“Se qualcuno volesse supportarci comprando un computer per ascoltare in streaming il nostro nuovo disco su Spotify e farlo ininterrottamente per un anno, noi guadagneremmo comunque di più se comprasse una maglietta direttamente da noi”. (Grant Netzorg)
Sono due le cose che ho trovato davvero interessanti, riguardo gli In The Company Of Serpents. Scrivo di loro anche perché penso che gli ultimi dischi siano notevoli e poi parlerò anche di questo, ma ora vorrei concentrare l’analisi su un paio di questioni che solitamente vengono date un po’ per scontate da chi butta giù un articolo su un gruppo o su un disco.
Intanto sono in giro dal 2011, hanno realizzato cinque dischi e un EP, senza mai affidarsi a un’etichetta. Non ne hanno nemmeno creata una farlocca tanto per far credere al pubblico che non siano senza. Penserete: come mai avrebbero dovuto fare una stupidaggine simile, eh? Beh, posso garantirvi che ci sono stati e ci sono ancora parecchi gruppi che lo fanno.
In ogni caso è vero pure che tante band indipendenti si stampano e distribuiscono le cose da sole, ma nel caso degli In The Company Of Serpents, la qualità è così alta che avrebbero potuto firmare un contratto con la Relapse senza problemi; solo che, facendo due conti e rinunciando alla vanità di poter dire “ehi, noi siamo su Relapse!” hanno deciso di continuare da soli e recuperare sulla rinuncia con la frase altrettanto d’effetto “ehi, abbiamo rinunciato a un contratto con la Relapse per la nostra integrità”.
E però attenti, non è l’integrità a ballare, qui,. Le ragioni sono presto dette: massimo guadagno; vivere una vita decente senza finire infognati in un tour incessante e andare in crisi davanti alla prospettiva di una mancata svolta commerciale verso il benessere materiale.
Bisogna sapere cosa si è e cosa si possa davvero divenire. Gli In The Company Of Serpents, nonostante abbiano avuto una discreta evoluzione nel corso degli anni, non si sono mai illusi sul proprio conto.
“Con queste canzoni non ci farai mai i soldi veri e non esistono etichette al giorno d’oggi, capaci economicamente di sostenere gruppi così poco accessibili al grande pubblico. Considerando che il mercato ormai nel giro indie è basato sulla vendita diretta di paccottiglia come magliette, toppe e dischi in vari colori e formati a tiratura ultra-limitata, è chiaro che non ci si possa permettere sogni di gloria ma concrete strategie fatte di entrate e uscite, buon artigianato e amore puro per ciò che si crea”. (Grant Netzorg)
Ho letto quasi tutte le interviste rilasciate dalla band e ho notato che, nonostante i limiti dell’autogestione, la prospettiva di affidarsi a un’etichetta non gli è mai interessata davvero e questo secondo me è un esempio che tanti dovrebbero seguire. Ciò che conta è la musica, la qualità dei dischi. Nel caso del loro quarto album Lux e dell’ultimo A Crack In Everything, davvero siamo a livelli creativamente molto felici e per quanto mi riguarda è tutto ciò che conta. Il resto sono stronzate. Non sto dicendo che uno debba rinunciare all’idea di guadagnare dignitosamente da quello che crea con grande amore e capacità artistica, quello resta un problema serio, ma che non tutti possono ambire a farne un lavoro suonando generi di estrema nicchia, questo sì.
Quello che mi sorprende è non riscontrare la minima notizia o anche la recensione dei dischi di questa band sulla maggioranza delle webzines italiane. Segno che se non ti mette qualcuno sul nastro trasportatore dei promo, chi scrive di metal in quei posti, non si accorge che esisti. Puoi essere in gamba e rilevante a livello internazionale (No Clean Singing e Decibel Magazine scrivono dei Serpents e dicono cose ottime) ma qui da noi, da Metalitalia a Truemetal, loro non esistono quasi. Questo secondo me la dice lunga sull’effettivo lavoro giornalistico dei nostri comprimari. Culi pesi che non siete altro (scritto con simpatia, eh?)
La seconda cosa che mi ha colpito degli In The Company Of Serpents è che prima di incidere un disco, suonano le canzoni per lungo tempo da vivo. Sono sempre stati un po’ frettolosi, impazienti. Per esempio hanno iniziato a suonare live come duo, chitarra e batteria, perché avrebbero perso troppo tempo a rimediare un bassista.
Denver, la loro città, è un posto molto ricco di band e buoni musicisti, ma il duo preferì sviluppare una formula diversa che però col tempo divenne limitante. Chitarra baritona e pelli non è che permettesse chissà quali varianti espressive. Infatti il primo album omonimo, uscito nel 2012, è davvero monotono e trascurabile.
Con le canzoni si comportano così: dato non vanno in tour, hanno il tempo di lavorare sui pezzi e suonarli nelle poche occasioni in cui si esibiscono. Quando li registrano in studio, probabilmente a Denver e nei paraggi, il pubblico di lì ha già sentito e risentito l’intero album che deve ancora uscire.
“L’alcol è una delle due droghe da cui si può sviluppare una dipendenza mortale a causa dell’astinenza. Alcol e benzodiazepine (i tranquillanti tipo Xanax, Tavor ecc.) sono le sole schifezze per cui si può morire se qualcuno te le toglie all’improvviso. Per un po’ sono rimasto bloccato in un ciclo di interruzioni e ricadute. Cedevo perché è molto facile. Mi ripulivo, diventavo sobrio e, dopo tre o quattro giorni in cui non mi sentivo più uno schifo e stavo meglio, mi si insinuavano pensieri del tipo: ‘Wow, beh, ce l’hai fatta. Chiaramente non è un problema. Allora perché non beviamo qualcosa per festeggiare?’. Poi, due settimane dopo ero di nuovo fisicamente dipendente”. (Grant Netzorg)
Il nuovo disco, A Crack Of Everything è un episodio particolare rispetto al resto degli album del gruppo. È tutto incentrato sulla dipendenza alcolica di Grant.
Ora, non vorrei essere cinico, ma non è la prima volta in cui qualcuno tenta di esorcizzare i propri demoni attraverso delle canzoni e so che non sempre questa sublimazione raggiunge risultati elevati sul piano creativo e nemmeno per quello esistenziale del poveretto che ha una dipendenza cronica.
L’album è molto ispirato e mostra un seguito nella crescita dei Serpents, che già con il precedente Lux avevano secondo me raggiunto una specie di apice espressivo. Stavolta i testi non sono formule ermetiche ma una confessione diretta della vita di merda che Netzorg ha fatto negli ultimi anni.
Non che i dischi prima non lo fossero. Per dire, l’EP Merging In Light parla del matrimonio di Grant; Lux invece è incentrato sulla nascita di sua figlia, ma si capisce poco e niente perché le liriche sono molto oscure.
Netzorg è in fissa con l’esoterismo e fare le cose in quella maniera è stato fin da subito necessario per lui. Lux però non è solo il periodo in cui diventava papà, ma anche quello in cui si rendeva conto di avere un problema con l’alcol. Un vero problema, molto più complicato di quanto credesse.
“Suona la campana che ancora può suonare. Dimentica la tua offerta perfetta. C’è una crepa in ogni cosa: è così che entra la luce”. Anthem – Leonard Cohen.
“Trovo che la luce sia ricca di simboli. L’abbiamo esplorata in diversi modi. I tre dischi precedenti a questo – Merging in Light, Ain-Soph Aur (luce senza limiti, tradotto dall’ebraico) e Lux – giocano tutti esplicitamente con la luce nei loro titoli, e l’idea della luce come una sorta di essenza primordiale mi affascina. In questo disco, la luce è lì implicitamente, piuttosto che essere direttamente nel titolo. (Grant Netzorg)
Grant racconta che a un certo punto, dopo i vari tentativi di smettere, sono venute fuori le nuove canzoni e lui si è aggrappato al processo creativo per tener duro e non tornare a bere.
Da lì è passato alla cosiddetta sublimazione artistica dei cazzi propri. Non poteva infagottare tutto in una coltre di versi occulti, ma dire a tutti in quale casino era finito con l’alcol. Ha deciso di usare il disco come rituale di distruzione della parte di se stesso che non ama (quella dipendente) e di purificarsi.
Adesso va in giro a suonare, presumibilmente da sobrio, questo disco-rinascita. Non può bere come prima e cantare quei versi la stessa sera. Di sicuro il tour è una sorta di lucchetto per la catena che ha deciso di mettere al frigo degli alcolici, ancora ben fornito e posto fuori dal camper della band. Ma ho i miei dubbi che sia tutto risolto.
Qualcuno mi ha detto una volta che l’arte non è un farmaco che risolve la malattia di cui uno è affetto (che sia depressione, dipendenza da questo o quello, manie suicide o che dir si voglia) ma una cura sintomatica. Nel senso che lenisce i sintomi, non risolve la causa. Paradossalmente la causa può diventare l’alimento creativo stesso e le opere che ne scaturiscono gli antidolorifici per coabitare tutta la vita con il medesimo, profondo dolore. E questo genera talvolta un rapporto di dipendenza dalla malattia stessa che l’artista ha. “Forse, senza il male che mi distrugge, non creo più queste belle canzoni”, pensa, “quindi faccio in modo di continuare a soffrire, altrimenti la mia carriera è fottuta”.
Nel caso di Grant ci sono alcune questioni che potrebbero salvarlo: la mancanza di una carriera artistica e un legame profondo con la propria famiglia, con la propria città, oltre a una capacità innegabile di lavorare profondamente su se stesso. Non è un caso che abbia parlato in un’intervista di cura junghiana sull’ombra.
Sapete no, cos’è l’ombra per Jung? E sapete anche chi è Jung, giusto?
Va beh. Troppo lunga da spiegare, però diciamo che Grant mette in una canzone specifica del disco nuovo, “Until Death Darkens Our Door”, tutto lo schifo che sente di avere dentro. Questo procedimento gli permette di mostrarlo non solo a noi ma anche a se stesso, così da vedere la parte ombra e ascoltare cosa voglia dirgli.
“Until Death Darkens Our Door”, ad esempio, è un tentativo di fare ammenda per le cose terribili dette e fatte durante gli spasimi della dipendenza. Quella è stata l’ultima canzone scritta per il disco, e ho buttato fuori il testo poco dopo che a mia moglie è stato diagnosticato un cancro al seno. È il mio modo di cercare di riconoscere tutti i modi in cui ho sbagliato immensamente, impegnandomi anche a esserci fino alla fine non solo come me stesso ma anche con lei.” (Grant Netzorg)
Quindi, l’album funziona come una sorta di iper-sigillo. Un sigillo nel contesto della magia del caos è fondamentalmente un GLIFO (DISEGNO) che l’operante usa nel rituale e che rappresenta un risultato o un esito desiderato che sta cercando di ottenere.
“Un ipersigillo è fondamentalmente una materializzazione più ampia del male interiore, ma in un’intera opera creativa, in contrapposizione a un simbolo una tantum. Un famoso (e fantastico) esempio di iper-sigillo è il fumetto di Grant Morrison, The Invisibles”. (Grant Netzorg)
Quel pezzo di noi che non ci piace, non possiamo semplicemente rifiutarlo o rifuggirlo. Bisogna che lo accogliamo come un messaggero e ci confrontiamo con esso. Solo con questo inizio di dialogo, magari qualcosa può davvero cambiare. Nel caso di Grant, forse il disco non è solo un tentativo di cavarsela da una dipendenza, ma un rituale di salvazione che coinvolga l’ascoltatore e il pubblico dal vivo rendendoli complici di questo suo esorcismo. Bello, no? Forse troppo per essere vero. Io credo che non si possa vincere la guerra con se stessi in una sola grande battaglia e che probabilmente non basta una sola vita per trovare una soluzione che dia pace a tutte le parti di noi.
Però A Crack In Everything è un disco riuscito e quello va riconosciuto a Grant e garantito a tutti coloro che vorranno ascoltarlo.
Forse si è un po’ perduta la spinta coinvolgente di alcuni riff squadrati, presenti su Lux, dove penso sia emersa addirittura l’influenza dei Metallica, ma c’è un maggiore sviluppo dell’elemento western che rende l’atmosfera molto più inquietante e sofferta.
Grant riconosce tra le proprie influenze il lavoro di Ennio Morricone dei film di Leone/Corbucci ma anche quello di Neil Young nel western post-mortem “Dead Man” di Jarmusch. Trovo che questa commistione tra sludge, doom e vecchio west, sia non solo in tono con le origini della band, visto che vivono in Colorado, ma produca quel senso di malattia e di redenzione che il disco vuole esprimere.
Basta ascoltare “Cinders” o la già citata Until Death Darkens Our Door.
Ho sempre trovato lo sludge un genere noioso e poco appassionante per i miei gusti, ma come ho sempre detto, la grande musica trascende i generi e arriva da tutte le dimensioni creative si riesca a farla partire.
Un esempio potrebbe essere il brano iniziale “Don’t Look in the Mirror”, con il cambiamento di testo nel ritornello. Le prime due volte Grant canta “Non guardarti allo specchio, così non vedrai questa maledizione. Non guardarti allo specchio perché stai inseguendo il tuo carro funebre”.
L’ultima volta che canta il ritornello però il testo è diverso e succede al culmine di una musica molto potente e crescente:
“Vai a guardarti allo specchio, osserva il prezzo pagato. Vai a guardarti allo specchio, ripara quest’anima spezzata”.
Racconta l’inizio della battaglia interiore di Grant. Il brano di per sé non ha chissà quali guizzi di originalità, ma la musica + l’interpretazione e le parole di Netzorg lo trasformano in qualcosa di grandioso. Perché arriva il momento in cui devi affrontare quello che c’è dall’altra parte dello specchio e l’ultimo ritornello, quando la frase negativa diventa affermativa, è un momento che ti prende al collo e ti trascina dentro i casini di Grant e probabilmente anche i tuoi, mandando a puttane ogni distacco. Stiamo parlando di un uomo che prova a vedersela con i propri demoni, sul serio. E chi di noi non riesce a capire di cosa si tratti, cazzo?

