INTRODUZIONE – UN’ENCICLOPEDIA SUL POP-PORNO ITALIANO?
C’è tutto un vasto pubblico che odia il pop italiano, che pensa sia defecazione a pronta presa e raccomanda il vaccino con i cantautori e la depurazione progressiva anni 70, quando la musica pensinsulare era in grado di competere con quella anglosassone (anche se la Britannia fonica non lo sapeva nemmeno, caro Franz Di Ciottolo). E mentre oggi i De André e i De Gregori sono inseriti nelle antologie scolastiche in qualità di poeti, Eros Ramazzotti e Biagio Antonacci restano fuori dal portone anagrafico dell’ufficio cantautori; come se non bastasse scrivere da soli le proprie canzoni per essere riconosciuti tali! Vi sembra giusto? A noi no, come direbbe Vasco Rossi. Di contro reietti del pop come Franco Califano, Rino Gaetano e Piero Ciampi, dopo decenni di indifferenza e ironia, negli ultimi anni sono stati riabilitati nell’olimpo dei grandi dai portieri della cultura come Maurizio Costanzo o Vincenzo Mollica, seppure questo imbarco post-mortem suoni quasi canzonatorio più che canzonettistico. La sezione anche loro avevano un perché si è estesa a quegli artisti che nessuno si filò quando erano vivi e che oggi sono ammirati e rimpianti. E non parliamo di tutta una fauna imbarazzante, che ormai ha guadagnato lo status di culto grazie alla rivoluzione trash di Labranca e Fazio nei primi anni 90: Gianni Drudi, Orietta Berti, i Cugini di campagna e una miriade di artistucoli indigeribili che si sono ritrovati un pubblico inebriato dall’elogio del nefasto, forti di un permesso “intellighiente” che gli offriva la possibilità di esaltarsi di fronte non allo stilnovismo rude di un Drupi o l’apocalisse da spiaggia dei Righeira, ma sozzerìe prosaiche e appariscenti usate per farsi due risate e vantarsi di compiere una rivoluzione culturale del brutto perchéssì inneggiando prima Fiori gialli della Premiata Ditta Caciotta e oggi che siamo tutti un po’ hipster Abbiamo paura dei topi dei Tubi Lungimiranti. E nonostante queste revisioni, rigenerazioni, per il pop, quello vero, che fa girare il grano e sonorizza, rievoca e commenta la storia della gggente chelastoriasiamonoi tutto rimane invariato: Battisti fascista, Celentano populista, Marco Masini ecatombale e Cremonini ennesimo killer della nostra canzone popolare. Solo Morandi, grazie a facebook è passato dall’eterno figlio del lattaio al sinistro e spaventoso coprofago social che si ricovera con una sospetta intossicazione alimentare. Bisognerebbe offrire anche a questi miti della canzone leggera il giusto trattamento, adoperando con loro come con Paolo Conte o Arisa, gli strumenti di un’analisi vera e senza pregiudizi dovuti al gran giro di soldi che fanno muovere. Non lo facciamo noi in assenza di meglio, ma poiché nessun critico serio, militante, veterano o di nuova generazione accetterebbe di misurarsi con un Michele Zarrillo o Marcella Bella, Anna Oxa, Luca Carboni o Raf, noi proveremo a esplorarli un po’, ironizzando e berciando nel più obiettivo sguardo auricolare possibile, perché, cristodundio, sono loro i dominatori del sommesso motteggio dei passanti, meritano o no un’analisi? Sono loro che fanno bagnar le donne nostre e danno voce a miriadi di giovani amanti desiderosi di sprigionar sentimento e sperma. Il pop è sempre servito a questo, del resto: all’impalmo, la seduzione. Aiutare tutti noi a farle dire di sì e condire l’insalata di emozioni che ci portiamo dietro a ogni cotta bruciante. Detto questo, specifichiamo quindi che non troverete gli intellettuali e nemmeno i dementi adottati dagli intellettuali. Le voci riguarderanno solo i grandi big della canzone che nei decenni si sono alternati alle radio, nei palazzetti stracolmi, a San Remo, al Festivalbar e in TV, senza snobismi e con tanta curiosa passione. Partendo dai primissimi programmi transistoriani fino ai reality seguiti su internet, vedremo i pilastri di questa ascesa/discesa. Dal Modugno rivoluzionario al cyborg Marco Mengoni, passando per tutta la sfilza di Amedei Minghi, Miette, Ricchi e poveri e l’intera sarabanda di nomi che farebbero rivoltar nella tomba Umberto Eco, Max Stefani o Bertoncelli. Ovviamente l’ordine è alfabetico, come si confà ai migliori (e peggiori) dizionari ma andrebbe rilevata una progressione che da Finché la barca di Oriettona Berti a Parlami d’amore dei Negroamaro ha condotto l’artista e la musica pop sempre più verso uno svuotamento testicolare del romanzo amoroso, che passando dal linguaggio basico ma con punte anticonformiste del Battisti mogoliano e prima ancora attraverso la scuola genovese delle “puttane salvifiche”, ha condotto a una palese fabbricazione resa spettacolo di cui l’ascesa del divetto poppettaro, munito di canzoni, costumi, scenografie e cinguiettii scandalosi, è solo la coda che svanisce nella lavatrice perenne dell’heavy rotation. Dire che il porno oggi ha contaminato ogni cosa, è già uno stereotipo. Nel pop questo mutamento è partito da lontano ma mentre repliche più spinte di Madonna come Miley Cyrus e Britney Spears usano il modello Sasha Grey per infervorare i fans, il pop italiano ha seguito questa scia come al solito in differita e in modo più meditato e fasullo. (Vedi Paola e Chiara e il loro impero dei sensi da villaggio turistico) Il porno da noi, se vogliamo ce n’è quanto volete, ma è più nascosto e concettuale. Un testo di Laura Pausini è il sapiente lavoro artigianale di chi sa redigere storie d’amore nell’ambito di combinazioni matematiche di sillabe e rime. Non c’è alcun impeto spericolato dietro a quella voce tonante e la faccia da milfona florida e sempre più addolcita di malizia pastellata. Questa decostruzione aziendale dell’amore (che una volta fu rinvigorito dai testi di Tenco e Paoli, ormai sta come il sesso di Lady Cattherley alle prestazioni atletiche di Jenna Jameson o se vogliamo la trasgressione a scomparto surgelati di 50 sfumature di grigio. Il pop è diventato via via più meccanico e non spregiudicato, più timido e robotico. C’era più energia sensoriale nei Pooh che nei salentini Negramaro, capaci di imprigionare la libertà della cotta adolescenziale in un diario scolastico chiuso con i lucchetti di Moccia. Se cercate la vitalità e l’audacia di una volta, potete trovarla nelle confessioni erotiche di Pupo o nel machismo da viagra di Claudio Baglioni che nelle cartoline amorose di Biagio Antonacci e la furia iconoclasta di Fabri Fibra. Tutto si è via via ammortizzato in un canzoniere in fabbrica e con esso è sospettabile che anche le relazioni di chi ascolta abbiano risentito di questo relazionarsi sul posto. O sul post. Le storie nascono e muoiono con un like e un dislike. La gente preferisce i cani e i gatti ai propri simili, gli amici e gli amanti li gestisce comodamente dal computer, comunicando la propria relazione con dei video di Nina Zilli da You Tube e sibillando turbamenti e delusioni senza nome e cognome sulla propria bacheca/diario. Cosa possono raccontare i Mengoni e i Modà in questo scenario alla Blade Runner? Più che il tempo delle mele, siamo a quello delle arance meccaniche. I siti porno scandiscono con i loro algoritmi il bisogno di rivalsa e spensieratezza degli utenti nazionali e il pop canta di conseguenza. I talent show in particolare stanno de-vitalizzando i nuovi artisti su cui riescono a mettere le grinfie. Tutti quei ragazzini che si presentano con il proprio bagaglio esistenziale, una pettinatura elfica, qualche pearcing di troppo, tatuaggi tribali, un’impalcatura musicale un po’ disordinata che va da J-Ax a Janis Joblin, vengono lasciati parlare ed esibire. Una volta captata la potenzialità smerciabile, sono spogliati di tutto ciò che hanno e che è la loro vera essenza consumistico-elitaria e sono rigenerati nazistamente nell’attitudine e nell’impostazione pura e manipolabile della cavia; depurati da tutti quei concetti che irritano il naso peloso della censura, usando la loro storia a mo’ di concept narrativo, ecco a voi le nuove nullità intercambiabili come Francesca Michielin e Marco Carta. Mengoni è gay? Forse lo era prima di finire nelle mani dei discografici, ora non lo sa più nemmeno lui, è una tavolozza imbiancata ogni volta, un manichino istigato alla rappresentazione romantica di un Valentino moderno, senza un passato o un futuro, ma solo con un casto presente da mettere in serie. Il Casanova di Fellini fotteva manichini. Il pop italiano di oggi produce porno felliniano ma a essere fottuti siamo noi. Questa enciclopedia è dedicata al pop nella sua veste più appariscente, lussuriosa, vana, caduca, mercimoniale… (fatemi smettere o di aggettivi vi seppellisco senza soluzione di contiguità). Non è un’esauriente catalogazione di ciò che in via accidentale o voluta possa scalfire la poetica e l’estetica pornografica. Popporno, termine coniato dal duo di cui non si sa giustamente più nulla, Il genio (Pare vivano in uno scantinato della villa di Simona Ventura) secondo me non è una perfetta sintesi della musica leggera italiana, quella che riempie gli stadi, che sbrana le classifiche e che ci fa vergognare a posteriori se ripensiamo ai nostri dolci anni adolescenziali passati a sognare su certe melodie e parolismi romantici. Non è nemmeno una sotterranea via fatta di doppisensi e rivelazioni impressionanti (vedi Gelato al cioccolato, scritta da Malgioglio dopo una vacanza esotica). L’erotismo, la sessualità sono da sempre usati per gioco, provocazione, bisogno d’esprimere smanie, scogli emotivi, necessità esistenziali ma se nel corso degli anni l’elemento pornografico ha fatto capolino anche in modo esplicito, massiccio e sbracato nella vita italiana (i 45 giri di Cicciolina) non è questo il pop porno di cui vi parlo. Il vero pop porno è quello di ultima generazione, è il giovane apprendista che dalla sua piccola realtà locale prende il treno per Milano e partecipa all’audizione televisiva di X Factor, la supera e diventa parte di un meccanismo industriale che lo spoglia di tutto ciò che ha, isola il talento canoro e lo riveste di finzione, di false identità sessuali, storiche e soprattutto di un’arte che non scaturisce dal cuore indomabile di un cantautore impetuoso che vuol dire la sua alla faccia dei canoni e delle regole, che non si sprigiona da un talento animalesco e irrefrenabile di una Loredana Berté, ma da una bottega di scrittori di canzoni artigianali. Il giovane è restituito a un modello preesistente di successo discografico: il nuovo Modugno, il nuovo Morandi, il nuovo Vasco Rossi, e come un feticcio di successi passati è rivenduto a un pubblico che lo accetta acriticamente, pago di assistere alla reiterazione ormai svuotata di un vecchio rituale emblematico. La canzone popolare, tolta la parentesi sociale e impegnata, è sempre stata d’amore e seduzione. Mentre però prima, anche nei casi più industriali l’etichetta si prendeva cura, tutelava, custodiva e guidava il Peppino Di Capri di turno, oggi avviene una pressione molto più forte e totalizzante. Gli artisti non sanno più nulla di sé stessi, sono completamente al servizio dello spettacolo e ubbidiscono alle coordinate di registi, manager e vocal coach. Se prima un artista imparava sul campo dagli errori e le scelte discutibili, con l’etichetta che provava a tenerlo in piedi e mascherare la sua scarsa professionalità, oggi gli viene apertamente imputato di non sapere, di non conoscere, di non capire e quindi lo si obbliga a seguire consigli davanti al suo stesso pubblico che apprende assieme a lui ad amarlo e seguirlo. Il giovane cantante è come un tempo l’emblema dell’eroe amoroso, dell’eroina sedotta e abbandonata, ma questo incarico non lo ricopre con la forza e l’istintiva espressività del proprio talento, bensì seguendo i rigidi precetti di chi ne sa più di lui. Deve cantare, deve inscenare l’amore, deve orgasmare guardando la telecamera due o la tre, deve risultare credibile e non essere semplicemente vero. Questo gli si dice in modo ossessivo. Il risultato è una sfilza di divetti intercambiabili che cagano soldi e finiscono nel dimenticatoio dopo qualche tempo, come giocattoli rotti. E nel mentre, cosa fanno se non eseguire un coito senza la fiamma del proprio estro? Cosa fanno se non muovere meccanicamente braccia e volto nel tentativo di imitare l’amore dei loro ascoltatori? Eseguono l’amore e se togli le emozioni vere all’atto, cosa ti resta se non una volgare scopata, vacua, anonima, da sega. PS. Ah, quasi dimenticavamo: la data al fianco di ogni nome non indica la nascita e la morte naturale ma quella artistica. Se leggete Rossi,Vasco (1978-1990) è perché riteniamo che il suo ciclo creativo sia sviluppato e concluso in questo arco di tempo. Tutto il mondo di cose realizzate e accadutogli successivamente è solo un deambulatorio zombettare tra una elaborazione referenziata più o meno consapevole di vecchi temi già affrontati. LEGENDA (mi servono delle iconcine da affiancare a ogni scheda a seconda della categoria di appartenenza. ORGASMICI: La cosiddetta categoria degli urlatori inaugurata da Dallara e poi salvata da Mina. La comparsa di questi micidiali interpreti sopra le righe ha introdotto nel pop italiano l’orgasmo nell’interpretazione. ORGIASTICI: I beat e i rocker sono sporchi, selvaggi, ragazzi di strada, amorosi folli e liberi. La loro progenie deriva dai Beatles e gli Stones. Capelloni, androgini, barbari che hanno condotto la grammatica del futuro rock. ANTICONCEZIONALI: Gli interpreti sanremesi. Quelli che si sono fatti le ossa e le rughe sempre sullo stesso palcoscenico, scandendo la propria discografia con le gare del festival. Di loro il sesso e la masturbazione sono quasi dei tabù, ma ogni tanto è proprio da questi omologati che sono nate le più grandi rivoluzioni. I PORNODIVI: i grandi, quelli che hanno fatto la storia e inseminato decine di mamme che avrebbero poi partorito tanti emuli e derivati geneticamente già fottuti. LE PORNODIVE: erotiche, lesbiche, trasgressive e madonne, materne e aguzzine, milf e lolite, sono le interpreti di maggior spicco, quelle che hanno deciso le mode e condotto le battaglie più dure con l’opinione pubblica e la censura. GLI ONANISTI: quelli che in fondo hanno sempre da dire sul proprio ombelico. Hanno la stoffa dei cantautori ma non possiedono l’integrità. Amano le grandi folle e la visibilità. Crescono senza mai cambiare. Offrono al pubblico una parvenza di intelligenza ma al pensiero profondo qui si parla più del troppo pensiero e le seghe mentali. I BENDATI: quegli artisti che nonostante la mancanza di vista e forse proprio grazie a essa hanno saputo guadagnarsi un posto nel piccolo olimpo del pop porno italiano. PSF: Acronimo che sta per Portatori sani di sfiga. Emarginati, additati e fuggiti, spesso finiscono per ammazzarsi o magari tornano in scena e lo mettono nel culo a tutti. SODOMITI: cantanti che hanno fatto dell’ambiguità sessuale e del mescolio erotico una poetica esistenziale. Sono divertenti, vitali e spesso sottovalutati. MASOCHISTI: Quegli artisti che hanno scelto il dolore come forma di espressione poetica. Loro raccontano le cose come stanno. E se necessario anche peggio. SUPERDOTATI: Quelli che hanno sempre fatto della potenza vocale o fisica il loro vero punto d’espressione massima. Amano essere temuti, rispettati e spesso vilipesi. GLI STRANI: coloro che hanno un modo proprio di fare musica, riconoscibili, stimati e poco ascoltati, in fondo rappresentano le vere gemme pop. I GUARDONI: gli anziani, gli estranei, gli artisti che nel pop manco volevano entrarci e in fondo non vi hanno preso parte, limitandosi a guardare l’inciucio generale tra artisti e pubblico. GLI STERILIZZATI: i giovani artisti venuti fuori dai reality show. Equivalgono ai manichini del Casanova Felliniano. Il loro sperma se c’è è freddo, e l’erotismo che trasmettono è quello delle automobili moderne.””