In questi giorni se ne parla molto, se non altro perché li vedremo a uno degli eventi estivi ormai imprescindibili per chi ascolta metal. Il metallaro infatti non va in vacanza e se un anno per disgrazia gli salta il Wacken si ritira nella bergamasca in attesa di quei due-tre concerti di fine agosto. Se proprio vuole farsi un tuffo invece va al Frantic, ma li è un’altra storia. Chiaramente si scherza, siamo cavalli e quindi un po’ fuori di testa.
Gli Wytch Hazel sono sulla carta una delle realtà più interessanti della NWOTHM, la New Wave Of True Heavy Metal
Oltre a non andare al mare, il metallaro moderno è talmente pigro da non essere capace di coniare un nuovo genere o movimento senza rifarsi a uno già esistente. In questo caso lo sforzo è minimo, da una labiale a una dentale.
Il metallaro moderno però è di bocca buona perché dentro quel calderone finiscono nomi di un certo peso per chi segue il genere classic come Riot City, Enforcer, Attic, Wings Of Steel e decine di altri.
Buona parte di questi gruppi sono dei cloni, parliamoci chiaro, e la personalità è prerogativa di pochissimi.
I Wytch Hazel si rifanno a quel segmento sfigato di rock inglese che tanto piace alla critica e poco al pubblico il quale, si sa, è sempre un po’ sulle nuvole. Mi riferisco a band come Wishbone Ash, Thin Lizzy, Saracen, ma anche Uriah Heep, Magnum e Jethro Tull, che sfigati non sono ma nemmeno da copertina, per capirci.
Tutte band peraltro contigue o precedenti agli Iron Maiden, ma comunque abbondantemente interiorizzate da Steve Harris e i suoi. Piccolo inciso: ho sempre pensato che la bravura (e la fortuna) dei Maiden fosse stata quella di aver portato alle masse lo stile sviluppato da band meno conosciute al grande pubblico, ovviamente con in più quel tanto di personalità e intuizioni che ne hanno fatto la fortuna.
L’approccio alla materia è quindi molto semplice, tempo in quarti, più o meno incalzante, spesso raddoppiato, ritornello in modalità pugno al cielo e soprattutto twin lead.
Tante twin lead. E se non sono quelle, non c’è pezzo senza il piripiri di Maideniana memoria, che prima fu dei Thin Lizzy, e prima ancora degli Wishbone Ash.
Deve essere un tic nervoso, parte il pezzo col riff, poi la strofa che si avvia tutta galvanizzata verso il ritornello e poi eccolo lì, il garagori medievale, oltretutto qui c’è pure la mistica medievale e anche l’estetica, testi cristiani, Pentecoste, Rivelazioni, spade e cotte di maglia.
Fa tutto molto Canterbury e british retrò, però è innegabile che ci sia del buono.
I “singoli” sono davvero avvincenti e se non altro hanno il merito di rispolverare un certo sound che quando finiranno i Maiden nessuno si filerà più, e non è che uno può passare tutta la vita ad ascoltare solo Argus, giusto?
Mi domando tuttavia come sia possibile al giorno d’oggi produrre dischi che suonino così di merda. Pensavo che con la premiata ditta Maiden- Shirley avessimo toccato il fondo, ma quelli degli Wytch Hazel sembrano dischi registrati al citofono.
Saranno le twin lead che rovinano i timpani peggio di un tuffo dagli scogli venuto male?
Io capisco, ma fino a un certo punto, la voglia di guardare a un passato spesso mitizzato, ma non è una buona idea quello di ricrearlo in provetta o di azionare la macchina del tempo sperando di poter vivere o rivivere quei giorni.
Il tempo se ne frega e il buon senso idem: siamo nel 2025 e se proprio vuoi lasciare il segno, cerca di rendere attuali quelle sonorità così affascinanti, dagli una produzione moderna, una voce carismatica, un qualcosa di speciale che le caratterizzi ulteriormente, dopotutto è quello che hanno fatto tutte le band che abbiamo citato all’inizio, Maiden, Thin Lizzy e via discorrendo.
Chiudersi in una riserva indiana mi sembra spesso una strategia di marketing, un modo per rendersi riconoscibili. Dopotutto meglio un uovo oggi che la gallina domani, facendo credere ai sessantenni che la loro musica è ancora viva e vegeta.
In conclusione, la band è valida e la proposta gradevole ma prima di gridare ancora una volta al miracolo meglio aspettare che la loro musica invecchi un po’, anche se in realtà non ce ne sarebbe neppure bisogno.