruppi storici tornati in giro negli ultimi tempi. So che è stupida questa regola perché, come dicevo è rigida, mentre il mondo è terribilmente vario e incontrollabile. E per questo è meraviglioso, cazzo. Ci aggiungo il cazzo ma potrei metterci molti altri organi, se vi sentite esclusi. Basta domandarmelo.

La regola è stupida perché Inlet dei The Hum, di cui ho scritto pochi mesi fa a proposito del loro secondo album Electra 2000, è la cosa migliore che abbiano mai fatto. L’hanno realizzato a oltre vent’anni di distanza dal loro ultimo disco e quello lì, Downward Is Heavenward, fu un atterraggio ben riuscito ma pur sempre un fottuto atterraggio dalle nuvole e i sogni spaziali del precedente, You’d Prefer an Astronaut. Stiamo parlando della seconda metà degli anni 90.

Inlet è uscito nel 2020 ma non ha avuto una gran pubblicità. Poi un giorno, mentre ascoltavo i Truly su Spotify, alla fine di un loro disco l’algoritmo mi ha proposto Step Into You e quel riff mi ha costretto a fermare qualsiasi cosa stessi facendo per leggere di chi fosse la canzone. Ho pensato ai Blue Oyster Cult prodotti dai Voivod o qualcosa del genere.

Ho ascoltato l’intero album da cui veniva quel pezzo e bam, ne sono rimasto così avvinto da costringermi non solo a riesplorare l’intero percorso dei The Hum, ma ho dedicato un’ora ogni giorno a Inlet per circa due settimane. Non so voi quanto restiate su un disco, ma per me di questi tempi è un record.

E ora la parte più difficili. Dopo i proclami, dovrò spiegarvi come mai Inlet mi piaccia così tanto. Se amate i lavori precedenti della band forse lo troverete troppo cupo e pesante, e questa è una delle ragioni che me lo fanno amare così tanto. The Hun non sono mai stati tanto heavy. Basta prendere il riffone di The Summoning, per credermi; è una roba degna dei Black Sabbath di The Devil You Know (non li chiamerò mai Heaven & Hell).

Tutte le canzoni sono grevi, plumbee, esattamente come la copertina dell’album stesso. Il suono è come una brezza che vi aggredisce mani e viso quando uscite a prendere la legna per il caminetto, in una serata di merda. Sopra di voi, c’è la sorniona indifferenza del cielo notturno. Allora, vi sorprendete a fantasticare, con un ciocco di faggio tra le mani, di essere innamorati follemente di una donna, ma siete astronauti e ve ne state nello spazio in missione.

Nonostante l’infinito vi assedi ovunque guardiate, tra l’oscurità divina e pezzi di vecchi missili che schizzano ovunque intorno a voi, lo stesso pensate a lei. E vi domandate se sia possibile almeno lì, dimenticare qualcuno. C’è chi crede che una gita nella via lattea sia la cosa migliore per ridimensionare un amore finito male, ma non ne siete così sicuri. Ecco di cosa vi parlo quando parlo di Inlet dei The Hum.

The Hum sono esattamente come li abbiamo lasciati, almeno nel comparto lirico. I testi rimangono un mix di fantascienza e romanzo d’amore adolescenziale; cosa che adoro. Le musiche però non sono più così acidule e alternative come negli anni 90. Non stiamo ascoltando quattro non-giovani che tentano di conquistare un cantuccio sul trono lasciato vuoto da Kurt Cobain. C’è un cuore invecchiato che pesa in mezzo a quelle chitarre e si inscurisce e inspessisce a ogni giro di accordi, a ogni slancio nella mota atmosferica priva di gravità, fluttuiamo in un cannolo di bottoni e schermi, circondati da foto di un uomo e una donna, da qualche parte negli anni 90.

Questo è metal, T.S. Eliot della La terra desolata riscritto da Jeff VanderMeer (l’autore di Annihilation, per capirsi), Inlet è doom, space-prog. Ascoltate la conclusiva Shapeshifter e ditemi se alla fine del brano siete ancora sullo stesso pianeta. E non dico doom e prog perché quel pezzo dura 8 minuti e le liriche sono strofe di poesia oggettivale. In The Den arriva a 9 e lo sguardo è ancora più freddo e disperato. Che poi ad ascoltarla la prima volta, senza leggere quanto dura, pare un quattro quarti da far uscire come singolo.

C’è un allungo generale del minutaggio rispetto alle vecchie cose della band, in Inlet, ma è semplicemente il tempo che ci vuole per dire quello che The Hum sono tornati a dirci. E c’è la maturità di un gruppo che non sembra aver mai smesso di esserci, da qualche parte della sidero-sfera.