Ogni libro ha una storia. Intendo in quanto oggetto. Questo di cui sto per scrivere, lo trovai su una bancarella di libri usati in occasione di un mercatino natalizio allestito dentro un grosso parcheggio a pagamento. Usare un parcheggio per vendere cose durante le feste non credo sia stata una grande idea, ma andiamo oltre. Ne avevo già sentito parlare e lo acquistai per tremila lire. Qualche anno prima l’avevano pubblicizzato su un Almanacco della paura di Dylan Dog. Parlo di pubblicità e non di recensione perché l’autore della sezione dedicata alla letteratura se la cavò in poche righe, raccomandandolo e sintetizzando con un perfetto slogan di lancio le motivazioni che avrebbero dovuto spingere noi lettori di narrativa horror a farlo nostro: sarebbe piaciuto da impazzire a Edgar Allan Poe.
L’autore poi aveva questo nome complicatissimo per qualsiasi posto dell’Occidente che non sia l’Europa dell’Est: Andrzej Zaniewski. La Polonia artistica, quella cinematografica, incuteva soggezione a un lettore di tascabili horror come me. Avevo assaggiato l’alta letteratura (Tolstoj, Dostoevskij, Céline, Hubert Shelby Jr., Sartre, Faulkner) scoprendo che in fondo era piena di incesti, stupri e omicidi come la robaccia splatterpunk di cui andavo ghiotto, ma scritta meglio.
E quindi un romanzo come questo, intitolato Memorie di un ratto, di un autore polacco, immaginai sarebbe stato più vicino ai libri dei grandi autori come Henry James o e non a Christopher Fowler, Dan Simmons o Shaun Hutson e avrei dovuto faticare per leggerlo.
Così lo portai a casa, contento di averlo preso (perché Poe avrebbe approvato la scelta) e lo lasciai lì come uno strumento per fare palestra. Nel corso degli oltre vent’anni passati prima di leggerlo, mi è capitato di spolverarlo, sorreggerlo qualche secondo e di rimetterlo al suo posto o spostarlo in una nuova disposizione della mia biblioteca. L’ho anche traslocato in diversi appartamenti con altre centinaia di libri.
Ho sempre pensato che non era ancora il momento di aprirlo e forse, come per tanti altri volumi che ho da secoli in casa, sarei morto prima di leggerlo, ma un mese fa, guardando in giro sullo scaffale in cerca di qualcosa che fosse adatto al mio umore, ho capito che finalmente era il suo momento.
Tralasciamo come mai ad aprile 20215, io abbia raggiunto la congiunzione mentale ed emotiva per affrontare una biografia di un ratto, posso dirvi che non sbagliavo e che di solito così è per tutti i libri. Un giorno, dopo tanto tempo, tocca a quell e solo a quello di essere letto, da questo e solo questo lettore, cioé me.
Ho fatto alcune ricerche su internet scoprendo che il signor Andrzej Zaniewski è ancora vivo ed è famoso principalmente come poeta. Ha pubblicato un sacco di libri, anche in prosa, tra cui, Szczur, che è appunto Memorie di un ratto.
Questo libro risale alla fine degli anni 70, per quanto l’autore lo abbia iniziato a concepire decenni prima, coltivando in modo assiduo l’interesse per la figura del ratto e scoprendo che nel dopoguerra non era ancora un animale così studiato e documentato.
Ha scritto il libro portandolo a termine, più o meno quando sono venuto al mondo io, tra il 1978 e il 1979.
Sia in America che in Italia però, Szcur, è stato tradotto e pubblicato solo negli anni 90.
Qui da noi ci ha pensato Longanesi. Non credo abbia venduto molto. Non è più in commercio e non esistono siti in italiano che abbiano dedicato un articolo a Zaniewski e al suo libro.
Se ne parla su qualche forum inglese e non in termini molto lusinghieri.
Prima di leggere Memorie di un ratto io stavo perdendo il mio tempo con un romanzo di un altro autore che ebbe una certa fortuna negli anni 90. L’ho interrotto perché dopo quasi quarant’anni di narrativa commerciale, ho sviluppato una specie di allergia a tutti quei meccanismi sentimentali che sono utilizzati dagli scrittori di best-seller.
Gli stessi scheletri narrativi che usano nelle serie televisive, nei film e in qualsiasi cosa preveda una storia più lunga di dieci pagine. Esempio: lui incontra lei, all’inizio i due litigano ma sono costretti a indagare assieme il mistero e poi via via capiscono di avere sviluppato un legame profondo e quindi scoprono di amarsi e quando la storia finisce li lasciamo mano nella mano. Ecco, non reggo più questo tipo di canovacci.
La letteratura ne è talmente piena che mi impediscono di finire una storia. Un altro scheletro è quello del giovane con problemi sociali ma che ha un dono speciale: è chiamato ad affrontare una grave minaccia, solo lui può sconfiggerla eccetera eccetera. Non ne posso più. Per questo come lettore ormai preferisco i saggi e tollero solo i romanzi che vanno contro le convenzioni, o i racconti brevi dove non c’è tempo di sviluppare grandi amori o cammini dell’eroe o viaggi odisseici. Le narrative mi hanno stufato.
Ora, leggendo le critiche a Memorie di un ratto, ho capito che era decisamente il libro adatto a me. I lettori lamentavano l’assenza di una trama con il genere di sviluppi in stile Pixar o Disney, vale a dire il genere di eventi consecutivi che si aspetterebbero da uno spunto così “infantile” come “un romanzo con un animale protagonista”. Per loro dovrebbe essere una roba tipo Willie e il vagabondo o La gang del bosco.
Ma così non è. E non siamo neanche dalle parti di Richard Adams, per quanto ammiri molto le sue storie su conigli in cerca di colline e cani della peste. Questa non è, come ha scritto un tipo molto perspicace, la vicenda di un ratto di nome Harvey che fa amicizia con lo scoiattolo Ciccio e la rattina Berenice e insieme affrontano i cattivoni della multinazionale che vogliono radere al suolo il vecchio ospizio in cui vivono ospiti da secoli assieme a dei poveri vecchietti che finiranno sulla strada.
Non c’è niente del genere.
Questa è la storia di un ratto come potrebbe essere davvero un ratto in questo mondo nel suo tipico ciclo esistenziale. Nasce, cresce, scopa, uccide, combatte, si sposta, fugge, finisce in una trappola, scappa, scopa, caga su una trappola, si sposta e un giorno si scopre vecchio e schiatta.
E allora, direte, sai che palle.
In effetti, dopo cinquanta pagine, i lettori scontenti, si sono arresi a questa inevitabile ripetitività di superficie e non hanno seguitato a leggerlo, ma credetemi, la monotonia è solo apparente.
Certo, la vita di un ratto è votata alla sopravvivenza, dominata dalla paura e dal bisogno incessante di mangiare, sgranocchiare, esplorare, fottere e cavarsela, ma se lo si legge con attenzione, accadono un sacco di cose agli uomini mentre questo animaletto tira avanti nel suo peregrinare tra fogne e cantine, navi e catapecchie abbandonate. Basta sforzarsi di immaginare e di intuire, due attività che ormai sono poco praticate da chi legge, come da chi guarda.
Nella sua bella postfazione, lo stesso autore ci fa notare che i ratti, tra tutti gli animali domestici, sono coloro che vivono al nostro fianco in modo più assiduo. Senza di noi, con le nostre case, palazzi, cantine e la mania di costruire ambienti protettivi e confortevoli, sarebbero ancora quelle creature misere che annaspavano nella taiga, prede facili di rapaci e di altri animali.
Grazie alla civilizzazione dell’uomo, hanno potuto prosperare e continuano a farlo finché noi lo faremo. Vivono letteralmente sotto i nostri piedi, coabitano con noi, nelle nostre case e assistono a tutto ciò che ci succede: guerre, amori, tragedie, lieti eventi. Non ci piace pensare a una cosa del genere e non gli dedichiamo molto tempo. Quando vediamo un ratto nei paraggi di dove viviamo, nella maggior parte di noi, avviene un rigetto, talvolta furioso o isterico. Cerchiamo subito di espugnarli, di annientarli, ma se sapessimo quanti sono e quanto sono legati a noi, non dico che ci rinunceremmo, ma forse capiremmo come mai, pur considerandoli un grave problema, visto che ci portano malattie e fanno danni alla casa, preferiamo ignorarli anziché tentare di sterminarli tutti.
C’è l’idea che un domani ci sostituiranno perché, a quanto pare, i ratti possono vivere su questa terra in condizioni disastrate da un assalto atomico, ma la verità è che hanno bisogno degli uomini per andare avanti. Basta guardare quanto la vita diventi dura per il protagonista del libro di Zaniewski, quando nel breve viaggio esistenziale ha la sfortuna di attraversare una guerra.
Fatica a trovare cibo, teme le bombe, scappa dalle città rese insicure dagli assalti degli arei e dei carrarmati e rischia tantissimo la vita in zone campestri prive di riparo, sotto lo sguardo affamato di gufi e di altri volatili. Il ratto deve difendersi anche dagli umani sopravvissuti, costretti a cibarsi di qualsiasi cosa trovino, per sopravvivere.
La scelta di dare una coscienza e un monologo interiore al ratto di questo libro, ci porta a vivere la sua vita con un orrore iniziale che via via scivola in una specie di apatia. Scopa sua madre e fa dei figli con lei; assiste a degli altri ratti che mangiano un neonato in una culla (fatto a cui l’autore ha assistito davvero in Vietnam); subisce la crudeltà degli uomini ma allo stesso tempo non esita a far fuori i propri figli e qualsiasi altro essere sul suo cammino, pur di andare avanti.
Ma noi uomini siamo capaci di cose altrettanto orribili e non sempre perché dobbiamo sopravvivere. Il ratto ne è testimone non giudicante mentre noi lettori giudichiamo lui.
Il libro è scritto da un poeta, quindi è pieno di rimandi e simboli. La prosa è densa, non ci sono sbrodolamenti auto-compiaciuti. Personalmente ho colto un rimando al pifferaio di Hamelin, ucciso a botte dai nazisti nel proprio appartamento; e anche al mito di Sisifo, quando il ratto nel finale, reso cieco dai giochi crudeli di qualche ragazzino, sogna di trascinare su una salita un grosso uovo che diventa sempre più pesante. Lo tira fino in cima convinto di poterselo mangiare ma l’uovo si tramuta in masso e scivola in fondo alla salita, lasciando il ratto sconfortato ma non arreso.
Non è un libro facile e non va preso alla lettera come un trattato naturalistico sui ratti. L’autore ne sa molto di questi animali, li ha addirittura allevati personalmente, ma se ne frega del realismo. Come dice: “Si tratta di un racconto sulle leggi che governano la società, sulle nostre mitologie, sulle verità e sulle menzogne, sull’amore e sulla speranza, sulla solitudine e sulla nostalgia…”
Il ratto di Szcur è pur sempre un uomo che sogna di essere un ratto, così come i conigli e i cani di Richard Adams siamo noi costretti a vedere il mondo da un punto di vista differente dal nostro, e per questo ancora più tremendo. Un posto dove gli animali, moralmente svincolati dalla follia umana, cercano un cantuccio tranquillo in cui vivere in pace e in armonia.
Zaniewski non la fa così semplice: con il suo protagonista pone la nostra attenzione su quanto esistere per un animale sia una continua sopportazione di impulsi, paura, fame, desiderio, in una incessante routine di atti febbricitanti e spietati volti alla sopravvivenza, senza alcun ideale approdo.
Ma non commettiamo l’errore di dimenticare, come scrive l’autore in conclusione alla sua post-fazione, che descrivendo in modo particolareggiato e naturalistico la vita del ratto, lui pensava a noi.