Dunque, vediamo… i Lethal si sono formati nel 1982; hanno realizzato il primo album nel 1990 e si sono sciolti nel 1998 o giù di lì. Nel 2025 li scopro. In tutto ci sono voluti 43 anni per arrivare a me. Tutto questo periodo è durato quanto mia sorella. Sì, lo so che la matematica non dovrebbe produrre riflessioni così sceme, ma nella mia testa le cose vanno in una certa maniera con i numeri. Li uso per scopi squisitamente egomaniaci. Ecco perché alle superiori smisi di praticare la matematica (e di studiarla) tre anni prima del diploma, perché non padroneggiarla era uno smacco al mio amor proprio. Fottuta matematica e fottuti Lethal. Non da me ma dal fato o da se stessi, a seconda di come la vediate sul piano filosofico. Per quanto mi riguarda non tutto dipende dalle nostre scelte, nel senso che non siamo liberi di decidere in assoluto come gestirci in questo mondo. Non parlo di destino ma di una specie di base rigida che ci porta continuamente a compiere gli stessi errori, a scegliere un certo colore e a incasinarci la vita con un dato tipo di donna.
Non so cosa abbiano combinato i fratelli Cook o il vocalist Tom Mallicoat con l’altro sesso (inteso in senso più lato possibile, dati i tempi), ma so che nel mondo della musica non ne hanno beccata una. Hanno esordito con la Metal Blade quando ormai il power prog all’americana non vendeva più e le band a cui somigliavano un po’ troppo (Queensryche e Fates Warning) avevano già mollato quel tipo di suoni e di riff da almeno un paio d’anni. Non voglio nominare i Crimson Glory perché nel loro caso le scelte andarono oltre il volersi male. I Lethal non si odiavano. Erano solo fuori tempo. Pure se andavano a tempo, chiaramente.
Ora io non discuto che uno faccia un certo sottogenere e parta da lì. E nemmeno che decida di praticarlo quando non è più facilitato dalle ondate modaiole: un metallaro non dovrebbe pensare ai soldi, almeno all’inizio, altrimenti ha sbagliato lavoro e vita.
Io però non sopporto la mancanza di personalità. Non ti basta somigliare a qualcuno più affermato di te, imitarne come puoi il suono e i gorgheggi melodici, il tipo di riff. Non puoi solo mascherarti da Queensryche per riuscire interessante. Per me Programmed è un disco che nasce e muore lì. C’è chi oggi grida furioso che il gruppo fu sottovalutato in modo imperdonabile e che si tratta di un gran disco, ma sono sicuro che quelli che lo scrivono hanno la casa tappezzata di album di Agent Steel, Malice e Battle Brath. Nel senso che vivono e giudicano immersi in un contesto creativo davvero asfittico.
Le cose per i Lethal però si fecero più interessanti quando la band provò a inserire groove metal e grunge nel tessuto power prog di cui sopra. Lo fecero anche i Queensryche e i Fates Warning, ma nessuno ebbe il coraggio di screditarli per questo, tra il 1994 e il 1998.
Per i Lethal, che dovevano ancora dimostrare di essere dei grandi, fu una condanna a morte. Poison Seed oggi resta a testimoniare la disfatta. Ma se associ il power americano agli Alice In Chains, vengono fuori i Nevermore. E in effetti, lo stesso anno di quesdto lavoro uscirono anche loro con l’omonimo e intramontabile “Nevermoooore”.
E non voglio dirvi che Poison Seed è alla pari ma sconosciuto. Stiamo parlando di due dischi imparagonabili per la produzione, la capacità creativa e il tempismo. In tutto, nello specifico per l’ultimo, i Nevermore stravinsero e stravincono ora.
Eppure Poison Seed merita una riscoperta perché è pieno di buone canzoni power-prog-groove-grunge metal.
Oggi i riffoni in stile Pantera e le lamentazioni armoniche alla Staley/Cantrell sono state assorbite da quello che si definisce ancora heavy classico. Ne ho sentite in parecchi gruppastri americani che si riempiono la bocca di “old schoool, man” e nessuno ci fa più tanto caso. Persino Zakk Wylde e i suoi Black Label Society mescolano grunge e groove e vecchio metal passando per dei tradizionalisti.
Immagino che al tempo, nel 1996, le cose fossero così rigide e separate che quegli aspetti, groove e grunge, risultarono molto più appariscenti e condizionarono la disposizione di chi aveva acquistato l’album pensando a una prosecuzione di Programmed (anche se era stato allertato dall’EP/demo Your Favorite God del 1994, già pieno di riff in Panterese).
A distanza di anni, se vi capitò di comprare il disco e provarlo con quelle attese, vi consiglio di riprovarlo ancora. Ci sono momenti che hanno sempre meritato e meritano oggi un po’ del vostro sangue e forse 30 anni sono stati sufficienti a divaricare un po’ quel buco di culo che avete al posto del cervello.
La title track, Now e Born sono grandi ballate o qualcosa del genere.
E per quanto sia invecchiato male nell’insieme e non abbia goduto di alcun remastering, Poison Seed, con quel suono stile Terry Date dello zecchino d’oro è servito a chiarirmi una cosa che vorrei condividere con voi, proprio riguardo il discorso del groove e del metal.
Io sono cresciuto in quegli anni e ricordo che sulle riviste si faceva un uso esagerato di questa parola. Groove. Non so se il Fuzz o qualche altro autore di Metal Shock, scrisse con un certo candore che “groove” era la parola magica: spiegava tutto e non spiegava niente.
Io l’ho sempre associato ai Pantera e al loro suono grasso, ai riff ritmici, stoppati, di una o due note, solitamente tra il Mi basso e il fa diesis.
Insomma, se c’era una roba tipo Walk, This Love, Five Minutes Alone, con quei passaggi più cadenzati eccetera, era groove.
Ma non capivo che il riferimento era molto più ampio di quello. Avete notato che all’inizio degli anni 90 le ritmiche di batteria passarono dal quattro quarti a delle soluzioni più spezzate, sincopate, con dei giri di basso simil-funky? Ecco, quello era il groove. Un approccio più incentrato sul feeling degli strumenti e quindi una combinazione di tempi dispari e ripartenze calde. E riguardava la sezione ritmica che negli anni 80 aveva sempre e solo, tolte alcune eccezioni nel crossover metal, tirato dritto.
Ancora oggi non è facile spiegarlo, però il groove c’era anche in The Promised Land dei Queensryche e persino in The X Factor degli Iron Maide, così come in tutti i dischi dei Red Hot Chili Peppers dall’inizio a oggi, non sono in Mother’s Milk.
Il sound di Dimebag Darrell era un modo di calare la chitarra in quelle selve ritmiche di basso e batteria ed era la soluzione più facile per suonare tutti la stessa cosa, mantenere una fluidità e aumentare la temperatura. Il metal, con il groove ha iniziato a sudare e a scopare. E la cosa non è piaciuta molto a chi l’aveva scoperto prima del 1991.
Non credo che oggi, le band che si definiscono groove, abbiano davvero fino in fondo in testa questa cosa ma sono sicuro che andrebbe fatta una riflessione sulla sensualità che esplose nei lavori anni 90 di Queensryche, Fates Warning, Crimson Glory e persino Agent Steel.

