Ci sono dischi che arrivano come meteore luminose in un cielo affollato, sbucati dal nulla e inattesi, capaci di ridefinire non solo un genere ma anche il modo stesso in cui lo si percepisce. Moving Target dei Royal Hunt, uscito a metà anni Novanta, appartiene a questa ristretta cerchia.
Nel momento in cui il prog-metal europeo cercava nuove strade espressive, oscillando tra virtuosismo tecnico e seduzione melodica, l’opera di André Andersen e compagni seppe imporsi con un tempismo quasi miracoloso, offrendo un linguaggio diverso, immediato, irresistibile.
Non più il labirinto di suite interminabili né l’urto frontale del metal più ruvido, ma cascata di suoni che fonde sinfonismo e calore, rigore compositivo e canto emozionale.
Moving Target è una bilancia perfetta tra due anime: da un lato la visione tastieristica e sinfonica di Andersen, dall’altro la potenza melodica e teatrale della voce di D.C. Cooper.
In questo incontro nasce un equilibrio raro, in cui la scrittura non si piega alla mera esibizione tecnica ma al contrario la incanala, la doma, la sublima in canzoni dalla riconoscibilità immediata. Ogni ritornello diventa un approdo mentale a porti melodici, ogni passaggio strumentale un respiro orchestrale che non interrompe ma alimenta la narrazione.
Accolto con favore per la raffinatezza del suono e la bellezza delle melodie, l’album si guadagnò subito un posto particolare: non il più sperimentale della band, ma forse il più compiuto, il più coerente, quello in cui ogni tassello combacia senza frizioni. È un piccolo miracolo di scrittura e produzione: brani diversi che pulsano come un solo organismo, con una longevità rara, in grado di emozionare oggi come allora; un manuale di bellezza melodica travestito da disco prog-metal, una prova di “forza gentile” che mostra come si possa coniugare complessità e accessibilità, eleganza e impatto.
È musica che parla al cuore senza dimenticare la mente, che avvolge con il suo respiro sinfonico ma non soffoca, che commuove senza indulgere nella retorica. Un’opera che si fa ponte tra mondi e pubblici diversi.
L’album è spesso ricordato come il primo a condensare in modo maturo il songwriting di Andersen, dopo due capitoli di apprendimento: linee melodiche nette, arrangiamenti d’archi/synth a servizio di strutture pop-song e un’attenzione al coro e al contrappunto vocale che rende ogni brano immediatamente riconoscibile.
All’uscita Moving Target raccolse reazioni molto positive per la qualità delle melodie e la pulizia della produzione; alcune recensioni evidenziarono tuttavia una certa “lucidità” che riduceva l’edge più grezzo del metal tradizionale, spostando l’album verso un pubblico prog-melodico e AOR.
Nel corso degli anni è considerato un pezzo chiave nella discografia della band. Personalmente lo trovo il migliore, il più ispirato e il più completo della loro discografia, che ha un dono raro: la bellezza delle canzoni, tutte, nessuna esclusa.
I Royal Hunt nascono alla fine degli anni Ottanta come progetto di André Andersen; i primi due album (Land of Broken Hearts, Clown in the Mirror) sono già ibridi tra AOR melodico, metal e tastiere classicheggianti.
Con Moving Target (1995) la band consolida la formazione che avrebbe dato all’album quel timbro caldo-sinfonico: André Andersen (songwriter, tastiere, chitarre, produttore), D.C. Cooper (voce), Jacob Kjaer (chitarra), Steen Mogensen (basso) e Kenneth Olsen (batteria), con cori femminili di supporto su alcuni brani.
Nei racconti della band emerge spesso la frustrazione per la difficoltà di penetrare mercati come gli USA, nonostante la buona ricezione in Europa e Giappone, una contraddizione tipica delle realtà prog-metal europee dei Novanta.Secondo interviste e resoconti d’epoca, Andersen preferiva registrare in spazi controllati e familiari: «We have every single thing we need here and more», affermazione che spiega la volontà di mantenere il controllo totale di arrangiamento e mix.
Questo approccio si traduce in un suono molto “composito”: tastiere multiple, campionamenti orchestrali, layering di cori e sovraincisioni di chitarra per ottenere densità timbrica senza sporcare la chiarezza melodica.
Il risultato è una produzione lucida, con basso e batteria ben presenti ma mai dominanti, e una gestione spaziale che privilegia la metà alta dello spettro (voci, tastiere, armoniche).
André Andersen (tastiere, chitarre, compositore, produttore) è il centro compositivo, l’artefice, il mastermind. Le sue key non fungono solo da “riempitivo”: ma da controcanto melodico, arpeggi, pad orchestrali, armonium e ricami “harpsichord-like”. Lui usa timbri classici (string ensemble, choir) ma li tratta con dinamiche rock: attacchi marcati, cut-offs ritmici e saturazioni leggere.
Suo alfiere ed esecutore è D.C. Cooper (voce): registro esteso, timbro caldo e potente; capacità espressiva che va dal fraseggio quasi soul alle spinte del belting melodico.
È il trait d’union fra l’architettura sinfonica di Andersen e la tradizione hard-rock. Più defilato, forse sacrificato, ma necessario è Jacob Kjaer (chitarre): riff semplici e incisivi, soli tecnici ma concisi; spesso la chitarra agisce come elemento “market-marker” tra strofa e ritornello, non come protagonista continuo ma indispensabile. I Royal Hunt non sono mai stati e non intendevano essere una band “guitar oriented”.
Steen Mogensen (basso) e Kenneth Olsen (batteria) è quella che definiremmo una sezione ritmica solida, leggasi “operaia”, in cui il basso è melodico ma sempre subordinato alla voce e la batteria privilegia la dinamica e il “groove” piuttosto che tecnicismi gratuiti.
I Royal Hunt a livello di composizione hanno delle linee guida piuttosto ferree e ripetute, ma usate in declinazioni sempre accattivanti. L’uso del motivo ostinato che diventa “ancora” tematica per il brano, il layering orchestrale con arrangiamenti di tastiera che imitano archi/cori ma trattati come strumenti rock (attacco netto, cut-offs, dialoghi con chitarra).
L’impiego sistematico di soprannumerari (voci femminili e backing vocal maschili) per ottenere il coro polifonico (effetto “stadio” ma in micro dosi meno pompose).
Da notare come i soli siano costruiti per ricadere nella melodia principale; un virtuosismo funzionale, mai esibito, mai troppo complesso. Contrappunto vocale: controlinee nel ritornello che arricchiscono la tessitura senza appesantire la chiarezza dell’hook. Queste scelte mostrano un compositore che pensa in termini di sonorità totale (sound design + melodia + struttura) più che in termini di vetrina strumentale fine a sé stessa, fatta di shredding, poliritmi e dimostrazioni muscolari di tecnica egoica.
Ritengo che Moving Target rappresenti un caso di alta scuola di come si possa fondere sensibilità prog e attitudine al singolo: Dovrebbe essere il testo di studio di chi voglia imparare arrangiamento moderno, produzione di suoni ibridi e la scrittura di ritornelli memorabili in contesti non-mainstream.
Uno stile unico, peculiare, dove il concetto di “cinematico” si applica al feeling e alla sensibilità piuttosto che al fracasso bombastico e cafone di certo Hollywood Metal dozzinale. I testi oscillano fra introspezione personale (Last Goodbye, Far Away) e immagini più simboliche (1348), spesso con metafore di perdita, distanza e ricerca di un centro emotivo.
Andersen tende a usare il testo come “spazio” per la linea vocale: il fraseggio e gli strumenti sono modellati per massimizzare l’efficacia melodica più che per la complessità poetica. L’effetto è quello di canzoni che comunicano rapidamente e abbastanza semplicemente, il che spiega la loro capacità di sopravvivere nei set dal vivo anche oggi. Moving Target non per questo è un disco semplificato e semplice: la perizia tecnica e compositiva del tastierista creano un miracolo. Rendere accessibile un bagaglio enorme e complesso, come far capire un trattato di fisica quantistica a uno studente di terza media. Emozionare chiunque senza rinunciare al “core” musicale di matrice sinfonico classica, che di per sé non è una passeggiata. Ecco un’analisi più dettagliata per comprendere ogni singola traccia del disco.
1. Last Goodbye
Musicalmente si apre con un ostinato di tastiera in modo minore che funge da “loop narrativo”: subito si percepisce la volontà di scrivere un brano di stampo “micro-dramma”. L’introduzione orchestrale prepara l’ingresso della batteria in backbeat aperto; strutturalmente il pezzo è vicino all’architettura A-B-A’: la sezione centrale contiene un ponte modulante che spinge il brano verso una tonalità parallela per dare una sensazione di “svolta” emotiva prima del climax vocale. Dal punto di vista armonico: uso di progressioni I–VI–VII con abbellimenti di II e IV (in tonalità relativa), e armonizzazioni di tastiera che supportano il ritornello con triadi a blocchi. Il solo è corto ma tematico: non virtuosistico per virtuosismo, ma costruito per rimandare melodia e then return.
2. 1348
Titolo criptico (che rimanda visivamente a un anno o a una cifra simbolica) e testo frammentario. Dal punto di vista metrico il brano usa un fraseggio ritmico sincopato sul primo battito della battuta che crea tensione; armonicamente sfrutta una scala minore naturale ma con passaggi dorici nei fill tastieristici. Qui la band sperimenta riff più aggressivi e un uso di chitarra ritmica più spinto, richiamando passaggi di scuola power-metal ma senza perdere la linearità melodica.
3. Makin’ a Mess
È il singolo “da radioplay” per eccellenza: forma strofa-ritornello-strofa-ritornello-ponte-assolo-ritornello. L’arrangiamento è ridotto nelle strofe per far emergere la voce; i cori sono micro-arrangiati (stack di voci sovrapposte) per aumentare apertura ed “effetto inno” del ritornello.
4. Far Away
Una ballad che esiste in due versioni (e che alcune edizioni includono anche come traccia acustica bonus). Struttura classica strofa-ritornello, con moduli armonici che puntano su progressioni maggiori per il ritornello e utilizzo di sospensioni per creare il pathos. L’introduzione acustica (nella versione acustica) mette a nudo la qualità interpretativa di Cooper.
5. Step by Step
Caratterizzato da una linea di basso che quasi funge da” motivo in movimento”, “Step by Step” è costruito su un cello ripetuto che cresce per aggiunta di voci (contrappunto). La sezione strumentale di metà brano è un esempio di arrangiamento a stratificazione: prima tastiere, poi chitarre, poi fiati/archi sintetici che si sovrappongono fino al culmine.
6. Autograph
Brano strumentale che agisce da intermezzo: forma libera, con alternanza di sezioni liriche e spazi per lasciare liberi i solisti. Andersen qui gioca e sperimenta l’uso di timbri orchestrali sintetici e timbriche in saturazione leggera.
7. Stay Down
Rock diretto, con riff di chitarra ” a tinta funk” e un ritornello esplosivo. Uso di contro-melodie nel ritornello che si incastrano con la linea vocale principale, tecnica tipica di Andersen per dare “tessitura”al brano in modo efficace.
8. Give It Up
Il basso spesso anticipa il fraseggio vocale, creando un effetto “chiamata e risposta” che mantiene vitalità.
9. Time
Chiude l’album una canzone che riprende alcuni motivi tematici introdotti in Last Goodbye, creando una sensazione di arco narrativo compiuto. Melodicamente il brano si avvolge su una progressione che lascia spazio a una coda strumentale contemplativa.
Dunque viene naturale pensare che dietro “Moving Target” ci sia un Andersen moderno: non quello delle fiabe che incantava i bambini, ma quello delle tastiere che ammalia gli adulti. Un narratore che non scrive con l’inchiostro ma con i suoni e che ha trasformato la coda di una cometa in spartito: luminosa, irraggiungibile, ma capace di lasciare una scia che continua a brillare negli anni.