Gli album di oggi non ci fanno più viaggiare

Qualche anno fa, su questo blog, Alessandro Viti scrisse un bellissimo editoriale in due parti sul tema degli album odierni e delle canzoni. Secondo lui ormai non si poteva parlare di singoli momenti in una scaletta, ma di un insieme compatto di brani che formano un blob indistinguibile di sensazioni e di potenza, almeno nel caso del metal, e che fa capo a ciò che ancora chiamiamo disco. Chiaramente non ha più senso usare questa parola come negli anni 70, vale a dire per indicare un bene materiale, almeno non per la maggior parte della gente. C’è un piccolo mercato di vinili ma è una roba per collezionisti e qualche mormone della modernità infelice. La musica si scarica e neanche si paga più, quindi cosa è oggi un disco se non un insieme virtuale di pezzi? Ma qui non voglio trascinarmi nella solita palude di polemiche, voglio solo condividere qualcosa che ho notato di recente. Oggi ho il sospetto che le band (o le persone dietro a progetti che sono poi rivestiti di turnisti e portati in giro come band) non ragionano quasi più in termini di album ma di brani o pezzi di carne che possiamo scorporare a piacimento da un ammasso informe, esteticamente orrido, che ancora qualche cannibale convenzionale chiama corpo o le prefiche del rock, cadavere.Intendo questo: se una volta il disco o album era, nella sua forma migliore, un orchestrato di momenti sapientemente assemblati allo scopo di offrire all’ascoltatore un viaggio corroborante attraverso le stagioni emotive dell’animo umano (pezzo incazzato, pezzo triste, pezzo festaiolo, pezzo polemico, pezzo romantico e così via) andando avanti negli anni, in gran parte per merito o colpa delle “esponense” del cosiddetto metallo estremo, questo menù articolato si è ridotto a una sola emozione insistita dall’inizio alla fine.

Per quel che mi riguarda, fossilizzarsi su un solo sapore è un modo di fare estremo, e quindi un album dei Deicide, che si basa sulla scelta di trasmettere al pubblico la fascinazione rabbiosa per Satana e il male, il caos e l’Apocalisse, dal mio punto di vista è paragonabile ai Bon Jovi e un lavoro come These Days in cui dall’inizio alla fine si è prigionieri di un romanticame da fine estate. Parlo di focalizzare tutto un disco su una sola emozione, capite?

Beh, oggi è sempre più difficile, nonostante tutti si riempiano la bocca con il loro amore per il vinile e il suo suono caldo, trovare un gruppo che crei non solo fisicamente album a tiratura limitata e prezzi altissimi, ma anche nei contenuti, offrendo quindi quel viaggio emozionale vario e arricchente di cui sopra. Sembrano più che altro dei contenitori della stessa cosa in dodici variazioni intelligibili, sia virtuali che formato giocattolo per i nostalgici.

Se prendete un gruppo metalcore o uno death degli anni 80 o 90, potete accorgervi che nonostante la smania di spaccare il mondo dalla prima all’ultima nota, c’era un respiro e una serie di passaggi compositivi in grado di offrire ancora quel senso di divenire, di crescita durante l’ascolto. Per quanto potesse essere associabile a un temporale furioso, come un temporale dirompeva, faceva danni e poi piano piano si spegneva, con l’andatura sinusoidale della natura, capite?

Se prendete Clandestine degli Entombed o anche Far Beyond Driven dei Pantera, vi accorgete oggi, che ogni pezzo è stato messo lì per una ragione, in quella posizione anziché in un’altra, e che tutti insieme formano un violento assalto armonioso, fatto di umori vari, di sfaccettature. Allora magari non sembrava, ma oggi la musica piatta e brutalizzante che esce, rivela che quegli avamposti di furia costante avevano un respiro preciso e un andamento verso qualcosa e che erano concepiti per stare insieme e funzionare insieme, ogni titolo, ogni minuto. Si poteva sentire il singolo e se era fatto bene, quello metteva la voglia di immergersi nell’album. Oggi un singolo ci basta per girare al largo, perché il resto sarà quasi certamente tutto uguale.

Ora è difficile non pensare che una scaletta possa essere fruita con l’opzione shuffle senza non notare la differenza. Non è sparito solo il disco come bene materiale, ma anche nel suo contenuto. Tolta qualche eccezione, ogni nuovo album è pensato per essere sparato a frammenti, distrattamente, con poca pazienza da parte del pubblico multiscemo o brainrotto.

E mi sono accorto che il senso di straniamento che provo, per non dire di noia suicida, ogni volta che cerco di ascoltare per intero un disco metal uscito negli ultimi dieci anni circa, è dovuto proprio al fatto che io ancora pretendo di fare quel viaggio che dicevo, ascoltando un intero album, prendendomi il tempo, chiudendo gli occhi e dando il via a una traversata appassionante. Non funziona così e di fondo non è nemmeno l’intenzione di chi l’ha creato, quell’album. O meglio, magari ancora si illudono di fare le cose alla vecchia maniera, ma non si accorgono che l’itinerario è un viaggio a tutto gas sul posto o al massimo intorno al cortile di casa. I boschi e le montagne che vediamo scorrerci davanti, sono proiettate su uno schermo da una macchina nascosta.