In viaggio col muto – Chiacchiere netturbane

Stavo guardando Fargo, l’altro giorno. C’è questa scena in cui Buscemi se la prende con il suo comprimario, Stormare, perché è un tipo che non parla granché, mentre lui attraverso il dialogo costante definisce se stesso agli occhi del prossimo. Soprattutto questa per lui è la cosa più importante, fare due chiacchiere col mondo. L’altro, il silenzioso, non ha assolutamente bisogno di parlare. Ogni volta che Buscemi dice qualcosa, gli rivolge uno sguardo vagamente irritato. Cosa gli sarà capitato nella vita per essere così, mi domando io, da spettatore. Uno si immagina che abbia vissuto esperienze terribili e che quel suo modo di non comunicare rappresenti una specie di livello superiore di consapevolezza dovuto al dolore, alla delusione, alla dura educazione che la vita gli ha impartito. Per la verità, entrambi questi tizi sono uguali. Entrambi hanno un solo interesse, i soldi. E sono pronti a uccidere per averli. Anche uccidersi tra loro.

Dal film alla mia vita. Sono un po’ di giorni che presto servizio in un cantiere vicino a dove lavoro. Per ragioni che non vi sto a spiegare, c’è un collega che viaggia con me. Lo chiamano il muto e potete immaginare quindi dove sto andando a parare. Io sono abbastanza timido di natura ma nel tempo, diventando adulto, ho sviluppato questa tendenza a parlare molto, specie con le persone che conosco poco e con cui devo stare forzatamente per un certo periodo di tempo. Di solito sono colleghi di lavoro o amici della mia compagna.

E quindi io parlo, loro rispondono. Loro dicono cose e io dico altre cose. Io cerco di tenere il livello della conservazione su livelli medio-semplici. Non mi lancio in riflessioni filosofiche, letture psicanalitiche di mio zio, e di certo non mi dilungo in comparazioni tra il black metal norvegese e quello greco di inizio anni novanta. Provo a dire cose simpatiche, cose tranquille, concrete, su misura di uno che in genere non ha una laurea in lettere, non sa distinguere un Picasso da un Mutandari e non gliene frega una ceppa di Lars Von Trier. Quindi, calcio, meteo, incidente sulla Cassia della notte prima, l’ordine di servizio, il lavoro, che bella fica quella che attraversa la strada, la guerra, il problema climatico.

La metà delle cose che dico io mi sembrano comunque intelligenti, interessanti, simpatiche e in genere ricevo buoni giudizi dai colleghi. Dicono che sono i paroloni. Nonostante provi a non inserire mai episteme, pleonastico, fellatio o latebra, il mio vocabolario è ancora troppo ricercato per loro.

In cambio della mia brillante ma ribassata convesazione loro mi offrono stralci biografici che mediamente mi appassionano conditi di luoghi comuni da spararmi in testa. Mi fa impazzire sta cosa. Ci sono persone che hanno vite piene di tragedie e di epifanie, ma non sanno tradurle al di fuori del classico stock di frasi fatte comprate dal cinese in una scatola con su scritto “per le conversazioni in treno o alla fermata del pullman – la frase giusta che uccide ogni pimpante conversazione. La lapide da mettere su ogni discorso”.

Peccato che molte volte il tenore delle chiacchiere in un bar e a casa, tra pochi intimi, sia vicino a quello nell’ascensore o sul balcone tra dirimpettai. La gente non si ascolta e la gente non ascolta chi ha davanti. Usano pensieri e riflessioni non propri e ancor peggio, li esprimono attraverso degli slogan del tipo “i calciatori andrebbero tutti mandati a zappare” o “i politici rubano tutti quanti”, “le donne sono tutte troie”, “solo alla morte non c’è rimedio”.

Secoli e secoli di filosofia e di poesia e tu te la cavi con “solo alla morte non c’è rimedio!?”

Tutti si parlano nei pantaloni. Per questo, se non sono costretto, di solito evito gli altri e parlo poco, se non mi capita, di rado, di far sul serio con qualcuno a cui tengo e che mi dia l’impressione di aiutarmi a capire qualcosa di questo casino che ho dentro di me (o dentro di lui).

Però sono lì col muto e andiamo lungo la superstrada diretti al cantiere e io parlo, parlo.

Di noi due, chiaramente sono io a riempire il silenzio e lui mi osserva di tanto in tanto. A volte si accende una sigaretta e a volte no. Capita che risponda se gli faccio una domanda, con poche parole senza sapore, ma non mi fa mai domande. Lui non racconta niente. Lui è il muto, appunto.

E io più lui sta zitto e più parlo. E mi accorgo di due cose, dopo un po’. O meglio, credo che il suo silenzio partecipe mi faccia capire due cose. Una che dico tanto degli altri ma non mi ascolto nemmeno io quando dico le mie fregnacce, altrimenti eviterei.

Due, sto solo cercando di convincere quest’uomo che non mi è niente e che non incontrerò e non avrò al fianco già da un minuto dopo la timbratura dell’uscita, che sono un tipo a posto, normale, ragionevole, vale a dire, tutto il contrario di ciò che sono davvero. Non gli parlo per raccontare chi sono, ma per vendergli un surrogato socialmente accettabile di quello che sono.

Insomma, voi leggendomi l’avete capito che io non sono normale. Non sono un tipo che ragiona di cose normali e non sono a posto in niente, ma voglio convincere quest’uomo silenzioso che non è così.

Come se gliene freghi qualcosa. E il suo silenzio sembra dirmi che non gliene può fregare di meno.

Lui non parla, non dice niente, non chiede. Lui fuma. E mentre io gli racconto di come mi sono arrabbiato con un collega e perché la mia rabbia sia motivata e giustificabile e “ragionevole” o di quanto giudichi “ragionevolmente” inopportuno il comportamento di un automobilista davanti a noi, lui annuisce, mi guarda un secondo e poi torna a fumare o a non fumare ma restando in silenzio.

Non mi giudica mica. Non mi sento giudicato. Il muto tace e io dico la mia però… Ricevo un messaggio che via via diventa più chiaro, mentre il mio chiacchiericcio si dirada, non aiutato dal rincalzo di un altro conversatore attivo.

Il muto col suo silenzio dice che dovrei tacere anche io. Ecco ciò che mi domanda. Taci, non c’è bisogno di dire niente. Andiamo dove dobbiamo andare, facciamo il nostro lavoro e basta. Tu sei quello che sei, chi se ne fotte. Io sono quello che la tua fantasia ti dice, ma non ti ammorberò a convincerti che ti sbagli sul mio conto. Tanto ti sbagli. E sai una cosa? Mi sbaglio anche io. Non ho la più pallida idea di chi io sia. Mi sembrava una volta, ma dopo ho capito che sono tutte balle. E quindi taccio. E non dico e non mi dico balle.

Sono così incapace di star zitto che rendo ciarliero anche il silenzio di un altro.

Ma se tacessi anche io, cosa succederebbe allora?

Questo cazzo di furgone non ha neanche l’autoradio.

Nel silenzio, tra me e lui, annegherei di sicuro. Lui galleggerebbe nel suo niente. Anzi nel suo mutismo. Ecco perché Buscemi si incazza con il suo compare silenzioso. Lui parla, dice la sua sul mondo, sulle cameriere, sulle donne, sulla lotteria di capodanno e con quelle opinioni, snocciolando la sua filosofia spicciola, presenta, sostiene, difende un se stesso ammissibile, accettabile, commestibile a uno che più lui parla e più l’altro sembra detestarlo a prescindere.

Quando il suo piede spunta dal grosso tritacarne, alla fine del film, e il tipo silenzioso tenta di spingerlo giù con una pietra, più che commestibile, Buscemi diviene “triturabile”. Ecco perché non aveva senso parlare, fare amicizia. Aveva ragione lo psicopatico. Curioso che il film abbia preso spunto solo per questo da un fatto vero: ma nella realtà è stato un marito a passare al tritatutto la moglie e in quel caso, il rapporto umano c’era eccome. Altro che stare zitti.

Quando parlo con qualcuno di loro, ovvero degli elementi della mia specie con cui devo avere a che fare, anche se non sono legato a loro da un sincero sentimento affettivo e da stima, devo tradurre me stesso in soldoni, rassicurare i miei simili che a modo mio, sono come tutti quanti loro, ma perché? Ma se è la mia stranezza a darmi senso? Mi nascondo in un mare di chiacchiere che si infrangono su quella faccia da scogliera del Muto.

Ho sempre pensato che lui fosse prigioniero del suo silenzio, ma inizio a pensare, ora che ci condivido un lunghissimo quarto d’ora al giorno, che sia libero dalle chiacchiere e dalle identità di comodo che tutti noi altri, disseminiamo lungo il percorso di vita che attraversiamo. Quando non ci saremo più, gli altri avranno ognuno un’idea diversa, una versione differente di noi, nella propria memoria. Dalla barista da cui ci facciamo fare il caffè la mattina all’ex compagno di classe alla nostra ragazza. Saremo decine di fantasmi pirandelliani che saltabeccheranno nella loro memoria. Uno, nessuno, centomila morti viventi.

Mentre il muto è e sarà per tutti, in eterno, solo il muto.

E basta.