Gli Holy Barbarians di Ian Astbury

Viviamo in quel luogo distopico-nevrotico in cui le cose cambiano continuamente. In un certo senso siamo abituati a quello spazio di ansia nevrotica e le persone sono preparate a tutto. Voglio dire, se succedesse domani la fine del mondo, la gente trascenderebbe molto rapidamente in modalità post-apocalittica. Penso che vedresti la gente arrivare subito alla barbarie. Il barbaro non è troppo lontano dalla porta – Ian Astbury

A rileggere questa dichiarazione del frontman dei Cult, risalente al 2016 o giù di lì, penso a quanto l’esperienza più vicina all’Apocalisse, vale a dire il Covid, abbia mostrato che i barbari li dovremo aspettare un bel pezzo e che non era Astbury o tutte le cassandre del rock e del cinema horror ad aver visto nel futuro, ma un mite poeta greco di nome Kavafis. Ricordate la conclusione della sua poesia più celebre Aspettando i barbari?

S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.

Tornando a Ian, ricordo quel suo progetto estemporaneo di metà anni 90: gli Holy Barbarians, nome ispirato al titolo di un libro inedito in Italia, scritto da un certo Lawrence Lipton sulla cultura beatnik.

Vi dice niente la parola beatnik?

Beh, io direi che Asbury lo era in pieno negli anni 90. E dopo aver lasciato i Cult fece proprio una cosa drastica alla Jack Kerouac:

A un certo punto non potevo più dividere il mio spazio con Billy Duffy. Ho capito dopo molti anni che lui non sapeva chi diavolo fossi. E così sono tornato a casa e ho bruciato nel barbecue del mio giardino qualsiasi cosa avessi in casa legata ai Cult. E sono partito verso il Tibet, su una montagna. In mezzo a una bufera di neve ho attraversato dodici chilometri nella tormenta andando in ipotermia e credendo di morire. Ma non sono morto e al mio ritorno ho formato gli Holy Barbarians. Quello è stato il mio periodo da solista e del mio attivismo per la liberazione del movimento tibetano… in quei 4 anni sono successe tante cose. Quegli anni desolati. Avevo anche due figli maschi, quindi è successo molto.

Il disco si intitola Cream e ormai potete trovarlo giusto in una discarica. Non è tanto male, nonostante le riserve di Alex Ventriglia, che su Metal Hammer lo stroncò, pretendendo da Astbury senza il suo gemello Billy, un nuovo Sonic Temple o che so io.

Già dopo l’omonimo del 1994, era chiaro quanto il gruppo avesse gettato alle spalle il ciarpame metallaro degli anni 80. Asbury era pronto a cavalcare con una tavolona da surf da qualche milione di dollari, la nuova onda alternative post-grunge. In seguito è venuto fuori che quel cambiamento aveva reso entusiasta lui e profondamente amareggiato Duffy. Tra i due le cose andavano male già dopo Ceremony e la tossicodipendenza del cantante aveva ispirato le peggiori asperità verso il suo compagno, fino al totale mutismo inconciliabile tipico delle formazioni annose del rock che tirano avanti odiandosi fino a quando non crepa qualcuno.

Per Ian gli Holy Barbarians erano un nuovo inizio, fuori dalle pressioni e le aspettative di cui i Cult erano stati carichi a scoppiare. In quell’anno e mezzo, tra la registrazione del disco Cream e il conseguente piccolo tour, Asbury se la spassò, sbroccò, fece un sacco di casini ma non riuscì mai a credere fino in fondo che era quello il futuro che voleva.

Fu per colpa dei Buckcherry se i Cult si riformarono. O almeno così racconta Matt Sorum. Non potevano tollerare che una loro versione annacquata raccogliesse così tanto successo.

Nel breve lasso di tempo in cui gli Holy Barbarians rimasero in vita Ian tentò di scalare la montagna del rock, fino alle proprie origini glam alla Bowie anni 70 e al British psychedelic pop. Scaruffi parla di prog-rock e c’è chi accusa il gruppo di essere un tentativo spudorato di accodarsi al treno del brit-pop ma secondo me proprio non ci siamo. Secondo me non è così.

Astbury a quel punto voleva viaggiare leggero e optò per questa miscela semplice, un po’ sghemba, da vivere assieme a tre brutti ceffi in grado di parlar male e mangiar male come lui.

Brother Fights è una gran botta per cominciare, You Are There è rock d’autore sopraffino e She è una sirena su cui appoggiare le palle nude e godersi la propria tossicità irreversibile. Queste definizioni non vi dicono assolutamente un cazzo, me ne rendo conto. Facciamo prima: le canzoni sono tutte buone, se mi prendete in parola. Vi dico che Cream è un lavoro di cui Astbury non ha alcun motivo di vergognarsi a distanza di tanti anni, se si ricorda ancora di averlo realizzato. Dentro non ci troverete quella smodata voglia di creare un nuovo impero di rabbia e non rappresenta un tradimento verso il proprio passato. Astbury ha fatto di tutto con quella voce: gothic, metal, dance, pop.

Per me è la cosa più genuina che potesse fare in quel periodo, mettiamola così. Era Pure Ian.

Si tratta di una fase in cui il rocker non ha nessuna intenzione di venir fuori dal vicolo cieco in cui si è infilato. Sta ballando e bevendo con gli amici in fondo a quel putrido scorcio di Liverpool, tra secchi dell’immondizia, cadaveri di cani e la cosa che striscia nel buio.

Gli Holy Barbarians erano come un gruppo di adolescenti: salivamo su un furgone, bevevamo birra, ci drogavamo, e, presumibilmente, ci mettevamo nei guai in giro per l’Europa e gli Stati Uniti. Voglio dire, siamo andati fuori controllo. Io ho dato di matto per un anno e mezzo. La gente veniva ai concerti, sia che fossero fan dei Cult o i tipi del posto. Noi facevamo tutte queste canzoni dei Barbarian, poi chiudevamo con The Witch e Wild Flower e la gente impazziva. È stato fantastico fuggire dai Cult e da quella maledetta struttura aziendale, ecc. Una volta che mi sono liberato di tutto ciò, ho deciso che ero pronto a riformare di nuovo i Cult.

E fu un disastro su tutti i fronti, aggiungo io. Ma di questo riparleremo.