Si può avere nostalgia profonda e malinconia di un passato che non è mai esistito? Piangere per ricordi di eventi mai avvenuti? Essere un fantasma di qualcuno che non è mai vissuto? Sembrerebbe assurdo, ma la risposta che posso fornire è: sì, assolutamente sì. Tutto questo è possibile, anzi in qualche maniera bellissimo. Ci sono suoni che non appartengono più al presente, ma nemmeno al passato. Galleggiano in una sospensione di pixel e nostalgia, in una nebbia che non è tempo ma atmosfera, un alone digitale che profuma di plastica colorata e sogni consumati in fluidi luminescenti. La vaporwave è l’arte di abitare questa nebbia è il canto fantasma di un’epoca che ha creduto nel futuro, e che ora, ironicamente, lo osserva da un monitor CRT tremolante, come un dio minore dell’obsolescenza programmata.
Nata come un gesto di sabotaggio estetico, una mutazione tra il collage sonoro, il glitch pop e il détournement dei jingle aziendali, la vaporwave è diventata, in pochi anni, una delle esperienze più complesse e paradossali della musica contemporanea. È musica fatta di memorie sintetiche, di frammenti commerciali desacralizzati, di echi di canzoni pop degli anni Ottanta e Novanta, rallentate fino al punto in cui il tempo stesso smette di essere un flusso e diventa una piscina stagnante di malinconia.
Gli anni Ottanta, quell’orgia di luci al neon, promesse di progresso e suoni lucidi, che per fortuna ho vissuto in pieno, sono l’archivio da cui la vaporwave estrae la sua materia prima. Ma non si tratta di nostalgia nel senso più semplice, bensì di un necrologio estetico. Gli artisti vaporwave non vogliono rivivere il passato: vogliono riesumarlo. Lo trattano come un corpo da sezionare, una reliquia da manipolare digitalmente. Un’operazione Cronemberghiana sulle note, per desaturare e ricreare nuovi organismi mutanti sonori.
Il pop anni Ottanta, con la sua estetica lucente e la sua fiducia cieca nella tecnologia, rappresentava la visione ingenua di un futuro levigato, pieno di promesse. La vaporwave ne mostra invece la versione smaliziata, il “dreamscape” evaporato. I sintetizzatori, i sax digitali, le batterie elettroniche: tutto ciò che negli anni Ottanta suonava come “nuovo mondo” ora risuona come un reliquiario del postmoderno, sorriso beffardo e ironico di un mondo che credeva nell’eternità del consumo e che oggi si nutre solo di “post” qualsiasi cosa.
Quando Floral Shoppe di Macintosh Plus fece la sua comparsa nel 2011, il brano “リサフランク420 / 現代のコンピュー” non era soltanto un loop di un frammento pop giapponese rallentato: era un rito calcolato per l’innocenza sonora. L’ascoltatore non sapeva più se ridere o piangere, se provare piacere o disagio. Quel campionamento dilatato di Diana Ross trasformato in mantra elettronico rappresentava il punto d’incontro tra la melanconia del ricordo e la frustrazione del presente. La vaporwave è la colonna sonora del capitalismo esausto.
I suoi campionamenti non sono mai neutri: vengono tratti da musica d’ascensore, tappezzeria sonora che non lascia traccia melodica, colonne sonore di software dimostrativi, motivi lounge destinati a rilassare il consumatore.
Tutto ciò che, negli anni Ottanta e Novanta, doveva rassicurare l’individuo sul buon funzionamento del mondo industriale, viene ora restituito come canto liturgico di un impero decaduto.
Nel suo cuore, la vaporwave non è tanto un genere musicale quanto una pratica di archeologia psicoacustica. È come se i produttori, spesso anonimi, mascherati dietro pseudonimi ironici e copertine in stile “Swamp Spirituale”, scavassero tra i sedimenti digitali di un’era in cui il futuro sembrava tangibile. L’estetica corporate, il design tridimensionale primitivo, i loghi, le statue elleniche in formato jpeg: tutto viene decontestualizzato e trasformato in simboli di un culto che non ha più divinità ma solo brand fossilizzati.
In questo senso, la vaporwave non è la celebrazione del consumismo, ma la sua autopsia rituale. È la colonna sonora del supermercato dopo l’apocalisse, quando gli scaffali sono ancora pieni di roba ma non c’è più nessuno ad acquistare. Ascoltare vaporwave, per me, è come entrare in un sogno in cui l’ascensore non smette mai di salire.
Ogni nota è rallentata al punto da diventare una sospensione. L’effetto è ipnagogico, quella zona di mezzo tra veglia e sonno, tra realtà e immaginazione. In questo spazio, l’ascoltatore smette di distinguere tra suono e memoria, tra piacere e ironia. I produttori vaporwave — come Luxury Elite, Saint Pepsi, Telepath テレパシー能力者, o Vektroid, non cercano la perfezione tecnica: cercano ossessivamente l’imperfezione evocativa. I glitch, i disturbi, i rumori di compressione diventano la trama emotiva.
È come se il rumore del digitale fosse la voce del passato che tenta di farsi ascoltare, una psicofonia di media morti. L’effetto è straniante e sublime: ci si ritrova immersi in un oceano di basse risoluzioni alla “Tron”, in una dimensione dove il tempo non procede, ma oscilla come una tenda scossa nel vento. È il suono del “ritardo eterno”, del “quasi-ricordo” di qualcosa che non è mai successo.
La vaporwave è la metafisica dei neo anni Ottanta , dove l’originale era il linguaggio della modernità, la promessa di una gioia sintetica, di un’emozione programmabile con i synth ,mentre essa ne è la sua controparte delirante e contemplativa.
È come se la musica pop fosse stata riscoperta dopo un disastro nucleare, e un’intelligenza artificiale, trovandone frammenti casuali, tentasse di ricostruire la nozione di “emozione umana” senza comprenderla del tutto. Nel paesaggio mentale della vaporwave non c’è natura: solo architettura. Grattacieli senza finestre, centri commerciali vuoti, sale d’attesa infinite illuminate da neon rosa.
È un’utopia urbana abbandonata. Eppure, in questo vuoto, la vaporwave trova la sua poesia. La città è il luogo dove il sogno del futuro si è infranto, ma anche dove i fantasmi della modernità continuano a risuonare. Non è distopia, né ucronia, è un non luogo non abitato da non persone; vuoto, algido, colorato, ma non vivo organicamente.
Camminando nei suoni vaporwave, ci si sente come dentro un videogioco senza obiettivo e senza livelli, un file World di malinconia. Ogni loop è un corridoio senza uscita, ogni eco un ricordo di un sogno consumato dal tempo. C’è, tuttavia, un paradosso. Nella sua ironia glaciale, la vaporwave finisce per generare una nuova sincerità. La ripetizione, la lentezza, l’uso ossessivo della nostalgia digitale, producono un effetto di commozione involontaria. L’ascoltatore, inizialmente distaccato, finisce per sentire qualcosa di autentico in quel mondo artificiale; almeno con me funziona così.
È come se la macchina, nel tentativo di imitare il sentimento, finisse per crearlo davvero. È qui che la vaporwave si distacca da ogni forma di cinismo postmoderno: nel suo fondo più profondo, essa desidera ancora qualcosa. Nonostante la superficie ironica, la vaporwave è un atto d’amore verso l’idea stessa di sogno. È il desiderio, assurdo ma necessario, di credere ancora nel futuro, anche se solo come eco di un sogno perduto. Rigorosamente in formato VHS e possibilmente con una confezione senza toni di grigio e il bianco e nero.

